Nel periodo dalla ricostruzione italiana all’epoca della programmazione economica, emerge faticosamente una nuova figura culturale: il “planner”, che cerca faticosamente di distinguersi dall’architetto-urbanista del Ventennio. Cruciale è il ruolo giocato dalla pubblicistica internazionale nel formare questa nuova generazione di tecnici che, nel bene e nel male, saranno i maestri degli attuali protagonisti
Premessa
È stato spesso sottolineato (forse con qualche eccesso di masochismo), che la cultura italiana in generale che esce dal ventennio fascista è piuttosto provinciale, e che all’indomani della liberazione le giovani leve intellettuali varcano fisicamente o virtualmente le frontiere europee o l’Atlantico, affamate di stimoli culturali all’altezza insieme delle loro aspettative, e delle nuove prospettive di una nazione democratica, in crescita civile, sociale ed economica. Per gli architetti/urbanisti questa esperienza assume valenze particolari, in cui alla sprovincializzazione si somma e spesso si sovrappone il nuovo uso che della cultura internazionale viene fatto, di vera e propria cifra del rinnovamento, a volte straordinario, reale e profondo, altre superficiale, strumentale, poco convinto. È un processo che avviene parallelamente alla formazione universitaria, spesso in alternativa ad essa, in cui la nuova generazione non riesce a scorgere se non “la frattura esistente tra l’insegnamento impartito nelle facoltà e l’esigenza di riferirsi a problemi più vasti e profondi che trascendevano la mera questione degli stili”[1].
Si tratta ovviamente di una fase complessa, che può essere letta secondo molti piani, che comprendono ad esempio la circolazione di idee fra élites (nazionali, internazionali, di studenti o di studiosi o di professionisti ..) così come un dibattito più diffuso e “di massa”, e all’interno di questa prima articolazione anche le varie fortune critiche di questo o quell’autore, o concetto, e la sua stabilità nel tempo oltre le mode. Il breve testo che segue, si limita a sfiorare, e nemmeno in modo esaustivo, solo uno di questi molti aspetti, e nemmeno tra i principali: la “disponibilità effettiva” di alcune di queste informazioni, punti di vista ecc. Si tratta di un percorso che ho costruito strumentalmente, per raggruppare in poche “voci” distinte molti contributi eterogenei, che vanno oltre la lettera dei testi citati nelle note, tentando di fornire una traccia di riflessione: cosa si presenta allo studente di architettura, desideroso di curiosare nel panorama del planning internazionale, nel periodo della ricostruzione?
Questa – parzialissima – risposta tiene conto soprattutto dei materiali periodici reperibili all’epoca, unitamente ad alcune monografie (pochissime citate nelle note) documentatamente circolanti. Il percorso è stato articolato in sei “voci”, ognuna a coprire il periodo dall’immediato dopoguerra all’emergere del nuovo paradigma della città-regione nei primi ‘60, che segna l’inizio di un’epoca nuova, in termini che sarebbe qui troppo lungo anche semplicemente accennare. Per inciso, i due periodici maggiormente citati nelle note, Town and Country Planning (TCP) e l’Architecture d’Aujourd’hui (AA) rappresentano al tempo stesso non solo quelli più diffusi ed accessibili nelle lingue più conosciute, ma anche i più rappresentativi di due tendenze che allora come oggi si contrappongono: l’urbanistica intesa come integrazione pluridisciplinare e equilibrio fra pubblico e privato nel caso britannico, la progettazione della città e il ruolo centrale dell’architetto nell’organo dei CIAM francesi. Semplificando al massimo, ovviamente.
