La legge urbanistica: pianificatori, decisioni e consenso
La questione della legge urbanistica, delle forme strutturate di patto sociale su cui si basa la legittimazione della disciplina, si declina in vario modo nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra. In generale, se l’Italia si colloca in un “limbo” dove le istanze di riforma si applicano a qualcosa di non ancora sperimentato, in altri contesti una trasformazione evolutiva è comunque oggetto di pressioni dovute sia all’accumularsi di idee sinora tenute a bada dall’emergenza bellica (e che temono di restare tali nella nuova emergenza della ricostruzione ad ogni costo), sia all’oggettiva necessità di affrontare nuovi problemi con nuovi metodi e meccanismi. Sul numero monografico che L’Architecture d’Aujourd’hui dedica all’urbanistica nel 1946, la questione della riforma legislativa si pone, in primo luogo e curiosamente, come patto fra tecnici e popolo: un popolo stanco, ferito nel fisico e nel morale, che dopo cinque anni di occupazione non vedrebbe di buon occhio qualunque tipo di nuova “disciplina”, e men che meno restrizioni nel ripristino delle condizioni di vita quotidiana nelle città. Comunque vada, i muratori si stanno già rimboccando le maniche, i cantieri apriranno presto1, ed i piani approvati devono essere rispettati. Per quanto essi sono uno strumento istituzionalmente garantito di partecipazione del cittadino e dei suoi interessi alla costruzione della città. Sarà poi possibile, eventualmente, iniziare anche grazie a queste esperienze una revisione culturale e legislativa per costruire strumenti più adatti alle nuove esigenze. Quindi non siano troppo indulgenti con se stessi, gli architetti che non concordano con questa o quella soluzione: il problema ora è quello di ripristinare il funzionamento fisiologico delle città. Questa è la tanto auspicata “scala umana”.
E se in Italia la legislazione urbanistica generale è qualcosa ancora tutto da sperimentare, nel resto d’Europa molto c’è da dire a proposito di norme a volte abbastanza “sperimentate”, ma vissute sia dalla società che dal ceto politico, come vaghe istanze di architetti, mode destinate a passare, non certamente destinate a cambiare la tradizione operativa degli uffici tecnici municipali, e men che meno la vita quotidiana della popolazione. I primi decenni del Novecento, da questo punto di vista, appaiono in prospettiva come vero e proprio “monumento alla casualità”2. Una visione che riassume almeno due aspetti: da un lato la lentezza e disparità dei processi di affermazione legislativa dell’urbanistica (nel primo decennio del secolo per esempio in Gran Bretagna e Olanda, solo nel secondo dopoguerra per l’Italia); d’altro canto l’impossibilità per l’architecte, in quanto tale, di tracer le plan di qualunque legge socialmente accettabile, ovvero di saltare in tutto o in parte processi di mediazione, senza i quali (come hanno sperimentato e continueranno a sperimentare in futuro) la legittimazione non va oltre la superficie. Come ricorda ai lettori de L’Architecture d’Aujourd’hui un funzionario del ministero per l’urbanistica e la ricostruzione, i piani almeno in Francia sono cosa corrente, pur con tutte le possibili critiche, e anche la cultura della pubblica amministrazione ha compreso lo stretto rapporto fra processo di ricostruzione, e pianificazione di medio-lungo periodo. Questa consapevolezza fa sì che, almeno in linea di principio, il processo dei piani di ricostruzione per le zone effettivamente sinistrate da distruzioni belliche, possa non solo sommarsi alla pianificazione “corrente” di scala comunale, ma diventarne il fulcro e coinvolgere anche scale più ampie, con i groupements d’urbanisme sovracomunali, che consentono studi e piani estesi al territorio di dieci o venti municipalità3.
