Realtà e problemi della periferia (1969) Parte prima

Premessa

Foto F. Bottini

In questi ultimi anni si è andato accentuando tra le forze politiche, sociali, culturali un ampio dibattito in ordine ai problemi connessi allo sviluppo della «città» e, in particolare, della «periferia». Si è andati prendendo sempre più coscienza che la città, sviluppandosi «a macchia d’olio», ha esaltato la piramide dei valori del suolo, producendo, come conseguenza, costellazioni sub-umane alla periferia della città. Da questa constatazione è sorta una vivace polemica fra gli specialisti, alcuni dei quali hanno contestato lo svilupparsi della città per «quartieri auto-sufficienti», proponendo come alternativa, lo sviluppo per «quartieri integrati» con il contesto urbano; altri, invece, hanno condotto una critica serrata alla concezione stessa del «quartiere», proponendo, come sostitutiva, una strategia dello sviluppo urbano per «brani di città». Al fondo di questa polemica stanno due concezioni culturali: l’una di tipo tradizionalista, che, mediante la realizzazione di quartieri auto-sufficienti, auspica il ricrearsi dello «spirito della piccola comunità»; l’altra di tipo progressista, che, mediante il superamento della concezione del quartiere, prospetta una città funzionalmente articolata nella quale sia diffuso lo «effetto urbano».

Questo tipo di polemica, chiara nelle sue motivazioni ideologiche ,non lo è altrettanto dal punto di vista operativo, per cui sorgono una serie di interrogativi. Alcuni sociologi, urbanisti, sostengono che nell’attuale sviluppo della società urbana, appare essere utopico ipotizzare la possibilità di realizzare la «comunità di quartiere». Se si acconsentisse con tale affermazione, come e in forza di quale interpretazione logica si potrebbe spiegare il sorgere dei «comitati di quartiere spontanei»,nei grandi centri metropolitani e a Milano, in particolare? Come si potrebbe spiegare la correlativa esigenza di un decentramento democratico che rompa la struttura monocentrica del potere urbano? Ci si può accontentare della spiegazione che di questo fenomeno viene spesso data: questi comitati, cioè, sono sorti solo per ispirazione delle forze politiche e sono strumentalmente tenuti in vita da queste forze? Non è forse necessario comprendere meglio, al di là dell’occasione che li ha promossi, le ragioni e le motivazioni di coloro che vi partecipano?

Quale contenuto culturale ed operativo ha l’affermazione secondo cui è necessario concepire la città come una «forma funzionalmente articolata nella quale sia diffuso in modo articolato l’effetto urbano»? Che cosa, infatti, si deve intendere per «effetto urbano»? È implicito in questo concetto un giudizio di valore, per cui tutto ciò che è urbano è di fatto «buono» e tutto ciò che urbano non è, di fatto è «cattivo»? Se ciò fosse vero, implicherebbe necessariamente una scelta tra ciò che nel processo di sviluppo urbano è di ritenersi positivo e ciò che è da ritenersi negativo? Ma come e con quale metodo è possibile ciò che è positivo e ciò che è negativo in questo processo? Se si considera la struttura urbana come un «sistema», cioè come un fatto unitario e gerarchicamente organizzato, in quale modo e per mezzo di quali strumenti è possibile eliminare ciò che ha da essere eliminato e di salvare ciò che ha da essere salvato, senza, nel contempo, correre il rischio di mettere in crisi il sistema stesso?

Per poter dare una risposta a questi interrogativi, occorre domandarsi se il problema di fondo sia quello di individuare una «forma» nuova da dare allo sviluppo della città, oppure se non sia, invece, più importante, e comunque preliminare, comprendere il «processo» che caratterizza un modo di vivere che comunemente chiamiamo di tipo «urbano», cercando, nel contempo, di mettere in rilievo le «strozzature» che questo processo mostra oggi di avere. Collegata a questa analisi ve ne è un’altra: se sia possibile, cioè, conciliare la ricerca del massimo grado possibile di efficienza del sistema urbano e l’esigenza di una larga partecipazione popolare ai processi di decisione. Con questa relazione cercherò di dare una risposta, sia pure d carattere generale a questi problemi, tentando di individuare, inoltre, la funzione che il decentramento democratico può oggi svolgere e potrebbe in futuro meglio svolgere.

