Profughi climatici pianificati e partecipati

foto Walter Gerard – The Guardian

Negli ultimi quattro anni nelle isole Figi una task force governativa provava a capire come spostare l’intero paese. Ne è uscito un progetto di 130 pagine, testo molto denso, intricati grafici, fasi di attuazione particolareggiate. Il documento ha un titolo poco vistoso: Procedure Operative Standard per Rilocalizzazioni Programmate. Ma si tratta del progetto più approfondito mai concepito per affrontare le principali urgenze della crisi climatica: spostare città e territori abitati le cui case e abitanti saranno presto, o già in parte sono, sott’acqua. Un programma titanico. Le isole Figi, nel Pacifico meridionale a quasi tremila chilometri dall’Australi, sono oltre 300, con una popolazione di poco meno di un milione di abitanti. Come la maggior parte dell’area del Pacifico, sono parecchio esposte agli effetti acuti della crisi climatica. Le temperature di superficie e il calore dell’oceano n qui crescono tre volte più in fretta della media globale. Forti cicloni colpiscono normalmente la regione. Nel 2016, le isole sono state colpite da Winston, con 44 morti e danni per 1,4 miliardi di dollari, un terzo del Pil nazionale. Da allora sulle Figi sono passati altri sei cicloni. Nel Pacifico stanno cinque dei quindici paesi più a rischio di eventi climatici estremi: le isole Figi sono al quattordicesimo posto.

Quello che si sta tentando di fare qui non ha precedenti. Per anni scienziati e politici hanno discusso le prospettive della migrazione indotta dal cambiamento climatico. Nelle Figi e nel resto della zona pacifica questa migrazione è già cominciata, e il problema non è più se spostare o meno le comunità, ma come farlo. Oggi 42 villaggi sono già stati individuati per la rilocalizzazione entro i prossimi 10 anni per gli impatti del clima. Sei hanno già traslocato. E per ogni ciclone o altra calamità che colpisce cresce il numero dei villaggi da aggiungere all’elenco. Spostare un villaggio in un territorio montuoso e boscoso come quello delle Figi rappresenta un lavoro incredibilmente complesso. «Proviamo continuamente a spiegarlo» ci raccontava l’anno scorso Satyendra Prasad, ambasciatore all’ONU. «Non si tratta semplicemente di prendere trenta o quaranta case e collocarle più in alto, magari fosse solo così».

E via elencando la serie di cose che si spostano insieme alla casa: scuole, ambulatori, strade, elettricità, acqua, servizi vari, la chiesa. «E una volta finito anche quello si deve spostare il cimitero dove stanno sepolte le persone. Provateci». Se non altro, Prasad prova a comprendere le vere sfide, che non sono solo logistiche – già quell’aspetto cosa difficilissima – ma economiche, politiche, addirittura spirituali. Il documento di Procedure Operative Standard per Rilocalizzazioni Programmate oggi è nelle fasi finali di pubblica consultazione e presto passerà agli organismi politici di approvazione definitiva. «Nessun altro paese per quanto ne so è mai arrivato sino a questo punto di programmazione delle rilocalizzazioni a livello nazionale» spiega Erica Bower, esperta del settore e collaboratrice sia dell’ONU che del governo delle isole Figi. «Si tratta di questioni che dovranno fatalmente porsi altri governi e amministrazioni di tutto il mondo nei prossimi dieci, o venti, o cinquant’anni»