La disciplina nel secondo dopoguerra: stato dell’arte e referenti sociali
Fra gli anni Venti e Trenta l’azione degli architetti, in particolare del gruppo che fa riferimento ai CIAM, aveva puntato gran parte delle proprie forze al rinnovamento dell’urbanistica secondo criteri di inclusività, pur secondo una ovvia prospettiva orientata ai propri temi. È probabilmente però solo nel secondo dopoguerra, che questo approccio e questa prospettiva assumono ad un tempo grande visibilità, ed insieme potenzialità operative. Le macerie della guerra, i problemi e le urgenze della ricostruzione, sembrano rendere praticabile la ricerca di un sostegno politico, di un consenso sociale diffuso, per una urbanistica intesa in senso lato come pianificazione del territorio nazionale: uso razionale delle risorse; organizzazione del sistema industriale e relative reti di comunicazione e trasporto; inserimento della struttura agricola in un quadro moderno di sviluppo. Erano temi già emersi negli anni precedenti, per esempio nel dibattito italiano sulla “bonifica integrale”, ma ora le grandi affermazioni di principio di Le Corbusier, più o meno benevolmente accolte dalla critica internazionale già alla pubblicazione di Urbanisme nel 1924, sembrano trovare un terreno quanto mai fertile. Studio degli agglomerati umani, orientamento della loro evoluzione, organizzazione armoniosa delle unità che li compongono, tutto questo appare ora in una nuova luce, nella prospettiva dell’uomo nuovo che si intravede per questo pacifico dopoguerra[2].
Con queste premesse, L’Architecture d’Aujourd’hui esordisce con un corposo numero monografico sull’urbanistica alla fine dell’estate 1946, importante sia per l’ampia audience internazionale della rivista, sia per la cura e l’autorevolezza con cui la pubblicazione è compilata, sia infine (e prima di tutto per gli scopi di queste note) per il seguito assoluto e relativo che la rivista ha in Italia[3]. Urbanistica, per i CIAM, è stabilire programmi a lungo termine che permettano di tradurre le intenzioni in realtà; è la ricerca dei mezzi finanziari; è la revisione di leggi e norme che spesso si oppongono a questi obiettivi. Ma non pare proprio che l’urbanistica “ufficiale” (quella dei municipi e degli organismi pubblici in generale) concepisca la sua missione in questa prospettiva. I piani, quei pochi faticosamente giunti alla conclusione dell’iter amministrativo, mancano di “dottrina”, sono timidi nelle concezioni, e contemporaneamente deboli nelle realistiche prospettive di realizzazione. Pure, conclude l’editoriale di presentazione del numero monografico, in una democrazia, l’urbanistica si inserisce senza soluzione di continuità nel quadro di una grande opera collettiva, che richiede adesione cosciente e partecipazione: in un paese libero non c’è posto per una urbanistica autoritaria, anche se a fin di bene[4]. Si introduce così una questione, nuova ma non nuovissima per le democrazie occidentali, inedita per l’urbanistica italiana: il consenso di strati estesi di cittadini, la collaborazione attiva dell’opinione pubblica allargata. Di conseguenza, si introduce il tema della divulgazione di temi, tecniche, obiettivi, terminologie, che vedano il layman, più o meno direttamente coinvolto e/o sconvolto nella vita quotidiana dai grandi progetti, trasformarsi da spettatore in soggetto attivo. Tanto più, si richiede questo processo di “alfabetizzazione urbanistica”, quando il ventaglio di destinatari si prospetta quanto mai allargato: “cittadini” in senso generico, ma anche gli stessi funzionari sinora poco sensibili ai temi del piano, o i ceti esclusi per motivi di censo o per collocazione territoriale, come gli abitanti delle campagne che nella prospettiva del decentramento produttivo verranno sempre più investiti dai processi di modernizzazione. Questi, in generale, i temi programmatici di una disciplina che oscilla tra il recupero della dimensione utopica così come declinata nel decennio precedente, il suo adattamento al nuovo contesto sociale e di partecipazione, l’individuazione dei temi della ricostruzione europea insieme come risorsa e rischio di ricaduta in antichi “vizi”: burocrazia, dirigismo, autoreferenzialità.
