L’occasione non era delle più allegre e conviviali, visto che dovevo discutere il progetto della tomba di famiglia in cui sistemare morti ancora abbastanza freschi. Così sul momento non ci ho fatto troppo caso a quell’incipit di conversazione. L’interlocutore, oltre che contitolare della premiata ditta di arti marmoree, era casualmente anche assessore (si spera senza conflitti di interesse) comunale con delega a varie trasformazioni urbane. Dopo poche battute guardandomi fisso mi chiese: «Sa, io devo averla già vista da qualche parte, lei è uno di quelli che vanno in bicicletta?». Replicai che certo andavo in bicicletta, la si poteva anche vedere legata al palo proprio lì fuori. «No no, non ci siamo capiti, dicevo se lei è proprio uno di quelli che vanno in bicicletta». Lasciammo cadere la questione per passare agli argomenti pratici, e mi ero dimenticato completamente di quella storia, finché come capita a volte un giorno mi è arrivata di traverso l’illuminazione: ecco cosa intendeva quell’assessore parlante in veste di artigiano! Illuminante, perché poteva essere ragionevolmente un vero spaccato di mentalità assessorile riguardo agli interessi da rappresentare e ricomporre politicamente dentro il governo locale. Dal punto di vista dell’amministratore, «quelli che vanno in bicicletta» tra virgolette non sono affatto quelli che vanno in bicicletta senza virgolette, ma l’insieme dei gruppi e associazioni organizzati che interloquiscono di preferenza con l’amministrazione locale. Gli altri o non hanno affatto voce, o ce l’hanno debolissima e inaudibile.
Stakeholders a pedali
Le associazioni tematiche hanno senso e scopo attorno al tema, e quelle che «vanno in bicicletta» ovviamente e tendenzialmente esprimeranno un mondo a misura di bicicletta, dove pedalare è la cosa più bella che ci sia, lo scopo della vita, e tutto si deve orientare verso questo fine. Pensiamo a quanto è accaduto sull’arco del XX secolo con le automobili, altro mezzo di trasporto «pervasivo», per intuire cosa significa esprimere via via un mondo su misura: costruire strade plasmate attorno alle esigenze dell’auto e per fare arrivare auto ovunque, attorno a quelle strade, organizzare spazi e attività tutti piegati ai modi specifici dell’auto, sino al punto in cui ciascun «essere umano» veniva concepito indissolubile da quella protesi di una tonnellata avvitata su per il sedere. Evidentemente, e pure dichiaratamente, politici e amministratori su tutto l’arco di un secolo hanno considerato l’auto il motore immobile di un sistema che ha coinciso con la vita stessa: tutto si teneva, e qualunque cedimento rischiava di far franare la baracca. Ma, per tornare a «quelli che vanno in bicicletta»: ha senso replicare attorno alle due ruote a propulsione umana la medesima logica di fondo? Cioè, ha senso credere, come in fondo credono i portatori di interessi ciclistici più o meno organizzati, che sostituendo alle strade le piste ciclabili, ai veicoli a motore tutta la serie dei nuovi formati a pedali trasporto cose e persone, e alla città delle superstrade quella delle bike-highways, si costruisca un’alternativa credibile?
Sintomi di resistenza
A New York la ciclabilità è sempre stata qualcosa di esotico, atletico, sfida al senso comune. Forse è anche per quel motivo che l’ex pimpante assessora ai trasporti, Janette Sadik-Khan, ha dato tanto ascolto a «quelli che vanno in bicicletta» nelle formulazioni di politiche complessive per la città, e quindi fatto partire da zero un massiccio programma di piste ciclabili, che si inseriva tra l’altro in un più vasto piano di trasformazione urbana pensato da un danese (necessariamente e geneticamente pedalante) come Jan Gehl. Immediatamente dopo il varo dei progetti preliminari e l’apertura di qualche cantiere, si è scatenata l’opposizione di cittadini e associazioni di quartiere, su questioni abbastanza prevedibili e comuni a tutte le città del mondo: la ciclabilità interferisce con gli spostamenti pedonali, e soprattutto col metabolismo residenziale-commerciale-automobilistico, così come si è costruito su decenni di progettazione stradale e urbanistica. Esempio schematico: la pista ciclabile unisce due punti, ma ne separa milioni, visto che si interpone fra la carreggiata e gli edifici. In fondo la risposta di «quelli che vanno in bicicletta» alle obiezioni (chiamiamole così, anche se i toni sono assai più accesi), suona sempre nello stesso modo, a New York come in tutto il mondo: diventate anche voi ciclisti, e tutto si aggiusterà. Sarete sereni e senza stress negli spostamenti, i negozianti scopriranno che la gente fa shopping anche senza usare l’auto, esiste una economia allargata che può girare attorno al mezzo a due ruote esattamente come avveniva con quello a quattro, occupazione compresa. Ma, visto quel che accade, il ripetersi ovunque del medesimo conflitto non solo auto-centrico, la domanda un po’ più generale che dovremmo forse porci è: ma questi qui che «vanno in bicicletta» chi rappresentano? E soprattutto quel loro sbrigativo spostare l’universo dalla prevalenza delle quattro ruote a quella delle due chi diavolo l’ha chiesto? Perché non proviamo sul serio, a discutere di spazi condivisi in senso lato? Senza incazzarsi subito con me, se possibile, perché le reazioni scomposte e controproducenti non le ho né inventate né sobillate io.
Riferimenti:
Nick Mead, Bike Lane Blues: why don’t businesses want a £30m cycle-friendly upgrade? The Guardian, 5 ottobre 2015
Se qulcuno mi appella come uno di quelli che vanno in bicicletta non penserei ad una identificazione con un gruppo di cicloattivisti dato che per me è una cosa assolutamente ordinaria e normale l0andare in bici. Semmai mi scatenerebbe tutte le reazioni che scatenerebbero a chiunque domande come:
” ah, ma lei è uno di quelli che paga le tasse?”
oppure
“ah, ma lei è uno di quelli che sa leggere e scrivere?”
and so on..
La questione non è quel che si prova o si pensa, ma quel che pensano e fanno i nostri amministratori semplificando così la “rappresentanza di interessi