Rigeneratori di tutto il mondo unitevi!

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Foto M. B. Style

Tutte le volte che per motivi ambientali e di salute si inizia a parlare del cosiddetto s(cosiddetto, e magari ci torniamo) blocco del traffico, il mondo si divide in due. Da un lato dell’immaginaria barricata sta una purtroppo relativamente piccola minoranza di cittadini che pensano finalmente si fa qualcosa di intelligente. Dall’altro c’è chi, pur magari accettando l’amaro calice del destino, non riesce a vederci altro se non una penitenza temporanea, prima di tornare alla cosiddetta normalità. Questa maggioranza di sfigati (non viene oggettivamente altro termine a descrivere i tapini) vive e forse è sempre vissuta in quel purgatorio detto insediamento suburbano, o periferico, autocentrico, di cancellazione quasi totale dello spazio pubblico e riduzione dell’esistenza a un alternarsi di abitacoli e ambienti privati costruiti o recintati. Togliere il veicolo a motore privato a quel mondo equivale a levare la canna dell’ossigeno, perché tutto il suo metabolismo sociale ed economico ruota attorno a quei soli flussi. Gli altri, la minoranza che aveva accolto con sollievo il cosiddetto blocco del traffico, abitano invece in certe oasi dette centri città, o corridoi commerciali, o quartieri tradizionali, dove le attività, le relazioni, gli equilibri tra pubblico e privato, si sviluppano prevalentemente al di fuori del monopolio automobilistico. E in questi casi il vantaggio salta agli occhi di chi vuol vedere.

Un approccio in positivo

Chi progressista non è, forse non coglie quella goffa tragedia indotta proprio dal chiamare solo in negativo il blocco del traffico, di fatto adottando la forma mentale suburbana autocentrica: ti impongo una specie di coma farmacologico per il tuo bene. Mentre invece a ben vedere si potrebbe proporre e considerare un approccio del tutto in positivo, diciamo così delle mille luci per tutti anziché per pochi, a partire dal ripristino e rivitalizzazione di quanto già esisteva, ma trascinato dalla pervasiva logica suburbana si è un po’ appannato col tempo. Per poi estendere il criterio anche a luoghi che quelle cose non le hanno mai viste né sognate, e in fondo se le meritano, poveretti. Quei posti sono riassumibili come spazi di relazione fruibili a piedi (anche e soprattutto a piedi) o con spostamenti occasionali meccanici, organizzati in forma di quartieri dove convivono attività economiche, servizi vari a partire dalle necessità quotidiane minime, e residenze, vuoi mescolati fisicamente nei medesimi edifici, vuoi comunque in una logica di prossimità e complementarità urbanistica. Ancora molto schematicamente, questo tipo di qualità urbana in una sola logica di mercato incontra i gusti della nuova generazione di individui e famiglie delle professioni pioniere e «creative» (ovvero che costruiscono futuro, e non fanno certo da tara sociale o ambientale), allargando quindi ulteriormente l’offerta economica e culturale, oltre ad altri effetti diciamo così collaterali come il contenimento di consumo di suolo, sia per usi naturali che di agricoltura di prossimità, che a sua volta rappresenta una ulteriore espansione delle attività, e così via.

Chiarire gli obiettivi sociali e ambientali

Pare importante, partire da questo genere di obiettivi, sociali, relazionali, ambientali, poi economici, e solo in ultima istanza di configurazione spaziale o strumenti tecnici specifici. Perché è stato l’eccesso di semplificazione pregresso a creare quel pasticcio che si chiama oggi sprawl, o suburbio, o segregazione funzionale, o campagna industrializzata e via dicendo. Ovvero si è partiti da una idea molto micragnosa di efficienza meccanica, con le case che facevano le case, gli uffici che facevano gli uffici, l’auto che andava dalle case agli uffici, e tutto pareva funzionare benissimo mentre invece produceva guai, a guardarlo dall’altra parte, come notavano da subito alcuni critici progressisti a metà ‘900. A quelle critiche si rispose dicendo che sempre con la medesima tecnica si sarebbe risolto tutto: auto più veloci, case più grandi, stipendi più alti per pagarsele eccetera. Non ha funzionato perché non c’era alcuna valutazione dei limiti sociali e ambientali, così come nel XIX secolo non si erano calcolati, col medesimo approccio i limiti umani al lavoro, prima che le lotte sindacali non convincessero certa ingegneria sadica onnipotente – supportata da una politica reazionaria e disattenta – ad accorgersene. Oggi proviamo a guardare le cose in modo diverso, e proprio a partire da un metodo e un piccolo laboratorio di rigenerazione quale può essere una zona monca di qualcosa, chiedendoci: che relazioni mancano, che complessità manca? E poi, cosa si può fare per introdurle oppure re-introdurle se c’erano ma sono decadute? Una volta sperimentato il metodo, e capito cosa rinvia per forza a fattori esterni, si potrà ragionare decentemente anche su quelli. E il temuto «blocco del traffico», che per molti anche giustamente viene vissuto come sospensione della vita in quei posti sfigati che inconsapevolmente si sono costruiti attorno, non dovrà nemmeno essere nominato. Qualche esempio dalle riflessioni di chi ci ha dato dentro per mezzo secolo, in quelle pratiche sistematicamente masochiste, aiuta, sicuramente aiuta. E non dite che la vostra situazione è diversa, badate al metodo e agli obiettivi sociali e ambientali.

Riferimenti:
Smart Growth America, (Re)Building Downtown: A Guidebook for Revitalization dicembre 2015

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