Diverso, il caso della Gran Bretagna, dove apparentemente non solo l’urbanistica è accettata e sostenuta come funzione corrente del governo locale almeno dalla legge del 1909 (redatta con il contributo determinante di Raymond Unwin e della relativa cultura del decentramento), ma il sostegno sociale e politico alla pianificazione è garantito dalle scelte, maturate durante la guerra, di procedere ad una radicale riorganizzazione del rapporto fra Stato, territorio, interesse privato e pubblico. Se nel caso italiano questo circolo virtuoso è solo una vaga istanza dei tecnici, e in quello francese una possibile prospettiva di lettura, il Town and Country Planning Act del 1947 è sia punto terminale di un percorso disciplinare, sia tappa di una integrazione dei piani urbanistici con altri piani (di decentramento industriale, di riorganizzazione socio-sanitaria ecc.), ad ampliare il peaceful path to real reform indicato da Ebenezer Howard mezzo secolo prima. Anche in questo caso, però, si pone da subito un urgente bisogno di divulgazione, animazione sociale, alfabetizzazione a vari livelli. Il cittadino, improvvisamente nonostante tutto, dovrà imparare a camminare su un suolo patrio che non è più, per molti versi, quello su cui era nato e cresciuto. La legge appena approvata non nazionalizza la terra, ma il suo valore edificatorio4, e questo oltre i giri di parole significa espropriazione di un valore, di una aspettativa. Anche se a lungo preparato, in generale nient’affatto leftist, quello della legge è a revolutionary act, i cui reali contenuti saranno compresi (e puntualmente rintuzzati) solo in seguito. A maggior ragione, si pone quindi la questione informativa, sul piano tecnico per la tutele dagli interessi, su quello generale per assicurare il coinvolgimento e il consenso, anche critico. Con britannico aplomb si osserva che l’urbanistica non è scienza esatta, ma branca dell’amministrazione, e come tale nasce dal dialogo con i soggetti/destinatari, dalla continua e perfettibile ricerca di un equilibrio fra domanda e offerta. Emerge, una relativa sorpresa: il planning, anche nella sua patria, dove due generazioni sono cresciute insieme ai piani urbani e regionali, non gode di piena cittadinanza, ed è percepito come cosa abbastanza lontana dalla vita quotidiana. Figuriamoci, per l’uomo della strada, conoscere le competenze del Central Land Board, a chi sono delegate le competenze urbanistiche, chi esattamente redige un piano regolatore, come si fa a presentare un’osservazione o un ricorso … Deve quindi obbligatoriamente e con urgenza iniziare un processo di educazione e informazione dei cittadini, che veda al centro la pubblica amministrazione, e che possa contare sul fattivo sostegno della stampa locale5.
E la necessità di educare si pone in prima istanza per chi ha interessi consolidati: è rilevabile come i proprietari e potenziali costruttori siano tutti in linea di principio favorevoli ad un pianificato e controllato sviluppo degli insediamenti … tranne quando questa pianificazione e questo controllo riguardano il loro, specifico caso. Si tratta comunque di conflitti prevedibili, e destinati a ripetersi fisiologicamente. In questo senso, le autorità competenti sono invitate ad intervenire durante il processo di formazione del piano, a dirimere la maggior parte delle controversie con modifiche accettabili, che sperimentatamente conducono più spesso a miglioramenti che non a peggioramenti, e in definitiva a risparmio di tempo e denaro. È il caso comunque di continuare a ricordare che l’urbanistica non è scienza esatta, mentre gli interessi che tocca sono bene concreti e definiti, e quindi c’è enorme spazio per qualunque “equivoco”6.