La prima rilocalizzazione (parzialmente) riuscita

Vunidogoloa, villaggio di circa 140 abitanti sull’isola di Vanua Levu, la seconda dell’arcipelago, ha il triste primato di essere stato il primo spostato per la crisi climatica. Diciamo un esperimento di verifica del concetto, e per questo meta di parecchi visitatori negli anni. Sailosi Ramatu, che spesso porta questi visitatori dove un tempo c’era il villaggio e dove sta oggi, racconta le cose senza doverci neppure pensare un po’ su. Oggi sessantaduenne, era il capo villaggio nel 2014, quando tutto inizia. Vunidogoloa si trova a due ore in auto dalla città principale dell’isola, Labasa, e quando ci vado lui mi porta prima di tutto dov’era il vecchio villaggio. Ramatu qui ci è nato, e pensava di morirci. Ma è diventato una città fantasma. Restano in piedi una ventina di case abbandonate, il vento che sibila tra porte spalancate e vetri rotti alle finestre. Tetti sfondati, pezzi degli edifici che mancano qui e là, erbacce e rampicanti ovunque. Quello che era il prato di un parco per trovarsi a fare un picnic in compagnia adesso è un acquitrino.

Il dibattito sullo spostare o meno il villaggio di Vunidogoloa inizia davvero verso il 2004. Due anni più tardi gli amministratori locali chiedono al governo provinciale sostegno per iniziare la rilocalizzazione. Ci vogliono diversi anni per individuare una nuova posizione, un paio di chilometri più nell’entroterra ed elevata, e predisporla. La rilocalizzazione è l’ultima possibilità, dopo un adattarsi e riadattarsi alla fine del quale non si poteva più andare oltre. Alla spiaggia su cui si affacciava il villaggio, Ramatu mi mostrava dei blocchi di calcestruzzo semisepolti dalla sabbia: le fondamenta della sua vecchia casa. Nei decenni mentre il mare avanzava la famiglia quella casa l’aveva spostata e poi spostata ancora. Ci sono i resti di un frangiflutti a qualche metro dalla sponda. Il secondo realizzato dal villaggio dopo che ondate e tempeste avevano distrutto il primo. Ma anche quello col tempo inutile. L’idea di poter rilocalizzare il villaggio in realtà risale fino alla metà del secolo scorso, quando ha iniziato a vedersi aumentare il livello del mare, e quindi la consapevolezza è cresciuta nelle generazioni. Ma anche così è molto doloroso andarsene, soprattutto abbandonare gli antenati. «Lasciavamo nonni, genitori, tutto. Andarcene quel giorno significava diventare stranieri in terra straniera. Si facevano le valige, si caricava tutto su un camion, si piangeva prima di salutare per sempre la propria casa, era l’ultima volta».

La nuova Vunidogoloa è fatta di trenta casette verde chiaro sparse sul tappeto incredibilmente verde di un pendio collinare. In quella di Sera Naidrua quando ci entro, le pareti sono coperte di stoffe colorate e una brezza soffia dalla porta e finestre spalancate. La padrona di casa ha steso sul pavimento una tovaglia a quadretti sulle tonalità del verde, e sistemato contenitori di plastica per le posate, piatti di vetro colorato, tutto pronto per il pranzo: rourou (foglie di taro cucinate in latte di cocco) e cassava. Il suo gatto rossiccio le sta seduto accanto. Naidrua, settantaquattro anni, versa il tè freddo in coloratissime tazze di plastica, e molto emozionata ricorda il vecchio villaggio. Di quando da bambina raccoglieva i frutti del dilo, sulla riva del mare, da usare come giocattoli. Ma in fondo «È stata una giusta decisione quella di trasferirci qui». Prima «Avevamo solo paura dei cicloni, delle inondazioni che si abbattevano sul villaggio» mentre adesso «Qui ci sentiamo al sicuro».

Per trasferire un villaggio idealmente servono due cose: «Terreno e materiali, legname, pietra, ghiaia, sabbia» schematizza Simione Botu, capo villaggio attuale. «Se non ci sono quelle iniziano i guai». E almeno da quel punto di vista Vunidogoloa è stato fortunato. Gli abitanti non hanno dovuto trattare con qualche popolazione insediata e organizzata su territori confinanti né con il governo, per sistemarsi lì. La terra era già loro compresa nei confini mataqali (di clan) e qualificata sicura per ricostruire. C’era già un bosco per il legname delle abitazioni. Così, se l’amministrazione delle Figi ha in larga misura finanziato il trasferimento, e la International Labour Organization sostenuto la manodopera necessaria alle costruzioni, è stato il villaggio stesso a contribuire per le risorse materiali.