Ma in un “vizio”, spesso scambiato per virtù, ricasca la cultura degli architetti pianificatori quando riprende la tecnica, cara alle avanguardie ma forse meno adatta ad una comunicazione non episodica, del manifesto culturale fatto di affermazioni nette, organigrammi, “leggi” più o meno mutuate da felici intuizioni. Tocca ad André Lurçat, declinare quello che vorrebbe essere un rinnovato patto fra architetti-urbanisti e società, contrapposto al rapporto unidirezionale fra burocrazia ministeriale e cittadini impotenti[5]. Così, la loi de l’homme inquadra l’urbanistica in quello che è il suo obiettivo e la sua ragion d’essere, per non confonderne mai i fini coi mezzi. La loi du site avoca a sé, indirettamente, le discipline territoriali ancora riluttanti, come geografia o geologia, individuando in più una conseguente loi du climat et du soleil che recupera le antiche competenze dell’igiene, della salute, delle scienze dell’organizzazione, mentre una loi des convenances inquadra la progettazione spaziale all’insegna del funzionalismo. Né poteva mancare una loi des trafics, concepita in termini di stretto rapporto con i sistemi di azzonamento, che soli determinano le necessità e quantità di spostamenti da una funzione all’altra, razionalmente distribuite nello spazio in base ad una loi des répartitions. L’aspetto esteriore sarà regolato da una loi de l’espace per le questioni generali, e da una loi de l’aspect per quelle strettamente estetiche. Concludono la serie delle prescrizioni i vincoli nel rapporto fra intenzioni e mezzi, fra ideali e possibilità concrete di realizzazione, anche qui articolate fra la loi du meilleur rendement nei singoli progetti, ed una più generale loi des possibilités estesa nel tempo e nello spazio, che abbraccia sia le contingenze economiche, sia quelle tecnologiche, organizzative, dei bisogni sociali. In conclusione, come alternativa all’approccio burocratico che l’ha caratterizzata sinora, une doctrine d’Urbanisme réaliste doit être populaire.
Il percorso per costruire questa urbanistica “popolare”, non sembra però discostarsi molto dalle strategie che avevano caratterizzato in buona parte d’Europa l’affermazione delle disciplina negli anni Trenta. Secondo gli architetti, non c’è alcun bisogno di nuove elaborazioni teoriche, ma di semplice buona pratica quotidiana di quanto già forma il senso comune[6], e si tratta né più né meno della Carta d’Atene, il cui spirito andrebbe ben oltre le semplici affermazioni di principio, come dimostrano le varie realizzazioni pratiche che dal 1933 in poi l’hanno tradotta in tangibili spazi. L’urbanistica è arte nuova, almeno nell’accezione complessa assunta nella prospettiva della ricostruzione pianificata. A parere di molti, urbanistica coincide più o meno con un accresciuto senso sociale degli architetti[7], ma ancora, spesso, la responsabilità di redazione di un piano regolatore viene affrontata con irresponsabile spirito “compositivo”, da professionisti educati e formati più ad inseguire l’espoir du succès personnel, che non ad interagire con il sistema complesso della società e della pubblica amministrazione.
La specificità e la forza dell’approccio innovativo degli architetti, pur con questi limiti, è rivendicata e ribadita: l’eccesso di realismo spesso è solo una maschera per nascondere una estrema povertà di idee. La cultura dei CIAM porta a sostegno di questa tesi l’esempio degli Stati Uniti, popolo e società pragmatici per antonomasia[8], dove però l’urbanistica sembra essere studiata con un approccio totalmente idealista. Racconta, l’osservatore europeo, di scuole di urbanistica dove gli studenti, raccolti in un ambiente isolato e silenzioso, studiano con prestigiosi maestri a progettare città che non hanno niente a che vedere con quelle in cui sono nati e cresciuti: unità di vicinato, ampi spazi pubblici, occasioni di vita comunitaria. Città che hanno al centro l’uomo e non un’idea astratta di efficienza. Interrogato dal cronista sull’apparente contraddizione fra un simile atteggiamento e le necessità pratiche, il direttore della scuola risponde più o meno così: “Qui si insegna ad essere idealisti, nello stesso modo in cui è idealista lei, che mi ha detto di voler andare domani a New York in macchina. Un uomo pratico non pianifica di andare a New York in macchina. Si limita a salire in auto, e a guidare qui e là per tutta la giornata, dove lo trascina il traffico”. Oltre la certo discutibile “morale” di questa storiella, sta però la forza e il “realismo” di un certo approccio ai problemi della città: di fronte alle sfide della ricostruzione, e all’indubbia crisi dell’approccio tecnocratico, la sensibilità dell’architetto può essere la chiave risolutiva del problema, o se non altro un tentativo valido di affrontarlo.
