Nell’inesauribile filone del dibattito tra riqualificatori urbani convinti, e poeti della narrazione romantica dei suburbi, pare giusto inserire qualche ulteriore elemento di riflessione, quanto meno per arricchire il patrimonio culturale di coloro che si trovano ad affrontare la questione.
Tra gli interventi di riqualificazione urbana e gli effetti di gentrificazione degli ambiti circostanti che talvolta – spesso, a dir la verità – ne conseguono, esistono nessi causali ben noti e, nei limiti del possibile, oggettivati. La riqualificazione urbana, come sappiamo, si attua all’interno di contesti di degrado, sia tecnico-funzionale (fisico), sia dove è il tessuto sociale ad essere stato reso arido e incapace di esprimere valori positivi; la marginalità degli ambiti da riqualificare, quindi, li rende particolarmente a rischio di speculazione economica o umana, in quanto meno capaci di esercitare i propri diritti.
La svolta post-industriale di molte città occidentali pare orientata ad una direzione creativa, culturale, turistica e di svago “borghese”, con l’idea di attrarre talenti emergenti nelle nuove professioni; chiaramente, una scelta simile tende a marginalizzare la quota di popolazione cittadina meno acculturata e meno creativa: la riconversione di spazi urbani secondo l’ideale preconfezionato di “città vivibile” spesso genera l’esclusione – spontanea, si potrebbe dire – di coloro che non si ritengono componenti di quell’ambiente, magari considerato élite a cui non si appartiene.
E non è neppure eccessivo suppore che, talvolta, possa esserci precisa intenzionalità da parte di operatori economici e politici con pochi scrupoli. Se, da un lato, molti potrebbe leggere qualche genere di complottismo nelle tesi di Neil Smith sull’esistenza di un disegno globale di gentrificazione pianificata, d’altro canto non si può negare che – più o meno inconsapevolmente – è abbastanza diffuso il desiderio di espellere frange sociali marginalizzate e malviste, specialmente laddove siano facilmente identificabili attraverso l’appartenenza ad un circoscritto luogo.
Nella Copenhagen considerata faro del progresso urbano europeo, per esempio, nel dibattito sulla riqualificazione del quartiere di Vesterbro l’allora responsabile del servizio Pianificazione, Holger Bisgaard, descrisse la strategia d’intervento in questi termini: «Per me, la politica abitativa è la chiave dello sviluppo di Copenhagen. Se non cambiamo lo stock edilizio, continueremo ad essere il Comune più povero della regione della capitale. Non vogliamo cambiare il tipo di persone che vivono qui, e quindi la città non potrà diventare sostenibile. […] Abbiamo redatto uno studio che mostra che noi prendiamo tutta la spazzatura, perdonate il termine, per colpa degli alloggi economici. La classe media, che vorremmo che abitasse qui, si sposta in Svezia». Impossibile, a questo punto, non riconoscere una chiara volontà politica di espellere i soggetti indesiderati – la “spazzatura”, come viene definita -, facendo ricorso alla strategia “gentile” della gentrificazione, che giustifica tutto ciò attraverso la semplice logica del libero mercato.
Come facilmente intuibile, potrebbe essere l’azione pubblica diretta (in qualità di operatore immobiliare, come è la municipalità di Vienna) il primo argine alle speculazioni immobiliari, addirittura a garantire che una riqualificazione avvenga al semplice scopo di una maggior dotazione di spazi pubblici qualificati ai residenti di una certa zona (tanto più che gli immobili beneficiati da un eventuale aumento di valore sarebbero, comunque, di proprietà pubblica).
In questo modo, si avrebbero operazioni pubbliche di rilevante riuscita sociale e capaci di generare utili economici: infatti, mentre la creazione della Promenade Plantée e dei suoi dintorni ha portato in maggioranza benefici alla comunità parigina, l’omologa operazione liberista newyorchese (l’osannata High Line) ha prodotto effetti devastanti nei sobborghi: la classe operaia e piccolo-imprenditoriale che abitava originariamente le case di mattoni di questa porzione del West Side è stata soppiantata da giovani e famiglie trendy, dotate della capacità economica necessaria per permettersi di abitare nei loft ristrutturati, o nei nuovi palazzi dalle facciate vetrate che si affacciano sul parco.
Milioni di turisti ogni anno invadono le strade del quartiere (un tempo grigie e sporche ma autentiche) oggi sede delle onnipresenti grandi catene commerciali, o di sfiziosi localini in tipico stile newyorchese, sempre che il termine esprima ancora qualche carattere di tipicità. Espulsi i residenti storici, messe alla porta le vecchie attività commerciali, ciò che resterà una volta passata l’ondata modaiola sarà – di nuovo – solo un ingombrante manufatto sopraelevato di diversi metri. Magari, da riqualificare nuovamente.