Ma non sono mancati degli errori. Basta verificare con chi ha operato secondo le linee guida operative delle Figi, e immediatamente ne spunta e rispunta uno in particolare. Nella nuova Vunidogoloa tutte le case sono ricostruite senza cucina. I programmi iniziali prevedevano che ciascuna abitazione fosse dotata di una cucina esterna da realizzare in una seconda fase della costruzione, terminato il corpo centrale, ma quella fase non è mai arrivata. E alla fine gli abitanti le cucine se le sono fatte da soli recuperando qualcosa dal vecchio villaggio. Makereta Waqavonovono, di Climate Tok, che lavora con le comunità rurali per l’educazione al cambiamento climatico, spiega che si tratta di qualcosa di peggio della mancanza di fondi o di un progetto edilizio restato a metà: il fatto è che manca la consultazione con gli abitanti, e si ascolta solo qualche esponente maschio. «E spicca proprio il fatto di essersi scordati delle cucine» conclude elencando quanto emerge da una lettura critica del trasferimento di Vunidogoloa . «Cosa significa? Significa che le donne non sono state affatto consultate».

La nuova collocazione crea anche nuovi problemi. Vicina a una strada, così gli abitanti possono raggiungere un centro più importante per i servizi sanitari e le scuole, ma la maggiore mobilità e scambio vuol dire anche diffusione dell’alcol là dove prima non se ne consumava affatto, e di quelli che Botu definisce «comportamenti criminali». Dopo il trasloco il villaggio si è organizzato un sistema di ronde per controllare le regole di comportamento, specie sul consumo di alcol, i rumori molesti, i comportamenti antisociali, tutte cose inesistenti prima secondo Botu. La nuova localizzazione sta nell’entroterra, il che rende la pesca – prima parte essenziale della vita e dell’alimentazione – qualcosa di meno facile ed essenziale. Sono in molti gli abitanti che ancora vanno a piedi a pescare due o tre volte la settimana nel tratto di costa abbandonato. Ma secondo Naidrua gran parte del villaggio considera che i vantaggi della nuova posizione controbilancino ampiamente gli eventuali svantaggi. Le nuove abitazioni hanno sistemi di scarico igienici, pannelli solari, gabinetti moderni. Ad ogni famiglia corrisponde una casa, mentre nel vecchio villaggio il medesimo alloggio poteva essere occupato da anche due o tre. Più facile anche coltivarsi un orto o un campo qui, rispetto a quel suolo sabbioso e impregnato di sale. Insomma una rilocalizzazione tutto sommato riuscita per il meglio.

«Draft Zero»: da dove si comincia

Non sono in molti a conoscere a fondo le Procedure Operative Standard quanto Leba Gaunavinaka, specialista tecnica al Ministero delle Figi per il cambiamento climatico. Durante la discussione via Zoom, scambia numerosi grafici che mostrano le varie fasi di una rilocalizzazione. Che evocano in qualche modo un gioco di avventura: se il territorio è iTaukei, di proprietà indigena, la domanda di trasferimento è conferita al consiglio consultivo provinciale. Se invece il terreno non è di proprietà indigena, allora il riferimento sarà il Ministero per la Casa e le Trasformazioni Urbane. Se si valuta un rischio terremoti o frane, studi e previsioni si affidano al Dipartimento Risorse Minerali. Quando il rischio sono i cicloni all’Ufficio Meteorologico delle Figi. Con l’obiettivo di prevedere e programmare ogni cosa.