Di segno non molto diverso, nella sostanza se non nelle forme, il modo in cui il problema della pianificazione nella nuova società è affrontato dalla cultura britannica. “Idealismo”, qui significa però soprattutto adesione a bisogni individuali, e “educazione” urbanistica non solo comunicare grandi schemi al popolo, ma anche se necessario accogliere richieste, indagare sui bisogni, rivedere schemi se questi non corrispondono a necessità rilevate. Perché urbanistica “popolare” non è certo quella coltivata tradizionalmente dagli operatori immobiliari, inclini da un lato a promuovere idee di spazio preconfezionate, dall’altro a promuovere e sostenere qualunque forma di deregulation nell’uso del territorio, gridando allo scandalo perchè col Town and Country Planning Act si sarebbe introdotta, nel 1947, una inusitata innovazione … che è presente nell’ordinamento nazionale dal 1909! La mancata popolarità della disciplina, si deve anche ad un deficit di impostazione, perchè un conto sono i grandi schemi di pianificazione regionale e nazionale, un altro quelli che incrociano la vita quotidiana degli abitanti di una città o di un territorio. In definitiva, quando non si tratta di massimi sistemi o di ricerca avanzata, non c’è a ben vedere molta differenza fra il buon senso del cittadino comune e la buona pratica del pianificatore[9], anche per contribuire al superamento del piano come qualcosa di misterioso, lontano, deciso “là a Whitehall”, o in altri oscuri recessi dell’amministrazione, centrale o locale.
Ed è se non altro curioso che, là dove i francesi dei CIAM indicavano la cultura nordamericana a validità del loro metodo, proprio dagli USA la cultura britannica della partecipazione venga identificata come esempio. Catherine Bauer, in una relazione del 1950 sulla responsabilità sociale degli urbanisti, riassume il modello britannico, e vincente, di interazione sociale diffusa: decisioni politiche prese di concerto e scientificamente, a proposito dei reali bisogni in termini di abitazione e città[10]. Decisioni possibili solo quando, normalmente e continuamente, punti di vista diversi si scontrano sulla stampa, in modo anche sgangherato e spettacolare, a sostegno di interessi visibili e comprensibili. Perché, piaccia o meno, il cittadino ha poca influenza sulle decisioni che determinano qualità e forma del suo ambiente di vita. Esiste, certo, il controllo del ceto politico elettivo, ma decisioni e informazioni sono appannaggio di una rete complessa di specialisti, che redigono piani, scrivono regolamenti, gestiscono i passaggi dal progetto alla realizzazione. Sono personaggi che spesso non hanno molto potere, presi singolarmente, ma che nell’insieme costituiscono un organismo abbastanza autoreferenziale da far perdere di vista quello che è (o dovrebbe essere) il committente reale di tutti questi investimenti economici e progettuali: il cittadino, persona in carne ed ossa e non astrazione statistica, che merita di rapportarsi non con una “macchina” misteriosa di cui non capisce nulla, ma con argomenti di cui coglie senso generale e scopi. È, quello della Bauer, una sorta di invito all’impegno “politico” del planner, alla rinuncia ad un comodo ruolo di tecnico super partes.
