L’approvazione della Legge per la Casa nel 1949 rappresenta una sfida per gli urbanisti. Sostenevamo che fosse necessaria un’azione del genere da parte del governo federale, per affrontare con decisione il degrado urbano, e ora tocca a noi dimostrare di aver ben inteso di cosa si tratti. Quando i sostenitori delle abitazioni pubbliche trovarono un primo spazio politico all’inizio degli anni ’30, si fissarono un obiettivo piuttosto semplice. Spiegavano che alcune azioni parlamentari avrebbero messo a disposizione case decorose per “X” famiglie, e se verifichiamo si tratta esattamente di quanto accaduto.
Il nostro compito però è assai più difficile. La stessa natura del degrado urbano risulta complessa, elusiva, difficile da definire. Il solo investire denaro, demolizione, ricostruzione di quartieri, non è necessariamente un valido antidoto a quel degrado. Le risorse messe a disposizione dalla legge federale hanno un approccio curiosamente negativo. Servono solo alla predisposizione delle aree demolendo gli edifici. Se ciò semplicemente si traduce nella realizzazione di case nelle zone degradate, la dove in qualche modo si costruirebbe comunque, spostando altrove le questioni essenziali del degrado, allora ci si dovrebbe davvero domandare se la legge federale sia davvero adeguata a questo tipo di problema, ovvero se si tratti di uno strumento valido ed essenziale per affrontare decisamente il degrado urbano.
Prima di entrare comunque nei particolari dovremmo considerare però la natura profonda del degrado, e valutare l’efficacia degli strumenti a disposizione, a fronte dei caratteri che abbiamo imparato a conoscere. Ciò va fatto entro due diversi ambiti di osservazione: il problema economico di crollo dei valori immobiliari dal punto di vista dell’amministrazione cittadina e del sistema locale, il problema sociale e civile che riguarda i cittadini.Tutti diciamo e ripetiamo che la diminuzione dei valori immobiliari nelle aree degradate delle città è un fenomeno crescente, dilagante, che se non controllato si tradurrà in riduzione delle entrate fiscali locali e incremento dei costi dei servizi, portando verso la bancarotta le amministrazioni. Ma dobbiamo anche dimostrare poi, che la riqualificazione urbana non si limiterà a produrre delle belle case, ma che risolverà anche questo aspetto. E credo di poter dire che gli investimenti fatti sinora in sé e per sé non abbiano risolto adeguatamente nulla.
Quindi tocca a noi trovare modi per cui ogni singolo dollaro speso abbia effetti non solo sulle zone delle demolizioni, ma anche sui valori immobiliari circostanti. E d’altra parte dobbiamo anche dimostrare che dal punto di vista sociale la riqualificazione fa qualcosa di concreto per arrestare il declino morale. Il dottor Winslow ha affermato che: «Il senso di inferiorità indotto da fatto di abitare in una casa inadeguata (e aggiungerei in un “quartiere inadeguato”) rappresenta una minaccia assai più grave per la salute dei nostri figli, di tutte le reti idriche malsane degli Stati Uniti». Quindi non si devono soltanto produrre buone abitazioni, ma lavorare in modo tale da colpire al cuore il problema morale. La mia convinzione di fondo, è che le due questioni, apparentemente indipendenti abbiano una intima correlazione, e che riqualificare serva davvero solo se si riesce, attraverso una buona programmazione, ad affrontarle entrambe insieme.
Cos’è il degrado
Val la pena a questo punto iniziare a esaminare più approfonditamente la natura del degrado nei quartieri, per provare a capire con quale problema ci confrontiamo. Ovviamente vorremo tutti “Dissezionare” i nostri quartieri, ricostruire accurati schemi planimetrici con varie gradazioni di colore a distinguere per punteggi progressivi il degrado degli alloggi. Fissare criteri per distinguere le zone da demolire e quelle da conservare. Tutti strumenti che anche al meglio sono piuttosto rudimentali, e se ci si ferma lì non si scopre certo la natura profonda della questione. Solo andandoci direttamente in quelle vie, osservando faticosamente, discutendo a lungo con chi abita in quelle zone, si riesce a entrare nel vivo di cosa significhi degrado. Lavorando con questo metodo sono giunto s quattro conclusioni che credo valgano per tantissimi quartieri degradati di qualunque città, salvo naturalmente riconoscere che possono esserci delle eccezioni in qualche caso.
1 – Esiste un intricato intreccio di bene e male, nei quartieri. Se vogliamo sfruttare al massimo ogni dollaro investito dobbiamo capirlo bene, questo intreccio, e lavorare per eliminare possibilmente solo gli aspetti negativi, anche se in tanti casi questo significherà non poter seguire fisicamente in modo preciso con le demolizioni i limiti degli isolati.