Lo sviluppo della città come «processo»

Taluno potrebbe domandarsi come mai, a fronte di tanti accesi dibattiti, di libri, di articoli scritti sull’assetto ottimale della città e della sua «forma», le realizzazioni di fatto non siano sostanzialmente differenti da quelle che avvenivano nel periodo in cui non si era ancora presa coscienza di questi problemi. Vi è stato un indubbio impegno culturale e una sostanziale modifica del «linguaggio» culturale, ma ciò non si è tradotto in un’analoga modifica del prodotto urbanistico, se non per quanto attiene alla dotazione di maggiori attrezzature e servizi sociali. Altri potrebbe invece domandarsi come mai se, dal punto di vista teorico, continuamente si afferma che la comunità di quartiere è una realtà superata o in via di superamento, i quartieri vengano vieppiù dotati di servizi comunitari. Potrebbe sembrare questo un non senso, in quanto si fanno «investimenti sociali» per un sistema sociale, la comunità di quartiere che si afferma essere estinta o in via di estinzione. Per comprendere le motivazioni per cui queste contraddizioni si siano prodotte, mi sembra utile avanzare alcune considerazioni. A me sembra che la considerazione dalla quale prendere le mosse sia la seguente.

La ragione per cui tutto ciò si è verificato può farsi risalire al fatto che gli urbanisti – e per urbanisti non intendo solo gli architetti – si sono in questi anni preoccupati assai più di «fisicizzare», o meglio di formulare proposte «fisiche» per la soluzione dei problemi dello sviluppo urbano, anziché approfondire il sistema di relazioni che è venuto emergendo in ambiente urbano, nonché la sua struttura, la sua dinamica e la sua articolazione. In altri termini ci si è preoccupati assai più di problemi di «spazio», «scala», «dimensione», «densità», che di problemi di «struttura sociale», di «funzione», «processi di decisione», «procedure di scelta». In definitiva, si può affermare che, nella sostanza, si sono utilizzati schemi di riferimento e sistemi di valore vecchi per dare una risposta a problemi nuovi.

Con questo non voglio affermare che sia mancato uno sforzo di interpretazione dei nuovi modelli di vita urbana,ma solo che non si è compreso a fondo il meccanismo di produzione di questi modelli, il loro modo di evolversi, le loro componenti e connessioni essenziali. La seconda considerazione che mi permetto di formulare, è quella che attiene al problema della elaborazione di un «linguaggio» unitario, o, in modo più esplicito, alla ricezione ed elaborazione di informazioni che si desumono dal sistema di orientamento, nonché alla loro traduzione coerente in procedure operative o «sistema di progettazione» della città. Si avverte, in sostanza, l’esigenza di ricercare uno strumento di informazione e di comunicazione che consenta di ricondurre ad unità operativa il sistema delle esigenze sociali e funzionali dell’uomo e la loro traduzione in spazi urbani.

In forza delle considerazioni svolte, ritengo che, se il discorso sullo sviluppo urbano dovesse esaurirsi esclusivamente all’interno dello schema di «spazializzazione» e «specializzazione» delle funzioni sociali – cioè all’interno di uno schema che si limita prevalentemente a ricercare lo spazio ottimale per lo svolgimento delle funzioni sociali specializzate – vi sarebbero, allora, assai scarse possibilità di comprendere la natura dei problemi che ho dianzi accennato. In definitiva occorre, a mio giudizio, affrontare il problema della città, e nel suo contesto, il problema della periferia urbana da un angolo visuale diverso, che si collochi nel centro di questo processo, che è rappresentato da un punto di intersezione delle esigenze umane con l’articolazione funzionale delle medesime. Un modo diverso, quindi, di comprendere il problema urbano è quello di ridefinire lo sviluppo urbano come un «processo», il quale evoca l’idea di «flusso», «dinamica», «scopo».

