Pare piuttosto ovvio che l’aspetto estetico, o in generale i messaggi che ci manda in modo più o meno subliminale un ambiente fisico, meglio ancora se ce lo siamo costruiti su misura, sia un ottimo sintomo di qualità, di riuscita o meno della trasformazione a uso umano e sociale di un contesto. C’è addirittura, viva e vegeta nonostante le oggettive e sacrosante bastonate che si è presa per eccesso di arroganza nel ‘900, tutta quella scuola di pensiero che vorrebbe magicamente «plasmare la società», le relazioni tra i soggetti, le loro aspirazioni e comportamenti, intervenendo sui contenitori, edilizi e urbanistici, dentro cui si sviluppano. Qui forse è meglio distinguere in due parti i contenuti tecnico-culturali e quindi in qualche modo «filosofici» della trasformazione urbana mirata a pilotare l’evoluzione sociale. Due parti ovviamente legate in modo inestricabile, ma che qui si considerano distinte per motivi puramente strumentali: l’estetica e la funzionalità, cosa per inciso abbastanza complessa quando erano gli stessi proponenti di quella «maniera di pensare la città», a considerare inscindibile il loro stile funzionalista, per cui si diceva ad ogni forma corrispondeva una precisa funzione.
L’estetica secondo chi?
Se è vero il detto popolare «non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace», va sottolineato quanto al popolo piacessero pochissimo, quasi nulla, le estetiche proletarie concepite per loro su basi ritenute oggettive dai progettisti dei quartieri coordinati di alloggi economici. E pensare che dal punto di vista tecnico-funzionale il balzo avanti era a volte straordinario, visto che gli inquilini assegnatari dei nuovi complessi arrivavano da condizioni abitative di gran lunga più spartane, vuoi se contadini immigrati in città per diventare operai, abituati a poco più di un sommario tetto sulla testa, vuoi se residenti dello slum speculativo in cui padroni di casa senza scrupoli stipavano le famiglie povere in condizioni spaventose, per spremere al massimo la rendita di edifici fatiscenti. Nella nuova «estetica funzionalista» degli angoli retti e degli alloggi standard in serie, gli inquilini potevano godere della luce del sole calcolata secondo criteri igienico-sanitari, di una ottima aerazione, ambienti asciutti, riscaldati e senza spifferi, relativo isolamento acustico, privacy, acqua corrente, bagni, e poi servizi collettivi in quantità e qualità inimmaginabile nel vecchio tugurio. Eppure furono in massa a lamentare un peggioramento delle condizioni abitative generali, a rimpiangere la condizione precedente, perché l’estetica, la capacità di produrre identità, singola e collettiva, latitava, quelle forme non le avevano scelte loro, e il risultato saltava all’occhio. Da qui una regola pratica: ciò che per qualcuno può essere «miglioramento urbano», per qualcun altro non lo è affatto, e la cosa vale per tutte le forme di agio e/o disagio che quegli ambienti ispirano, a singoli individui e gruppi sociali.
Ordine e disordine
Di fatto la cosiddetta categoria della sicurezza percepita, corrisponde quasi esattamente a quel genere di sensibilità all’estetica urbana: c’è un luogo che ci è familiare, che conosciamo bene e in cui ci muoviamo a nostro perfetto agio, certo potrebbe magari migliorare un po’, ma lo troviamo comunque sicuro e accogliente. Ce n’è un altro che invece contiene elementi minacciosi, stridenti, di disordine, discontinuità grave, vuoti di senso, «degrado» da eliminare urgentemente se non si vuole perdere del tutto la qualità urbana. E certo poi ci sono giudizi relativamente negativi che possono essere condivisi tra fasce diverse di osservatori: le erbacce e le muraglie cieche un po’ di fastidio lo danno a tutti, così come la sporcizia, le cose vistosamente fuori posto, ma ci sono effettivamente giudizi diversissimi sull’accettabilità di un tipo di spazio o di un altro, esattamente come nell’esempio della «estetica urbana oggettiva funzionalista» contro chi quelle funzioni le viveva sul serio tutti i giorni. E quindi, che senso ha provare a rendere ancora più oggettivo il «miglioramento» urbano, utilizzando addirittura i cosiddetti Big Data, l’intelligenza artificiale per trattarli e incrociarli con serie storiche di immagini di città? Ce l’ha (e se guardiamo da che scuola vengono certe ricerche si capisce anche bene il senso sottilmente classista e destrorso) se vogliamo pensare a una estetica urbana dominante, fatta da una specie di popolo eletto più ricco, istruito, magari anche biondo per completare il quadro. E così santifichiamo definitivamente la gentrification, perché «il bello non si discute, l’ha detto il computer».
Riferimenti:
Edward Glaeser et. al., Computer vision uncovers predictors of physical urban change, PNAS, Proceedings of the National Academy of Science, maggio 2017