Ogni tanto, anzi meglio spessissimo, spunta qualche ricerca scientifica a ricordarci che non siamo dei pezzi di ricambio meccanici, ma esseri viventi, parte della natura, e che dentro la natura tendiamo a star molto meglio che inseriti in un ingranaggio. Il problema è che quasi sempre questa scoperta dell’acqua calda si accoppia puntualmente a un equivoco, nel momento in cui i ricercatori danno nomi e qualifiche ai contesti migliori o peggiori dai vari punti di vista fisici o psicologici, a loro volta poi articolati in interazioni varie. Perché le denominazioni e qualifiche (vuoi per riassumere e schematizzare, vuoi per colposa ignoranza, poco adeguata a un approccio sistematico) tendono a usare termini come città, campagna, natura, ambiente artificiale e così via. Comunicandoci in sostanza che in campagna si sta meglio che in città, nella natura incontaminata meglio ancora, mentre all’aumentare dei fattori genericamente urbani corrisponde l’aumento del disagio, della patologia, del male. E queste non sono affatto verità scientifiche ma patenti stupidaggini, frutto di indebite semplificazioni se non di condizionamenti assai poco scientifici.
Calamitati nella superstizione
Quel fantastico logo pubblicitario delle Tre Calamite con cui il movimento della città giardino esplode nel mondo all’alba del XX secolo, già contiene intuizioni che vanno molto oltre le conoscenze dell’epoca, idee che di sicuro un po’ spaventano il pensiero ortodosso, sia di stampo progressista che conservatore. E infatti entrambi gli schieramenti, ciascuno a modo proprio, cercheranno di neutralizzare qui e là quei contenuti, riuscendoci benissimo per decenni. Cosa ci dice infatti il solo fatto di «ricomporre dialetticamente» (come hanno scritto tanti critici) quelle polarità? Ci dice che già con le conoscenze scientifico tecniche dell’era industriale matura sul finire del XIX secolo, quella vaga consapevolezza sugli equilibri socio-ambientali, quel che oggi forse chiameremmo sostenibilità, identificare la città col male e la natura/campagna col bene è una stupidaggine. Una stupidaggine concettuale, si badi bene, non una sciocchezza superficiale dettata dalla fede nel progresso che tutto aggiusterà prima o poi. Mettere così in chiaro il processo tesi-antitesi-sintesi significa anche, implicitamente, non blindare neppure quest’ultima all’idea di «progetto», ma collocarla da subito dentro un processo evolutivo nel quale perdono di senso dogmatico sia le densità edilizie-sociali artificiosamente calcolate da Raymond Unwin (il twelve per acre sfottuto da subito dal mondo scientifico), sia tanti altri caratteri puramente tecnico-attuativi, a torto considerati immutabili.
Tutto è città, niente è città
Come credo noto, esistono due modi più uno (tesi antitesi sintesi) di leggere i dati sull’urbanizzazione planetaria. Il primo è il sogno degli sviluppisti tradizionali, e il secondo speculare è l’incubo degli ambientalisti altrettanto tradizionali. Cioè da un lato il trionfo dell’utopia ottocentesca di modernizzazione totale nel segno della macchina e del distacco dell’essere umano dalle radici naturali grazie alla tecnologia. Dall’altro l‘horror vacui di una perdita di senso e di identità derivante dal medesimo distacco, e che si risolverebbe invece «tornando alle radici», e da qui tutti i vari movimenti variamente fondamentalisti, ruralisti, così analoghi a quelli che giusto nello scorcio del XIX secolo in cui nasceva quello progressista della città giardino predicavano un ritorno alla terra, lontano dalla perversione delle ciminiere. Ma quale potrebbe essere invece la Sintesi, derivate dalla contrapposizione di queste Tesi e Antitesi? A occhio e croce, l’idea di una Urbanizzazione Planetaria Soft del genere che deluderà forse architetti e ingegneri pronti a studiare delle vertiginose Dubai seriali, ma anche i loro analoghi delle disperse gated communities circondate da improbabili eden naturalistici, o dal marasma sociale, a piacere. E nell’interpretazione dell’aggettivo soft (così come di quell’antica Calamita) sta tutto il senso: una urbanizzazione che è tale solo perché enfatizza tutti i caratteri di progresso e stili di vita, senza nulla togliere a quelli veri naturali e ambientali, che si qualificano per quel che sono. Ovvero acqua aria suolo, relazioni dirette e virtuose fra società e ambiente, non certo scimmiottare gli «antenati» visti in qualche documentario National Geographic. Leggere, per credere, almeno cosa significa il neologismo di «amnesia ambientale generazionale». E riflettere.
Riferimenti:
Terry Hartig, Peter H. Kahn Jr., Living in cities, naturally, Science, Vol. 352, n. 6288, maggio 2016 (c’è anche un intero numero monografico della rivista dedicato ai temi dell’urbanizzazione, osservata da una prospettiva decisamente multidisciplinare e insolita)