2 – Il degrado fisico corrisponde a un degrado morale. Gli abitanti che vedono crollare tutto attorno a sé diventano scoraggiati e arrabbiati. Finiscono per convincersi di essere diventati “invisibili”, che l’amministrazione cittadina ignora i loro problemi, e si disinteressano anche della banale manutenzione del proprio immobile.
3 – In qualunque quartiere sopravvive sempre la forza vitale della rigenerazione. A Filadelfia quasi ovunque vagando per zone davvero decadenti, si incontrano all’improvviso due o tre edifici, mezzo isolato, una intera via, in cui i proprietari sono riusciti a mantenere tutto in ottime condizioni, intonaci, facciate, addirittura le medesime verande colorate su tutta la strada. Nel degrado resiste la vitalità per superarlo. Cellule con la potenzialità di rigenerarsi e rinnovarsi.
4 – Esistono reti locali vitali. In qualunque quartiere ci sono entità in grado di unire cittadini, e legarli al proprio contesto. La riqualificazione deve per quanto possibile rafforzare queste realtà, sia nel metodo di pianificazione, sia nel merito delle trasformazioni progettate.
Modalità operative
Ed ecco molto in breve la mia proposta. Il primo luogo il problema dovrebbe essere affrontato come programma di riqualificazione, non per singoli progetti ma a scala di zona, la sua struttura, gli abitanti, le reti di relazione. Sviluppare un piano che elimini i “punti caldi”, realizzi servizi di quartiere, conferisca nuova dignità.
Secondo punto, dobbiamo coinvolgere le popolazioni dei quartieri nel processo di piano. Solo attraverso la partecipazione si possono comprendere in modo approfondito le proposte, far si che i cittadini le sentano come proprie, che capiscano il respiro di zona che esse hanno.
Terzo, all’apparire in campo delle ruspe, quando iniziano materialmente le trasformazioni, gli abitanti abbandonano lo scetticismo. Se hanno compreso il piano nel suo insieme, allora ne vedono le prospettive di miglioramento sostanziale, e cresce la loro identificazione. Identificazione che in senso allargato rilancia il potenziale di intervento diretto dell’area, con altri proprietari e inquilini spinti a investire energie anche nelle aree non direttamente interessate dai progetti. Così, per ogni dollaro investito in demolizioni ci sono altri dollari di privati negli interventi di manutenzione e miglioramento nelle aree adiacenti, si estende la superficie di reazione al degrado, sia per quanto riguarda i valori immobiliari che nel morale dei cittadini.
Urbanistica con la gente
Posto che questi siano obiettivi auspicabili, passiamo a vedere più in particolare come si possano attuare. L’idea di pianificare con la gente, a cui sono orientati in maggioranza gli urbanisti, presenta complessi problemi di traduzione in pratica. A Filadelfia abbiamo sperimentato due metodi, che in entrambi i casi consideriamo sbagliati, prima di riuscire a passare a un terzo che riteniamo abbia forte potenzialità. Prima credevamo che fossero direttamente i cittadini a sapere di cosa aveva bisogno il loro quartiere, e quindi fossero loro a dove redigere il piano. Si è provato in una zona a sud di Filadelfia, secondo i brillanti auspici del Citizens’ Council on City Planning. Un processo molto coerente, gruppi di lavoro composti, partecipazione onesta, riunioni a scala di isolato in cui gli abitanti hanno discusso le proprie idee.
Il progetto definitivo presentato così alla Commissione Urbanistica cittadina presentava carenze dal punto di vista tecnico. Per certi versi era molto particolareggiato, conteneva spunti estremamente utili sull’illuminazione delle vie, la segnaletica stradale, ma non era certo un progetto adeguato. Per altri versi era molto ampio, raccomandava grosse demolizioni per un parco e definiva ampie zone di riqualificazione e trasformazione. Questo piano di fatto è un ostacolo da superare, per ricostruire rapporti fra la Commissione e i quartieri, dato che le modifiche tecniche suggerite possono apparire contrarie agli orientamenti espressi. Tenendo conto dell’esperienza, così, la Commissione ha tentato la strada opposta. Per la zona di East Poplar ha predisposto da sola un piano completo e tecnicamente ineccepibile, con poche consultazioni preventive coi cittadini. Un piano presentato poi in quella forma ai consigli locali.