Un impegno e una trasformazione di ruolo che sembrano quanto mai urgenti, visto che la stessa parola “urbanistica” sta, a parere di molti, diventando termine poco gradito, mentre la stampa popolare soffia sul fuoco dando della pianificazione e di chi la pratica un’immagine poco raccomandabile, e al termine stesso il vago sapore di un insulto[11]. Ciò si deve anche agli usi impropri e fantasiosi di parole nuove da parte di interessati incompetenti, che suggerisce l’immagine del pianificatore intento ad oscure pratiche, che resteranno oscure e impopolari finché qualcuno non si deciderà ad intervenire sul linguaggio, e sulla chiarezza di obiettivi. Gli urbanisti chiariscano prima a sé stessi cosa vogliono, e poi in modo semplice lo comunichino alla stampa popolare. La quale stampa è “popolare”, appunto perchè tale, e a differenza dei nuovi apprendisti stregoni non si fa vanto di borrow chunks of jargon from psychology and economics, per poi restituirli in forma necessariamente confusa e incomprensibile. Sembra che la pianificazione sia una buona parola finita in cattive mani: una parola sfuggita al controllo dei pianificatori, e ora libera di aggirarsi per il mondo facendo danni.
Chiarezza e consenso sono quello di cui necessita l’urbanistica, se vuole presentarsi all’Europa non più solo come la carta vincente della ricostruzione, ma contributo fondante dei nuovi orizzonti di unificazione continentale che iniziano a delinearsi concretamente. Non è quella del “coordinamento territoriale” una delle parole d’ordine della disciplina? Dunque ben venga il superamento dei confini politici reso possibile dal progresso tecnologico, e ben venga l’estendersi del concetto di pianificazione, nuova scienza che comprende sia il meglio dell’approccio umanistico in senso lato, sia i contributi delle più recenti e nuove discipline economiche, geografiche, e delle correlate tecnologie[12]. Siamo a metà degli anni Cinquanta, e l’idea stessa del piano come metodo di governo sembra farsi strada decisamente, di fronte alle sfide poste dallo sviluppo: dilatazione non governata degli insediamenti produttivi e di quelli residenziali, delle loro reciproche relazioni, delle reti infrastrutturali di connessione. La “conurbazione” sembra ahimè uscire dal novero delle “brutte parole” vittoriane, per diventare realtà quotidiana e tangibile, e insieme generare aspettative tra chi, sostenendo il decentramento, ha posto le basi di un modo veramente nuovo di pensare la pianificazione, oltre le dichiarazioni di principio. Quella che a livello continentale e oltre è ormai la “città conquistatrice”[13], può essere controbilanciata da una cultura solida e diffusa, che pur con ampie lacune trova consenso diffuso. Ormai, pochi si sognerebbero di esibire con orgoglio il fatto di abitare in una città grande, enorme, più grande di tutte. Anche i “drogati” di vita urbana, che sembrano non poter fare a meno della congestione, si rivelano a un esame più attento per quello che realmente sono: proprietari di seconde case che, quando lo desiderano, si trasformano in suburbanites o campagnoli part-time. E questo mutamento di prospettiva e di opinione diffuso è stato reso possibile dall’avvio, pur tra infinite difficoltà, di una politica coerente con le indicazioni della Royal Commission for the Distribution of the Industrial Population, di cui il presidente Sir Montague Barlow finiva di costruire la struttura operativa nello stesso 1937 in cui (è il caso di ricordarlo) per esempio, in Italia, Giuseppe Bottai dava legittimazione istituzionale alla disciplina inaugurando il congresso INU. L’ingresso del planning dalla porta principale nella politica britannica, porta, nel momento in cui emerge l’apparentemente nuovo paradigma della città-regione, a vedere in una prospettiva unitaria un ampio arco di tempo, anche oltre opposte concezioni politiche[14].
