È curioso, ma forse non più di tanto, che attribuendo alla «cultura della città razionalista» determinati complessi e quartieri, ci si scontri puntualmente con gli sguardi di compatimento degli architetti e critici puristi: ma no, ignorante cretino, guarda che il vero razionalismo sta là, non qua. Dove il «là» quasi sempre sta a significare terrificanti alveari periferici, in stato di semiabbandono, del tipo che ospita comunità che nulla hanno a che vedere con quelle per cui erano stati pensati, simbolo e sostanza di fallimento sociale. Mentre il «qua», dove noi ignoranti fessacchiotti vedevamo chissà perché segni evidenti inequivocabili e pervasivi, di quell’idea di città macchina, è invece la zona semiperiferica borghese o piccolo borghese a densità medio-alta, dove il fatto stesso di operare secondo criteri di mercato ha superficialmente intaccato il purismo delle finestre a nastro, dei tetti piatti, dei balconi intagliati dentro la continuità geometrica delle facciate e tutto il resto. Ma l’impianto generale, se lo andiamo a verificare, resta assolutamente identico, con buona pace dei critici puristi. Ovvero, quei due quartieri se raschiamo da un lato il make up perbenista conformista, dall’altro le incrostazioni dell’inadeguatezza storica delle politiche, sono perfettamente identici. Ciò che li rende tanto diversi, lontani anni luce all’occhio comune, nulla ha a che vedere con l’architettura o l’urbanistica: è una questione di soldi.
La ricchezza della città
O meglio, per uscire dalla prospettiva contabile tanto in voga oggi, ha a che vedere con il cosiddetto «disinvestimento» di aspettative e risorse nei quartieri pubblici, un tempo pilastro sia della crescita urbana in senso puramente quantitativo, sia dei modi dello sviluppo cittadino come elementi ordinatori: e non è un caso se anche il quartiere borghese lì di fianco, si inquadra dentro la medesima cultura, le forme degli isolati, gli affacci, l’aggregazione degli alloggi, certi rapporti fra interno ed esterno. Ma in un caso l’obiettivo originario si è sbriciolato una volta esaurita la spinta degli investimenti pubblici, mentre nell’altro la «utopia razionalista» ha dovuto fare i conti con il potere decisionale e l’immaginario di chi teneva i cordoni della borsa, per quanto piccolina. Ma questo aspetto, dell’immagine esteriore, qui ci serve soltanto come metafora di un altro tema, ovvero la rigenerazione, perché salta all’occhio di chiunque almeno l’altra differenza tra i due tipi di quartiere: esprimono vitalità del tutto diverse, pur senza dire che l’uno è buono o l’altro cattivo a prescindere. Dunque ci sono due contenitori identici resi assai diversi dal loro contenuto, di cui uno (il quartiere borghese) pare porre meno problemi dell’altro (quello pubblico ex popolare degradato), ed è qui che casca l’asino della sballata lettura architettonica purista di cui sopra. Perché non sa leggere neppure la morte in agguato anche nel quartiere che pare più vivo, una morte sociale tenuta artificialmente in vita dal reddito.
Gentrificare la vita, non gli edifici
Se ribaltiamo la prospettiva di osservazione della vitalità nel due luoghi identici ma opposti, scopriamo ancora meglio il nesso spazio/società. Da un lato il citato disinvestimento pubblico produce degrado e vicoli ciechi sociali da assenza di prospettive diverse dalla devianza, salvo andarsene da lì. Dall’altro l’investimento privato si focalizza esclusivamente sul valore immobiliare, al punto da riprodurre in molti quartieri di quel tipo il modello del «dormitorio» di carattere suburbano. Ed emerge in realtà come i programmi di «rivitalizzazione delle periferie», se volessero davvero connotarsi come tali (e non ridursi all’ennesimo spreco di denaro in superficiali maquillage architettonici disgiunti da iniezioni di aspettative sociali) dovrebbero rivolgersi non ai soli quartieri problematici e a basso reddito di case popolari, ma interessare contestualmente anche quelli borghesi, magari con varianti urbanistiche non popolarissime tra gli abitanti. Come osservano gli esperti di sviluppo socioeconomico locale «Non possiamo consentire squilibri e disparità rta i quartieri. Dovremmo invece distribuire anche gli investimenti privati in attività, in modo da instaurare rapporti diretti tra abitanti e posti di lavoro. Una azienda cerca localizzazione e dipendenti qualificati, ed è essenziale che chi risiede nell’area possa accedere alla formazione necessaria, alle informazioni». Una descrizione comprensiva di ciò che si intende per rigenerazione, sommato alla complementare elevata abitabilità (vale per gli abitanti, vale per le imprese) delle aree. E che non si capisce bene per quale motivo debba essere considerato, salvo ovviamente l’aspetto solidale progressista e di pari opportunità, solo guardandolo dai quartieri a basso reddito.
Riferimenti:
Scott M. Stringer, Mary Ellen Clark, Fight gentrification with jobs, Crain’s New York, 4 maggio 2017