Si trattava di una proposta così ampia e di lungo respiro, che i rappresentanti dei cittadini hanno avuto difficoltà a comprenderla sull’arco di una sola seduta, e credo l’abbiano considerata come piuttosto visionaria, non realistica. Dopo quella riunione i rappresentanti dei cittadini sono tornati a interessarsi prevalentemente di singoli progetti a scala di isolato, e il piano generale si limita ad essere un documento ufficiale. Così la Commissione si è evoluta verso un terzo approccio che a suo parere conserva gli aspetti migliori degli altri due. Prima di elaborare il documento di riqualificazione si discute con la Area Planning Conference, organismo centrale composto di rappresentanti degli uffici responsabili per i servizi sociali, istruzione, trasformazioni urbanistiche, casa, e altri di livello cittadino interessati dalle trasformazioni di quartiere. Attraverso questi si identificano poi organismi più locali che fungano da canali per stabilire contatti, evitando confusione e possibili equivoci.
Poi si chiede di formare un comitato che rappresenti le attività produttive e gli esercenti, gruppi religiosi, scuole, servizi, sindacati, abitanti. Alla prima riunione con questo comitato, la Commissione espone le varie linee di azione possibili nell’area. Si mostra una mappa delle destinazioni d’uso con evidenziate nei vari colori le funzioni attuali. Segue una discussione sui problemi, e ne emerge in genere il tipo di interventi che sarebbe auspicabile per migliorare il quartiere. La Commissione su questa base si impegna a predisporre uno schema di massima che contenga queste indicazioni. Abbiamo rilevato che questo tipo di discussione preliminare fornisce indicazioni molto valide sui problemi e le particolari sensibilità, e costituisce una base su cui costruire il piano. Siamo tornati tre settimane dopo a riunirci col Comitato, proponendo a fianco della originaria carta urbanistica dello stato di fatto la proposta di trasformazione: era a questo che pensavano?
In un primo tempo la reazione è stata sconcertante, le opinioni contraddittorie e confuse. Si è comunque formato un sotto-comitato che a partire da quel piano ci ha proposto poi una serie di modifiche assai dettagliate e pertinenti, fissando un elenco di priorità. La relazione del sotto-comitato è stata approvata da tutti i rappresentanti del quartiere, e per due mesi si è collaborato modificando via via il progetto sulla base di idee da una parte e dall’altra, e accettando anche spunti degli operatori. Questo programma oggi è pienamente operativo come metodo in varie zone. La procedura è che i principi base debbano venire dal quartiere, poi si sviluppino tecnicamente da parte della Commissione, ma sempre all’interno della cornice prefissata dagli abitanti. Tutto si evolve gradualmente come lavoro comune, coi rappresentanti dei cittadini che si considerano co-autori. Un piano molto migliore e che entra pienamente a far parte dell’opinione locale.
Certo non posso non rilevare le lacune della procedura. Ad esempio quanto siano rappresentative le venti o trenta persone che formano qualsiasi comitato. Forse potremo arrivare a capirlo più scientificamente, ma nel frattempo si fa il meglio possibile col gruppo locale. C’è poi l’obiettivo non facile di far sì che queste riflessioni del piccolo gruppo poi si allarghino alla consapevolezza di tanti altri cittadini. I rappresentanti locali stano lavorando su questo aspetto. Uno strumento su cui si ripongono parecchie aspettative è la costruzione da parte degli alunni delle scuole di un plastico della situazione attuale, con parti autonome sostituibili con le varie opzioni di trasformazione, per mostrare molto concretamente i rapporti tra vecchio e nuovo. Una cosa che potrebbe aiutare molto anche gli adulti del comitato, conferire al progetto una “atmosfera” che ancora gli manca, e fissare un ruolo dei giovani nelle decisioni. Funge ovviamente anche da validissimo strumento formativo.
Il piano di trasformazione
Perché il processo si realizzi anche nelle sue trasformazioni materiali, quella parte del progetto deve essere assai sensibile al percorso. Non mi riferisco né alla scala generale cittadina, né a quelle particolareggiate delle varie riqualificazioni, ma a quella intermedia di quartiere che le contiene. A questa dimensione si devono poter leggere i complessi intrecci fra ciò che funziona e ciò che non va. Si deve eliminare solo ciò che va rimosso, e solo dopo uno studio attento. Non si può operare considerando semplicemente i confini rettangolari fissati dalle vie, e il piano particolareggiato diventa più laborioso di quanto non avverrebbe in un programma di demolizione generalizzato, ma si tratta di un lavoro necessario. Sempre, quando adeguato, meglio un intervento di recupero, coordinato alle demolizioni e nuove costruzioni. In alcune aree probabilmente non sono neppure necessari interventi.