E non è certo un caso se, con l’avanzare dell’emergenza metropolitana, e delle relative difficoltà e diseconomie, anche da un ambiente apparentemente refrattario ad idee che si ritengono tipiche della sinistra europea, come quello dell’impresa americana, emergono istanze diffuse di “pianificazione”. In altre parole, il movimento che dagli anni Venti in poi ha proposto una città efficiente, ha sì affermato e imposto l’esigenza di pianificare, ma si è sempre trattato di piani per strade, nuovi sobborghi, complessi per uffici, o parchi, o case popolari. Tutto questo è stato realizzato senza alcuna prospettiva realmente strategica sulla città del futuro, sulle sue potenzialità per la vita umana[15].Ora, sembra giunto il momento di cambiare. (prossimamente – per ovvi motivi di leggibilità online – la seconda parte di questo saggio)
[1] Chiara Mazzoleni, «Lewis Mumford nella cultura urbanistica e architettonica italiana», CRU n. 9-10, 1988, p. 15
[2] c’est créer les conditions les plus favorables au plein épanouissement de la personne humaine . Pierre Vago, [Editoriale], AA 7-8, sep-oct 1946
[3] Un seguito che va ben oltre il prestigio internazionale del periodico, come si comprende confrontandone i temi, i punti di vista, e anche i singoli “casi” pubblicati, con quelli via via trattati prima da Metron, poi da Urbanistica.
[4] l’hadésion consciente et complète, la participation active de tout le peuple. Il ne peut y avoir d’Urbanisme imposé dans un pays libre. Pierre Vago, op. cit.
[5] Cfr. André Lurçat, «A propos de la Charte de L’Urbanisme du Ministère Dautry», ivi. Si tratta, a ben vedere, di un consolidato modello comunicativo, che replica e replicherà in forme molto note sempre lo stesso schema, come nel Can our Cities Survive ?, curato in questi anni da Josè Luis Sert sullo schema della Carta d’Atene, o nel caso italiano dal più complesso schema costruito da Piero Bottoni per la Triennale della Ricostruzione nel 1947, e pure “figlio” delle conclusioni del CIAM 1933, riassunte a suo tempo dallo stesso Bottoni nella “tavola sinottica della disciplina urbanistica”, in Urbanistica, Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano 1938.
[6] une doctrine existe. Il ne reste plus qu’à poursuivre son application. André Wogenscki, «La Charte d’Athènes», AA cit.
[7] Les experiénces des Architectes les ont peu à peu menés vers l’Urbanisme. Georges F. Sebille, «De l’urbanisme a l’architecture», ivi
[8] Cfr. André Sive, «Urbanisme Américain», idem
[9] at the local level, expert and citizen can work together to their common advantage. Laurence Welsh, «Planning and the plain man» [recensione a R.K. Kersall, Citizen’s Guide to the New Town and Country Planning, Pen-in-hand, Oxford], Municipal Review, Oct 1949, p. 192
[10] more refined and exact decisions about the kind of homes and cities people want, in the political arena. Catherine Bauer, «Social responsibility of the Planner (An address to a Conference of American Planners, Niagara Falls 1950)», TCP, Apr 1952
[11] giving it an ominous and sinister sound, while the word “planners” is almost a term of abuse. John Gloag, «Planning and Ordinary People», TCP, Nov 1952
[12] cette nouvelle science qui tient de l’humanisme antique, mais qui lui allie cette toutes récentes de la géopolitique, de l’économique, de l’économetrique, des sciences humaines et sociales de la statistique électronique. Maurice Rotival, «Faut-il planifier L’Europe?» , AA, n. 63, déc 1955
[13] Cfr. Frederic J. Osborn, «The Conqueror City», TCP, Apr 1961 [relazione alla American Society of Planning Officials, Miami Beach, 1960]
[14] We use both the right and left hands in taking our nourishment, whereas Americans seem so timid of any suspicion of Leftism that they transfer the fork to the right hand for every mouthful – a beautiful example of leisurely manners; but is it necessary to carry the idea into political philosophy? ivi
[15] unrelated to any grand vision of what the city might be as a whole, as a place for all the richness of human life. Norman Pearson, «North America: Planning without a Plan», TCP, May 1961