Il Documento Operativo è stato scritto e riscritto innumerevoli volte dalla fine del 2020, quando è stata redatta l’originaria bozza Draft Zero al termine di discussioni tra l’ente tedesco pubblico incaricato delle consulenze generali, altre agenzie internazionali e il governo delle isole Figi. Dopo due anni di ulteriori discussioni, il documento operativo standard affronta la verifica sul territorio, recependo via via le esperienze. «Abbiamo rilocalizzato sei comunità sinora – spiega Gaunavinaka – apprendendo parecchio e trasferendo quelle acquisizioni nel documento». Un esempio di come si sia evoluto il Documento Operativo è il coinvolgimento delle donne nelle procedure di trasferimento. «Per chi osserva da fuori forse può apparire facilissimo sostenere che certo anche le donne vanno coinvolte» commenta Christine Fung, dell’ente di consulenza internazionale GIZ. «Poi dentro lo sviluppo reale dei processi si nota qualcosa di diverso, dicono sempre SI agli incontri però a ben vedere non esprimono affatto la voce delle donne … Qui culturalmente si delega agli uomini».

Nel documento operativo si è provato ad affrontare questo aspetto, prosegue Fung, introducendo una consultazione separata per le donne – oltre che per altre fasce della comunità – sui modi del trasferimento, e richiedendo che l’approvazione del 90% dei residenti prevista non riguardi quella quota aggregata ma sia scomponibile anche nel 90% degli uomini favorevoli, 90% delle donne favorevoli, 90% degli anziani favorevoli, 90% dei giovani favorevoli, 90% degli LGBTQ favorevoli, 90% dei disabili favorevoli. Tutto da stabilire prima di cominciare la discussione col governo sul trasferimento. Chi lavora sul programma di indirizzo lo definisce un «Documento Vivo». Ad agosto associazioni della società civile, chiese, organizzazioni senza scopo di lucro, si sono riunite a Suva, capitale delle Figi, ad aggiustare e sintonizzare il programma, chiarendo il proprio e altrui ruolo nella comunicazione e adeguamenti periodici. «Intendo dire che praticamente ogni mese emerge qualcosa di nuovo, si decide un incontro, e si discute come fare perché certi errori non si ripetano più – prosegue Fung – si tratta di esperienze vive, umane, che cambiano di continuo».

Secondo il governo il Documento Operativo dovrebbe risolvere le incertezze della rilocalizzazione. Sinora, se un villaggio fosse pronto al processo di trasferimento, e se quel trasferimento poi funzionasse come si deve, dipendeva dalla capacità e disponibilità dei leaders locali di villaggio. «Dalla discrezionalità del capo villaggio, e delle agenzie governative responsabili, valuta Vani Catanasiga, della direzione Servizi Sociali delle Figi, una ONG consulente del governo sui programmi di rilocalizzazione. Si vorrebbe standardizzare il processo. Una volta ottenuto il consenso, si iniziano una serie di valutazioni a stabilire le necessità e i rischi, oltre a definire le disponibilità di territorio. Si analizza ogni opzione di adattamento: bonifiche di superfici confinanti, adeguamenti dei corsi d’acqua e canalizzazioni, case su palafitte e drenaggi. Solo quando e se si sono esaminate tutte le alternative, dopo approfondite consultazioni con la comunità, è possibile agire. Però anche a quel punto, stabilito che sia essenziale il trasloco, mancano due cose: risorse finanziarie e accessibilità dei terreni.

Un villaggio pronto a spostarsi, ma DOVE?

Per gli abitanti di Nabavatu, il problema è trovare spazio. Fino all’anno scorso nessuno aveva mai pensato a spostarsi. Il villaggio, costruito su una collina dell’isola di Vanua Levu, sul fiume Dreketi, non ha visto crescere lentamente il livello del mare e il degrado dei terreni. Ma nel gennaio 2021, è stato colpito dal ciclone Ana. «Il primo che avessi mai visto in vita mia» ricorda Eseroma Lava, 66 anni, collaboratrice del capo villaggio. «Veramente spaventoso». Diciotto mesi dopo il villaggio era ancora uno scenario di distruzione. La sala comune, ipotetico centro di evacuazione in caso di emergenza, semidistrutta. Soffitto incavato, finestre sfondate. Dopo il ciclone una pioggia torrenziale aveva trasformato tutto in fango che franava sotto case e strade. Gran parte degli edifici, compresa la chiesa color pastello in cima al colle massima gloria del villaggio, si riempiva di crepe dalle fondamenta al tetto. Quando arrivarono i tecnici governativi a verificare i danni dissero agli abitanti che il terreno era troppo instabile per continuare ad abitarci. Meglio andarsene da lì.