Anche la questione fondamentale dei development rights deve avere come base di riferimento un’idea condivisa di cosa debba essere considerato development, e quindi oggetto di controllo. La definizione giuridica divide questo tipo di azioni in due distinte famiglie: “realizzare edifici, macchinari, operazioni minerarie sopra o sotto terra”, o effettuare “qualunque trasformazione nell’uso di edifici o terreni”. Ma come si traduce, in linguaggio corrente, questo gergo? Secondo i divulgatori britannici, il cambio di uso, meno immediatamente percepibile dal grande pubblico, non sarebbe in effetti di difficile individuazione, e si può stare tranquilli: le abitudini correnti di uso dello spazio non saranno certo sconvolte dal Town and Country Planning Act. Il cittadino potrà continuare a suonare il piano in casa sua, o fare lavori di falegnameria, o scrivere a macchina, senza nessun urbanista scocciatore a mettergli dei limiti. Le cose non cambiano, se per esempio il dattilografo inizia a farlo professionalmente, fino a quando, in qualche modo, non viene “materialmente” rimpiazzato il carattere essenzialmente residenziale dell’edificio, con un altro uso diverso. Questo, è facilmente comprensibile: con il cambio di destinazione prevalente e caratterizzante dell’edificio, è avvenuto un development, e questo ricade sotto le attività controllate dalla legge. Meno chiaro, il concetto di development quando connesso a trasformazioni non di uso, ma più direttamente materiali, come le costruzioni o simili. Per assurdo, pare che qualche buontempone abbia insinuato che, in senso stretto, anche un bambino che costruisce castelli di sabbia sulla spiaggia induca una significativa trasformazione del territorio7. Ce n’è a sufficienza per terrorizzare qualunque cittadino, e si anticipano in qualche modo le inquietudini del pubblico italiano quando, più di dieci anni dopo, vedrà accusato il ministro Fiorentino Sullo, proponente una nuova legge urbanistica, di voler espropriare la casa ai connazionali.
L’obiettivo dell’azione istituzionale è quello (del resto già indicato da L’Architecture d’Aujourd’hui per il caso francese) di tradurre affascinanti idee di spazio, condivise più o meno da tutti, in un processo di costruzione concreta e condivisa. Primo passo di questo percorso, l’istituzione del Ministero per l’urbanistica, ma si tratta ancora di un dicastero poco strutturato: nell’immagine diffusa, nei rapporti di forza con altre competenze, nei poteri reali di coordinamento. Gli obiettivi del Ministero della Sanità, precedentemente delegato all’urbanistica, erano chiari per tutti, e anche se i piani regolatori erano l’ultimo dei suoi problemi si trattava di un apparato potente, in grado di confrontare le proprie istanze sullo stesso piano con altri uffici, competenti per esempio riguardo agli impianti energetici, o militari, o alle grandi infrastrutture in genere. Scendendo di livello, e incrociando la questione della partecipazione democratica ai processi territoriali, si incontra una prima contraddizione: là dove elemento cardine di un planning organico è la scala regionale, mancano autorità elettive, essendo le istituzioni rappresentate solo dagli uffici regionali del Ministero. Questo significa, in ultima istanza, un blocco nel flusso decisionale, che certo può essere aggirato dando un piglio autoritario ai processi di piano, ma non aiuta in nessun modo la politica di divulgazione e discussione a tutti i livelli che, sola, garantisce il consenso: l’urbanistica deve vivere e crescere soprattutto fra la gente, e non solo negli uffici tecnici e amministrativi8. Un fatto forse ancora poco compreso, sia dall’establishment che dai diretti interessati.
Una dichiarazione della Town and Country Planning Association, a meno di due anni dall’entrata in vigore della nuova legge, ne sottolinea alcuni punti deboli. L’azione pubblica doveva essere mirata a: 1) ricostruire le zone bombardate e degradate, migliorandone qualità ed efficienza, attraverso una politica di decentramento produttivo e di popolazione; 2) conservare le fasce verdi attorno alle città, e le terre agricole produttivamente strategiche, proteggendole da casuale suburbanizzazione o sporadica edificazione; 3) controllare che gli insediamenti non si sviluppassero né indebitamente mischiati, né troppo lontani gli uni dagli altri, ma raggruppati in modo da servire i bisogni socioeconomici, migliorare l’ambiente, prevenire il degrado. Tutto questo sta avvenendo in misura troppo limitata, e si si assiste invece spesso al reinsediamento residenziale nelle zone centrali, mente la politica di sostegno alle New Towns non procede ad una velocità sufficiente9.