Se si conviene di assumere il fenomeno urbano come un processo, si potrebbe, allora, definire la «città» come un organismo unitario e articolato in sotto-sistemi funzionali e spaziali. Ogni sotto-sistema gioca un ruolo specifico, per cui «è parte della anatomia urbana nello stesso modo in cui un organo vitale è parte di una creatura vivente e, similmente a tutte le altre parti dell’organismo è dipendente per la propria funzione dai sistemi di circolazione e di comunicazione». L’idea di «organismo» porta con sé la nozione di organizzazione strutturata delle parti e, quindi, di gerarchia. Riferito all’organismo urbano questo significa che ogni sotto-sistema svolge una funzione qualitativamente e gerarchicamente differenziata. Occorre, tuttavia, precisare che un organismo per sua natura non esprime solamente una gerarchia morfologica di parti, ma anche una gerarchia psicologica di processo. Più esattamente si può affermare che un organismo urbano non è e non esprime solamente una che possa essere descritta puramente e semplicemente in termini morfologici: un organismo urbano è piuttosto un sistema di gerarchie che sono tra loro intrecciate e correlate in molti modi e che possono o non possono corrispondere ai livelli della gerarchia morfologica.

Ora se a quanto si è detto si aggiunge il fatto, del resto ovvio, che uno degli elementi della «città» è lo spazio, l’organismo urbano potrebbe, allora, essere concepito come un insieme di «processi strutturati spazialmente». Questo modo di affrontare dal punto di vista concettuale il problema della città, consente di considerare contestualmente i problemi di forma e di contenuto. Permette, inoltre di cogliere un aspetto essenziale: il centro di questi processi spazialmente strutturati è rappresentato dalle interrelazioni e dai processi sociali, attraverso cui gli abitanti della città urbana trattano tra loro e grazie ai quali soddisfano legami di interdipendenza, da cui dipendono la loro vita e il loro benessere. Gran parte di queste interrelazioni hanno come scenario o come elementi condizionanti i «luoghi» fisici urbani, ma tendono a trascendere sempre più questi luoghi fisici per collocarsi in «spazi significativi» per l’uomo. È questo un concetto centrale, che richiede una più corretta e precisa spiegazione che mi riserverò di fare più avanti. È qui sufficiente affermare che la città viene così ad assumere una fisionomia che è caratterizzata dalle trame di queste interrelazioni e dai processi (sociali, culturali, spirituali, economici) che vi generano.

Lo sviluppo della periferia

Questi concetti di carattere generale consentono, inoltre, di esprimere un giudizio sullo sviluppo della periferia milanese e sulla logica che l’ha presieduta. È comunque convincimento che lo sviluppo della periferia urbana è avvenuto in modo caotico sotto la spinta di diversi fattori concomitanti, tra cui i più importanti sono da considerarsi la speculazione urbanistica ed edilizia e la mancanza di una strategia dell’insediamento residenziale. La distribuzione delle residenze sul territorio è stata, infatti, prevalentemente determinata non già da un alogica dello sviluppo, ma da criteri di risparmio sui costi di acquisizione delle aree. In altri termini, la realizzazione dei quartieri periferici è avvenuta sotto la spinta dell’acquisizione di aree a buon mercato ritenendo con ciò di raggiungere dei risparmi nei costi di costruzione, e, quindi nei prezzi di affitto. Questo tipo di politica, oltre al fatto di emarginare ai limiti estremi della città le categorie meno abbienti ha anche prodotto come risultato diseconomie a livello generale del territorio tali da rendere evanescente o comunque illusorio il risparmio sperato.