Quando ci vado io in visita a luglio le 400 persone sono ancora nelle tende di emergenza da oltre un anno. 38 tende piantate nei terreni della chiesa Assemblea di Dio. Non c’è corrente anche se sono disponibili alcune batterie solari attive col bel tempo e di giorno. Chi vuole leggere o fare i compiti col buio usa se ce l’ha la torcia dello smartphone. L’acqua va e viene, non ci sono bagni a sufficienza: tutte le tende usano i servizi della chiesa tre per donne tre per uomini» sospira Lava.

Al tramonto sua figlia, Laisana Bilosiliva, ha appena fatto il bagno al piccolo nella vasca di cemento della cucina improvvisata fuori dalla tenda, condivisa da sette adulti e sei bambini. Problemi di privacy ma la sfida peggiore è quella del caldo secondo Bilosiliva. Durante il giorno dentro è bollente per i più piccoli che devono essere tenuti fuori all’ombra dell’albero di mango. E di notte fa un gran freddo dentro le tende.

Nessuno discute il fatto che il villaggio di Nabavatu debba essere rilocalizzato. Il problema era che il clan non possedesse terreni adeguati. Ma poco prima della mia visita, un anno e mezzo dopo aver deciso lo spostamento, villaggio e governo raggiungono un accordo per una superficie di proprietà pubblica da cinque ettari sulla medesima strada dell’insediamento temporaneo (Lava non spiega perché c sia voluto tutto quel tempo.) Su quel terreno spicca il cartello con dipinta la scritta «Rilocalizzazione di Nabavatu sostenuta dal governo delle isole Figi in accordo col villaggio. Progetto di adeguamento climatico». Nonostante la disponibilità del terreno però il nuovo villaggio di Nabavatu mentre sto scrivendo questo articolo ancora non ha cominciato a esistere. Lava sperava che si cominciasse a tagliare un po’ di legname nel bosco per le case. Non è ancora cominciato e ci vorrebbero comunque diciotto mesi di lavoro.

Tukuraki: quando qualcosa non funziona proprio

Ogni villaggio dei 42 dell’elenco di urgente trasferimento ha il problema del terreno. Quelli di proprietà indigena non possono essere comprati e venduti nelle Figi, ma un clan può accordarsi con altri per l’uso di terreni a nuovo villaggio. Senza alcun esborso di denaro. «Non esistono attese economiche – commenta una fonte governativa – Nella nostra cultura non c’è proprio, c sembra davvero assurdo. C’è magari una famiglia che ha bisogno di un terreno e lo si concede. Un’area inutilizzata. Ed è considerato qualcosa di cui si deve essere orgogliosi, che rafforza i legami tra i clan», Ma l’assenza di scambi economici talvolta può complicare le cose. Nel 2017, Tukuraki, villaggio dell’altopiano sull’isola principale di Viti Levu, si è trasferito su terreni del clan confinante dopo una serie eventi estremi. Nel 2012 Tukuraki ha subito una frana che ha ucciso una famiglia con due bambini. Lo stesso anno il ciclone Evan ha colpito le case temporanee, i raccolti, le strade e le reti. Poi nel febbraio 2016, il ciclone Winston, il peggiore nella storia delle Figi, ha distrutto tutte le capanne provvisorie costringendo le persone a rifugiarsi nelle caverne della montagna.