Efficienza e democrazia, a livello locale sollevano la questione del rapporto fra circoscrizioni amministrative e urbanistica. È noto come l’approccio prevalente del planner sia di relativa indifferenza ai confini, spesso stabiliti in epoche e per motivi affatto diversi da quelli di decentramento e riequilibrio che si pone il piano regolatore, e a volte rappresentanti proprio il principale limite ad azioni in questo senso. Con il passaggio delle deleghe per i piani regolatori al Ministry of Housing e Local Government, la questione assume però connotati di potenzialità inediti, raggruppando sotto un unico dicastero sia le questioni circoscrizionali che di coordinamento territoriale. È noto come i metodi più comuni fossero da un lato l’adesione volontaria a un joint committee, dall’altro l’estensione dei confini (municipale, di contea ecc., di uso corrente nel resto d’Europa) con incorporamento più o meno coatto di altre comunità. L’unione di entrambe le competenze sotto un unico dicastero, si spera, potrà risolvere la questione una volta per tutte. In attesa che questo avvenga, gli urbanisti possono solo collaborare volontariamente l’uno con l’altro nella redazione di separati piani per separati territori, e tentare unitarietà di intenti mentre i rispettivi datori di lavoro (i consigli municipali o di contea che li hanno ingaggiati), continuano a guardarsi in cagnesco10.
Nell’autunno 1957, a dieci anni dall’approvazione della legge urbanistica, il bilancio che se ne può trarre è quantomeno contraddittorio. Secondo il Ministro competente Henry Brooke, l’uomo della strada, scopre l’urbanistica quando gli impedisce di fare qualcosa, o permette al suo vicino di casa di fare qualcosa che lo disturba. Fallimento dell’opera di alfabetizzazione e divulgazione? Macché: l’urbanistica (intesa come professione) deve ficcarsi bene in testa che l’individuo e la sua libertà non possono essere messi in discussione11. Questo non significa rinunciare alla pianificazione, ma imparare a tenere nel conto quanto una sperimentata “interazione sociale” ha dimostrato sopra ogni dubbio, ovvero che occorre mediare fra un teorico “bene comune”, e la somma dei concreti interessi individuali. Ciò premesso, anche questioni di grande respiro si riducono a dettagli tecnici, come i modi di attuare la politica di decentramento produttivo indicata, già da prima della guerra, dagli studi di Raymond Unwin su Londra e da quelli della commissione Barlow. È ancora viva, nell’immaginario collettivo, l’aspirazione a creare nuove comunità di vita e lavoro, dove anche i più impensabili modelli di esistenza possano trovare spazio sostenuti da moderne tecnologie e forme organizzative, in luoghi che siano “contro-magneti” all’attrazione delle grandi metropoli12, che insomma recuperino la forza propulsiva che originariamente aveva determinato il successo delle idee di Howard. Questo, in stretto contatto e sintonia con l’individualismo nazionale e di impresa, coinvolgendo nei processi decisionali strategici gli operatori economici. In mancanza di ciò, si rischiano casi di assurda contraddizione come ad esempio nei casi dove l’esigenza tutta teorica di conservare fasce verdi e terre migliori, si traduce (a parere proprio degli esperti in agricoltura) in enormi difficoltà di localizzazione per altre attività residenziali o industriali, con gravi perdite visto che perdite economicamente anche poco significative, spesso con una prospettiva ristretta vengono enfatizzate trattando il territorio agricolo come “vacca sacra” intoccabile13.
Uno dei motivi più evidenti, dell’ostilità che continua a circondare la regolamentazione urbanistica dei comportamenti individuali, è il fatto che spesso la divulgazione, pur capillare, è stata rivolta agli obiettivi sbagliati. Là dove le maggiori diffidenze si concentravano negli interessi, si è invece mirato all’immaginario, alla responsabilità, all’idea di bene comune. Detto in parole diverse, il gap tra obiettivi della pianificazione e obiettivi degli individui non si è focalizzato sul rapporto fra meccanismi democratici e sistema decisionale. La critica più comune in questo senso, è quella di rallentare gli investimenti: l’operatore vuole agire, ma la regola vuole che le sue intenzioni siano esaminate e ponderate da un apposito Comitato di rappresentanti eletti. Un ostacolo superabile, semplicemente, separando dell’indirizzo generale, la policy, dalle decisioni caso per caso, che con la scusa della “democrazia” si prestano invece ad alimentare discrezionalità, arbitrio, e nel migliore dei casi indebiti rallentamenti14.
