Ritorno all’Eden, o almeno all’insalata

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Foto F. Bottini

We are stardust, We are golden, And we’ve got to get ourselves back to the garden. Siamo dorata polvere di stelle destinata prima o poi a tornare nell’idillio da cui è stata inopinatamente espulsa. Così non solo nel famoso coretto di Crosby Stills Nash & Young (Woodstock, Joni Mitchell 1970), ma anche negli innumerevoli tentativi di rifare in qualche modo il percorso dalla campagna alla città, che ci ha strappato le radici senza sostituirle davvero con qualcosa di altrettanto valido. Del resto, basta pensare un istante anche alle primissime riflessioni critiche di qualcuno che lo conosceva bene, lo sviluppo industriale primigenio, al punto da essercisi arricchito mica poco: Robert Owen. La sua Nuova Armonia, più o meno contemporanea a quel piano ortogonale di Manhattan 1811 che pare la carta costituzionale della lottizzazione dell’universo (e redatto dal costituzionalista Gouverneur Morris), guarda da tutt’altra parte, immaginandosi non solo equilibrio e rispetto fra gli individui e i gruppi di persone, ma anche fra natura e artificio, città e campagna. I suoi utopici insediamenti agro-industriali sparsi per il territorio sono dotati di mura che paiono più pensate per contenere la spinta dal di dentro, anziché proteggere da un attacco esterno di forze del male. Ma Owen, e tanti altri utopisti progressisti dopo di lui, cercavano appunto un equilibrio più avanzato nei rapporti sociali e ambientali.

Esiste tutta una spinta, difficile da non definire reazionaria (in senso lato) che contro industrializzazione e urbanizzazione cerca il puro ritorno a equilibri precedenti, a un’età mitica di rapporto tra l’uomo e la terra che il progresso economico e tecnologico avrebbe peccaminosamente interrotto. Se gli utopisti progressisti, poniamo, non mettono in dubbio il ruolo positivo di cose come le macchine per la liberazione dal giogo del lavoro manuale, o della concentrazione urbana che fa incontrare tantissime persone e produce stimoli intellettuali unici, tutti i neo-ruralisti condannano senza attenuanti la macchina e la città moderna, vagheggiando un mondo forse fatto di villaggi da cartoni animati e campi coltivati con la zappa, che come ovvio sarebbe inaccettabile per chiunque ha sperimentato gli indubbi vantaggi del progresso urbano-industriale. Senza però negare il portato negativo di questo percorso, ad esempio il degrado delle condizioni ambientali, o dei rapporti sociali. In buona sostanza, e molto schematicamente, sono questi due schieramenti di pensiero che si scontrano oggi nel quadro della crisi urbana, climatica, energetica, oggi anche economica, che rilancia tra le altre cose l’equilibrio città campagna.

Un aspetto piuttosto interessante del percorso progressista è rappresentato oggi dai movimenti per una alimentazione sana, ovvero da tutto quanto si occupa di cibo, agricoltura, cucina, distribuzione commerciale, e ciò che ruota attorno a questi elementi centrali. Apparentemente tutti sbilanciati sul versante ideologico verso l’approccio conservatore così come l’abbiamo definito schematicamente sopra, i movimenti per un’alimentazione sana hanno invece scoperto e rilanciato in termini post-moderni l’antica arte dell’orticoltura e agricoltura urbana, arricchendola presto di alcuni portati tecnologici e sociali di grande rilevanza. Attraverso la produzione di alimenti in area urbana finiscono così per proporre un’idea del tutto innovativa di metropoli, che supera il concetto di città macchina industrialista e razionalista, senza per questo né regredire verso modelli suburbani o di città giardino howardiana, né semplicemente sposare certe semplificazioni high tech in voga, come la cosiddetta fattoria verticale, più un laboratorio sperimentale di idee tutte da verificare che vero e proprio modello urbano, sinora.

Una delle spinte fondamentali, almeno alla visibilità di queste iniziative, sono i grandi processi spontanei di riuso delle superfici e dei contenitori dismessi, dal caso macroscopico dell’ex città industriale di Detroit a tanti altri esempi minori di crisi produttive e occupazionali locali, dove anche grazie all’attivismo della pubblica amministrazione gruppi e associazioni hanno cominciato a reinterpretare e rilanciare la vecchia tradizione degli orti, conferendo all’attività valori e potenzialità straordinarie. All’uso e riuso di superfici con funzioni di produzione alimentare, si uniscono immediatamente gli aspetti dello sviluppo socioeconomico, della distribuzione commerciale cosiddetta a chilometro zero, delle infrastrutture verdi e quindi della forma urbana e insediativa. E ciò chiama in campo quella forma originaria di coordinamento nell’uso dello spazio che chiamiamo piano urbanistico, a fissare alcune regole essenziali perché questo nuovo approccio alla metropoli possa crescere conservando sia il meglio della spinta all’innovazione che la compatibilità col tessuto.

Oggi la produzione alimentare urbana si svolge su superfici annesse a quartieri residenziali, complessi religiosi, luoghi di lavoro e scuole, spazi interstiziali nei quartieri o periferie, e ha sia caratteri di volontariato che di vera e propria impresa. I terreni vengono usati in forma definitiva o temporanea, legalmente o no, si tratta di superfici private, pubbliche, demaniali, con destinazioni ufficiali varie. Ecco, è entro questa varietà e anche ricchezza che deve sapersi muovere in modo non burocratico un’urbanistica innovativa, che ad esempio consideri le potenzialità di questo verde metropolitano anche ambientali, energetiche, climatiche. Oggi la discussione sul contenimento del consumo di suolo di fatto riapre, piaccia o meno, un percorso accidentato verso nuovi obiettivi di rapporto con l’ambiente, l’agricoltura, il territorio e infine (solo infine) il paesaggio. Ovvero per dirla molto in breve con la vecchia canzone: Back To The Garden, ma senza rinunciare alla città, ovvero non sognando in realtà un ritorno all’idiotismo della vita rustica più o meno travestito e riverniciato.

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