Si devono individuare spazi e edifici pubblici o collettivi, sfruttandoli come punti fissi del progetto, conferendo dignità e senso attraverso gli interventi, valorizzando i contesti, aprendo nuovi spazi che li pongano in relazione reciproca, e in rapporto con la comunità. La riuscita di tutto il percorso dipende anche dalla ricezione dei concetti base nei progetti di architettura e dettagli. I nuovi edifici devono inserirsi pienamente nel quartiere di cui fanno parte, in quanto volumi, ritmi, colori, materiali. Non vuol dire imitare l’esistente, ma armonizzarsi, essere complementari a quanto esiste, anziché entrare in contrasto.
Infine, si tratta di inserire nel quartiere attraverso la qualità del progetto l’idea di un nuovo spirito e stimolo. Attraversando un complesso di anonime case in linea in mattoni a Filadelfia mi è capitato di vedere ed entrare in una chiesa in stile barocco. Un forte contrasto, quello di essere improvvisamente proiettati in questo interno in penombra con le sue volte spaziose. Dopo essere uscito dalla chiesa, guardavo la via con occhi diversi. L’esperienza quotidiana di chi abita nei quartieri, il suo atteggiamento nei confronti dell’area, deriva da ciò che offre l’ambiente costruito. In questo caso la chiesa soffonde in tutta la zona un’atmosfera che altrimenti mancherebbe. Così nei progetti particolareggiati dobbiamo essere in grado di unire il quartiere con un identico spirito di novità, che trasformi il modo di abitarlo. Il che non è in contrasto con proposte audaci o radicali. Quel che conta è un impianto di base il più possibile chiaro e definito, poi via via si formano le singole proposte per il tessuto edilizio.
Concetti essenziali
Ho tentato di presentare un’idea generale fortemente integrata, in cui le singole componenti contano tutte, altrimenti non funziona l’insieme, né lo si può intendere nella sua complessità. Richiede un diverso modo di pensare, e se si continua a concepire la riqualificazione in termini di soli progetti non si riesce ad evolvere un’idea così. Solo se si mantiene la struttura della zona alla base del piano ci si arriva. Posso riconoscere quanto sia affascinante a modo suo l’approccio per enormi demolizioni di una intera zona, ma sul lungo termine non si raggiungono gli obiettivi. In qualunque città dove si rileva l’estensione totale del degrado, deve apparire evidente la necessità di un metodo diverso, se si vuole affrontare il problema. Dobbiamo capire che ci sono migliaia e migliaia di famiglie che dovranno vivere nei prossimi anni dentro a vecchie case, che sommate fanno milioni di anni di esistenza. E i nostri calcoli si devono rapportare a tempi del genere, a migliorare le cose per quanto possibile, ad agire su molti quartieri, non concentrarci solo su pochissimi.
Se riusciamo a collaborare coi cittadini, a far sì che il piano di riqualificazione entri a far parte della loro consapevolezza, ad arrivare a progetti che sono interventi essenziali nella struttura dei quartieri, allora avremo infuso uno spirito nuovo tra gli abitanti, e messo in moto una sorta di reazione a catena, che si allargherà in iniziative individuali di trasformazione. Avremo la miglior resa per ogni dollaro investito, e raggiunto l’obiettivo essenziale del nostro lavoro: affrontare decisamente il degrado urbano. La mia osservazione conclusiva, la più importante, è questa. Se quel che ho spiegato si deve realizzare, il soggetto essenziale di tutto il processo deve essere l’urbanista. Nessuno che guarda il problema nella prospettiva della sola trasformazione edilizia, o delle manutenzioni individuali, o degli aspetti legali e amministrativi, può seguire quel che ho descritto. Solo l’urbanista, con la sua formazione, riesce a guardare l’idea nella totalità sociale, edilizia, a scala di zona. Solo l’urbanista è in grado di mantenere un percorso chiaro e svolgere il ruolo chiave nella trasformazione, per affrontare come si deve il degrado urbano delle città americane.
Estratto da: Planning 1949 – American Society of Planning Officials, Proceedings of the National Annual Conference, Cleveland, Ohio, 1949, Titolo originale: Urban redevelopment, an opportunity for city rebuilding – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Immagine di copertina da: City of New York, Slum Clearance Progress, Title I, 1958
In questa stessa sezione Antologia, sul medesimo argomento della riqualificazione urbana detta Urban Renewal ai sensi della legge federale del 1949, si vedano i saggi molto critici di Jane Jacobs e William Whyte, estratti dalla raccolta The Exploding Metropolis. Forse non è un caso se Jacobs ricorda come avesse iniziato a formarsi una idea sui limiti culturali dei nuovi quartieri, proprio dopo aver intervistato per l’Architectural Record lo stesso Edmund Bacon, già presidente della Commissione Urbanistica a Filadelfia