Una nuova epoca si sta delineando, costruita anche sui risultati della pianificazione post bellica: decentramento, trasformazione delle attività economiche, diffusione dell’automobilismo e della casa in proprietà, aumento generalizzato del reddito e nuovi consumi di spazio. Un processo visibile soprattutto nelle grandi città, e che richiede sia di proseguire nelle politiche generali di dispersione pianificata che di individuarne nuove. Una dichiarazione della primavera 1960 della Town and Country Planning Association, individua le seguenti politiche per le aree metropolitane: a) prevenire la crescita dei livelli occupazionali nei centri congestionati; b) decentrare i posti di lavoro per attirare la residenza nelle zone esterne; c) accelerare il rinnovamento dei centri decongestionati; d) prevenire qualunque crescita ulteriore attraverso cinture verdi; e) attrarre attività in aree di declino, favorendone rilancio socioeconomico anche attraverso la pianificazione territoriale e urbanistica15. Sembrano in fondo riproposizioni di obiettivi antichi, ma si applicano ora ad un contesto profondamente trasformato. (segue nella terza puntata; qui la precedente prima parte del saggio)
NOTE
1 nos terrassiers et nos maçons ouvrirant les chantiers de la reconstruction et commenceront leur travail. Andre Prothin, «Urbanisme et reconstruction», AA, n. 7-8, sep-oct 1946
2 monument dont nul architecte n’avait tracé le plan. Andre Menabrea, «La recherche d’une législation urbaine», ivi
3 Cfr. M. Palanchon, [Architecte-urbaniste chargé des projets d’aménagement. Ministère de la Reconstruction et de l’Urbanisme]«L’effort Français en matière d’urbanisme de 1940 a 1945», idem. Per il rapporto gerarchico fra piani e competenze, sullo stesso numero monografico della Rivista, «L’organisation de l’urbanisme en France»
4 does not nationalise the land, but it does nationalise the development value in land. Desmond Heap, «New Planning Act explained», Municipal Review, Aug 1948, p. 117 (I); Sep 1948, p. 130 (II)
5 a process of educating and informing the people … helped … by the local Press John Mumford, «Town and Country Planning», Municipal Review, Mar 1949, p. 49
6 planning is not an exact science and the interests of developers are very real. There is, therefore, plenty of room for disagreement .John Mumford, «Planning appeals», Municipal Review, July 1949, p. 99
7 the building of a sand-castle on the beach might be held involve development. John Mumford, «Development under the 1947 Act», Municipal Review, Aug 1949, pp. 125-126
8 planning cannot be accomplished in Britain simply by men working at drawing boards and in offices. William A. Robson, «Politics and Administration of Planning», TCP, Dec 1949
9 «The working of the Town and Country Planning Act 1947. A statement by the Town and Country Planning Association», TCP, Feb 1950
10 planners must continue to do their willing best under the present dispensation and between them there is good will and mutual understanding, even if some of their masters are sometimes apt to look askance at each other. George Pepler, «Local Government and Planning», TCP, Nov 1952
11 planning must accept that this is a country where we prize freedom of choice and intend to go on prizing it. «Ten years of Planning Control», TCP, Mar 1958
12 counter-magnets to the pull of the great conurbations . ivi
13 a marginal loss of agricultural output is treated … as a sacred cow. idem
14 Cfr. Ernest Doubleday, «The administration of Planning», TCP, Apr 1959
15 Cfr. «Planning problems of the Large Towns», TCP, June 1960