Nell’ottobre 2017, era pronto un nuovo villaggio di 11 case sui terreni di un clan confinante. Ma erano anche sorte tensioni tra gli ex abitanti di Tukuraki e il clan proprietario dei terreni. I cui membri non accettavano che quelle nuove case fossero dotate di bagni e cucine migliori delle proprie, oltre che di vasche per i pesci, pollaio e alveari da cui il nuovo villaggio di Tukuraki poteva trarre reddito. «Credo stia nella natura umana, hai dei terreni tuoi e all’improvviso vedi gente nuova che ci si insedia e ci sta benissimo» commenta Waqavonovono di Climate Tok. Secondo cui la situazione si complica ulteriormente per via della confusione sul tipo di accordo tra i due clan, oltre che per la scomparsa del capo villaggio che con Tukuraki l’aveva concordato. Chi conosce la situazione parla di sviluppi positivi tra i due gruppi, che richiedono del tempo. Ma a luglio quando visito le Figi persistono le tensioni, e gli esponenti di Tukuraki non lasciano entrare estranei. Nuove evoluzioni indispensabili nel Documento di Programma a partire da ciò che Fung chiama «esperienza Tukuraki»: da ora in poi qualunque ricostruzione di villaggio dovrà avvenire inserendo nel progetto anche la comunità che eventualmente concede lo spazio.

Una piccola porzione di fettina di finanziamenti

Una volta risolta la questione terreni resta aperta quella finanziaria del trasferimento. Costoso, e né il governo delle Figi né la comunità di villaggio da traslocare possono pagarsi da soli il conto. Il prodotto interno nel 2021 è stato di 4,59 miliardi di dollari, il 20% in meno rispetto al 2019, dopo che il Covid aveva eliminato il settore turistico. Ciò significa che l’intero prodotto interno delle Isole Figi vale complessivamente tanto quanto speso l’anno scorso dal governo britannico per il «Progetto Gigabit» perla banda larga in tutte le abitazioni.

I finanziamenti internazionali come quello Green Climate Fund sono scarsi: «Se guardiamo la quantità di fondi messi a disposizione per gli adattamenti climatici – spiega il Ministro competente in materia delle Figi, Aiyaz Sayed-Khaiyum – quanto destinato all’area Pacifico è solo una piccola porzione di una fettina». Ma di quei fondi cresce comunque il bisogno. Sayed-Khaiyum è Ministro per l’Economia, e mi racconta come sull’arco di mezzo secolo con tutti gli indispensabili trasferimenti di villaggi dalle aree costiere verso l’interno è destinata a cambiare radicalmente la geografia di tutte le Figi. «Oggi il 65% di tutta la popolazione vive in una fascia di 5km dalla linea di costa. Sono tantissime persone, molte destinate a trasferirsi verso l’entroterra».

Il governo ha dovuto trovare metodi innovativi per reperire i finanziamenti necessari alle rilocalizzazioni. Nel 2019, si varava il primo trust fund per le persone vittime di trasferimenti forzosi da cambiamento climatico. Le primissime risorse prelevate dalla Tassa Adeguamento Climatico e Ambientale che deriva dai contributi di alberghi, navi da crociera, traghetti, bar e locali notturni, cinema, ristoranti, e su tutti i redditi che superano i 117.000 dollari. Ma come sosteneva il primo ministro annunciando l’iniziativa ai margini di una assemblea generale delle Nazioni Unite del 2019 «non basta», e le Figi necessitano di contributi internazionali per rendere operativo il trust fund delle rilocalizzazioni. Nel febbraio 2020, la Nuova Zelanda è diventato il primo stato a contribuire direttamente a quel fondo 1,25 milioni di dollari. Ma è chiaro che di soldi non ce ne sono abbastanza per tutti i villaggi che hanno urgente necessità di trasloco. Secondo il Documento Operativo si sta progettando e attuando nel medesimo tempo. Per dimostrare come funziona e chiedere di farlo funzionare.