Il risparmio nei costi del suolo, infatti, si è tradotto nel trasferimento reale di una parte dei costi di insediamento della stazione appaltante agli utenti degli alloggi – sotto forma di maggiori spese di trasporto – e all’azienda che gestisce il trasporto – sotto forma non solo di aumento dei costi di ammortamento nelle attrezzature – ma soprattutto di aumento dei costi marginali conseguenti alla diluizione dei flussi di traffico, all’aumento del percorso medio, che con questo modo di procedere ne risulta. Oltre a ciò occorrerebbe valutare le perdite sociali che la realizzazione di questi quartieri periferici ha prodotto in termini di disagio, di tempi e di fatica per recarsi ai centri di lavoro, e comunque ai centri di richiamo commerciale, culturale, ricreativo, spirituale, ecc. Qualora si volesse dare un giudizio sulla nostra periferia urbana in termini esclusivamente di «efficienza localizzativa», questo giudizio non potrebbe non essere che negativo. La negatività della nostra periferia si può ricavare appunto dalle tensioni sociali e dalle proteste che da essa stanno sorgendo.

Parlando in termini di efficienza localizzativa occorre domandarsi cosa essa significa. Se si configura la localizzazione residenziale come un aspetto dell’attività economica, e cioè come «consumo di territorio» a fini produttivi in senso lato, il problema della più efficiente soluzione da dare alla localizzazione può essere ricondotto ad un problema di «equilibrio», la cui misura può essere rappresentata dalla più efficiente utilizzazione possibile del suolo o dalla densità ottimale in funzione della «utilità ponderata» delle attrezzature sociali. È evidente che il concetto di «efficienza localizzativa» non ha un valore assoluto, ma è relativo agli obiettivi che l’operatore si propone di raggiungere. È indubbio infatti che per il consumatore di un alloggio questo assume un significato diverso da quello che ha, per esempio, per l’azienda di pubblico trasporto o per l’amministrazione comunale.

Per il primo, una localizzazione è efficiente quando minimizza ii tempi e i costi imputabili agli spostamenti per recarsi al lavoro, ai luoghi di interesse culturale, commerciale, educativo, ricreativo, ecc., olte che i costi riferibili all’abitazione; laddove per la seconda, è sufficiente una localizzazione quando consente di ridurre al minimo i costi di gestione del servizio; e, infine, per la terza quando rende possibile una economicità globale delle attrezzature sociali necessarie alla vita dell’insediamento e non perturba lo sviluppo equilibrato dell’organismo urbano. Da ciò consegue che l’efficienza localizzativa non può essere definita in modo astratto e valido per ogni situazione, ma richiede di essere valutata in termini di equilibrio delle efficienze parziali di localizzazione, oltre che di essere commisurata agli obiettivi che si intendono raggiungere e al tipo di contesto sociale entro cui si opera.

Molte delle attrezzature sociali dei nostri quartieri periferici sono diventate obsolete in poco tempo, proprio per il fatto di avere definito le stesse sulla base di informazioni manualistiche e dimenticando la realtà sottostante. È bene, inoltre, sottolineare che, contrariamente a quanto possa apparire a prima vista, il concetto di «efficienza di densità» non può e non deve essere valutato in termini esclusivamente monetari. La sottolineatura dell’efficienza economica non implica che i criteri economici debbano assumere un valore preminente nel decidere in ordine alla scelta localizzativa, in quanto glia spetti sociali possono condizionare la stessa valutazione economica. Non si deve, infatti, trascurare la considerazione secondo la quale, qualora un particolare piano di sviluppo o una particolare area residenziale non soddisfi i bisogni o la domanda sociale la stessa efficienza economica assume un valore molto limitato, in quanto l’area che non è in grado di soddisfare i bisogni umani non sarà neppure in grado, a lungo periodo, di conservare la sua stessa efficienza economica.

da: Democrazia Cristiana, Comitato Comunale di Milano, Ufficio SPES, Introduzione al Decentramento Amministrativo, Milano 1969; l’Autore all’epoca è Assessore al Decentramento del Comune di Milano (segue nella Seconda Parte)

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