Chi va e chi resta

Quando i villaggi cominciano a considerare la rilocalizzazione, oltre a topografi, consulenti vari, funzionari pubblici e finanziatori, esiste un altro gruppo che entra in campo: i teologi. «Le popolazioni dell’area Pacifico rimangono profondamente spirituali .. e profondamente legate alla terra» spiega Netani Rika, della Pacific Conference of Churches (PCC), influente raggruppamento che unisce varie denominazioni cristiane. «Si tratta della terra che Dio ha consegnato agli antenati che l’hanno tramandata sino a noi, e non si può semplicemente abbandonare andando via e rinunciando alla propria responsabilità. Qualche volta basta che un sacerdote o pastore dica: che si stia qui o più in alto verso la montagna Dio resta sempre con noi, Dio è ovunque. Dio sta con noi sin dal principio e ci accompagnerà anche nel nostro viaggio. Sentitevi liberi di andare».

Per molti abitanti del Pacifico il principale ostacolo ad andarsene è il luogo di sepoltura. Difficile convincere i morti ad andarsene. Quando si rilocalizzano gli abitanti si trovano davanti alla scelta: abbandonare le spoglie degli antenati, oppure esumarle e portarle nella nuova terra In entrambi i casi esperienza profonda e traumatica. In un minuscolo insediamento di mezza dozzina di case, Togoru, a tre quarti d’ora di auto da Suva, il cimitero è già sott’acqua. Con l’alta marea, i pesci nuotano tra le lapidi degli antenati di Lavenia McGoon, settantene che ha deciso di restare qui. Il villaggio esiste dall’inizio del XIX secolo, piccolissimo, ci stanno venti persone. Molti di più quelli che vanno e vengono, vivono e lavorano altrove nelle Figi, e tornano qui per le vacanze o i fine settimana.

Quando vado a trovarla, McGoon ha visitatori che arrivano dall’Australia. Un folto gruppo di bambini si prepara per una spedizione, il più piccolino che pisola dentro un’amaca tesa tra e palme all’ombra. «Vede quant’è bello, tranquillo. Sto qui coi miei nipoti. Mio marito è morto nel 2013, sono serena, tutto a posto, quando voglio mangiare il pesce lancio l’esca senza neppure spostarmi. Vendiamo qualche noce di cocco, e basta». Pare una scena davvero idilliaca, salvo farsi una breve passeggiata di una trentina di metri oltre la fine della strada sulla costa, all’entrata del villaggio. McGoon in realtà sta ingaggiando una disperata battaglia contro l’oceano, ha ammucchiato sulla spiaggia vecchi pneumatici pieni di pietre per arginare le onde e non farle sbattere con tanta forza sulla costa in alta marea. Ma si calcola che Togoru perda un metro e mezzo di terreno l’anno. E nei primi sei mesi del 2022, secondo McGoon quei metri sono stati almeno cinque. Però non dà la colpa solo al cambiamento climatico. C’è quella diga sul fiume costruita per consentire la coltivazione del riso, che c’entra qualcosa. «Ad andare contro la natura succedono queste cose. Si fa impazzire l’oceano».

Il cimitero sommerso forse è l’esempio più crudo di ciò che va perduto. «Dappertutto nel mondo il cimitero, i defunti, le persone amate scomparse, sono qualcosa di speciale e che va tenuto in massimo conto» spiega McGoon. «È triste vedere un cimitero così». A Togoru non è prevista nessuna rilocalizzazione, non sta nell’elenco dei 42. Il governo ha più volte sollevato la questione coi residenti, che però non vogliono andarsene. È stato promesso a McGoon un nuovo frangiflutti dopo che il primo era stato distrutto dalle ondate. Lei vuole morire qui. «Sono troppo vecchia per rifarmi una vita altrove». Andandosene toglierebbe un po’ di futuro a Togoru. «Lo dico sempre ai miei nipoti: dove state miglioratevi, andate a scuola, realizzate i vostri sogni, guadagnate e siate felici, va bene così. Quello che sta succedendo lo vediamo tutti».

da: The Guardian, 8 novembre 2022; Titolo originale: How to move a country: Fiji’s radical plan to escape rising sea levels – Traduzione di Fabrizio Bottini

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