Se è vero che nell’immediato secondo dopoguerra la ricerca degli urbanisti si orienta soprattutto verso l’innovazione, molto resta da realizzare sulla scorta di quanto elaborato ed accumulato nei lustri precedenti. Le Corbusier, da par suo, non perde l’occasione per ricordare che non c’è alcun bisogno di cercare nuove dottrine, ma lavorare nel solco di quanto già esiste, ovvero le dichiarazioni dei CIAM, e avviare senz’altro un processo di ricostruzione pianificata entro cui quadro generale e scelte particolari siano organicamente interdipendenti1. Mentre non sembra sfiorarlo l’eloquenza del dibattito britannico sul decentramento, il maestro di La Chaux De Fond nota come il ministro inglese Sir Bevin abbia sostenuto la necessità di realizzare residenze sviluppate in altezza, sancendo così una non meglio precisata “conversione” della cultura nazionale britannica alla “città giardino verticale”. Più scontato, il sostegno alle sperimentazioni urbanistiche dei suoi allievi con la Cidade dos Motores, in Brasile, orientata a una idea di piano dove soprattutto è l’architettura a farla da padrona, ampliando i propri strumenti e prospettive senza mutare la propria natura2, ovvero la risposta degli intellettuali agli stimoli della modernizzazione inizia a tradursi in “risposte”, certamente meditate ma forse poco “popolari”, come dimostra l’applicazione in contesti a povera tradizione democratica e partecipativa.
A Londra, dove la questione della “città giardino verticale” non sembra incontrare grande interesse, ci si chiede invece che fine abbiano fatto i grandi piani di ricostruzione e decentramento della città, redatti durante la guerra nella scia dei documenti di intenzioni delle commissioni governative sul decentramento industriale, la decongestione della Metropoli, l’uso razionale anche ad usi agricoli del suolo. Si parla, in altri termini, dei piani per la Contea di Londra e per la regione della Greater London, elaborati con il coordinamento di Patrick Abercrombie e diventati a livello internazionale – certo, oltre le suggestive e utopiche immagini di Le Corbusier – il simbolo di una concreta opera di ricostruzione pianificata, con obiettivi di lungo periodo, con garanzie partecipative. Il 15 giugno 1949 una folla piuttosto rumorosa e polemica è riunita alla Conway Hall a chiedersi: What has happened to the London Plans?3 Le risposte sono molte, e tutte legittime, ma il filo conduttore è uno solo: finita l’emergenza della guerra, sembra che le nuove progettualità scaturite dall’emergenza siano affievolite, se non scomparse. È il caso della mancata collaborazione fra enti di governo centrale e locale, che a fronte di un piano esistente per l’intera regione metropolitana non ne facilita la messa in atto. Come la radio avvertiva i cittadini di non frequentare il centro per i pericoli di attacco aereo, osserva piccata una signora, ora si potrebbero invitare i potenziali immigrati in città a non venirci, in ossequio alle politiche di decentramento e decongestione. Ma nessuno pensa a una cosa così semplice. Perché? L’immagine dell’intervento pubblico non ne esce bene, e queste sono cose che l’elettorato capisce, e al momento del voto esprime, piaccia o meno ad urbanisti e pianificatori pubblici, che del sostegno popolare hanno assolutamente bisogno.
Se in Gran Bretagna infuria la polemica, uno sguardo incantato/disincantato sull’Italia della ricostruzione offre un panorama forse più ricco ancora più contraddittorio. Per l’osservatore straniero l’Italia è per antonomasia terra di bellezza e poesia, abitata da un popolo erede di raffinati costruttori, ma in qualche modo inconsapevole di tanta fortuna. Del resto lo spaesamento davanti a tante opere d’arte è tale da confondere chiunque, e qualsiasi giudizio sulla scarsa sensibilità degli italiani sarebbe superficiale4. Vero è, che l’impatto della modernità appare violento, e ardua la sfida dei pianificatori per tentare da un lato di cogliere appieno dei frutti del progresso, dall’altro di conservare ciò che il passato ha sedimentato, non ultimo il know-how tecnico-artistico. Ma nella pur lodevole opera di ricostruzione, la pianificazione territoriale – almeno così come intesa dalla cultura britannica – ha avuto poco spazio5. Manca un Ministero dell’Urbanistica; la legge generale del 1942 e quella sui piani di ricostruzione sono inadeguate; le poche iniziative in corso per le aree delle maggiori città (il piano AR per Milano, gli studi per il Piano Regionale del Piemonte) sono condotti in modo isolato e volontaristico da pochi entusiasti, senza il dovuto sostegno pubblico. Anche immaginando che molti degli inputs più pessimisti siano da ricercarsi negli sfoghi dei frustrati planners italiani, va sottolineato l’abisso tra questo scenario e il pur aspro dibattito dell’urbanistica europea all’alba degli anni Cinquanta. Uno scenario che in parte si corregge, nella realtà così come nell’immagine restituita dalle riviste straniere, quando si presentano le più interessanti iniziative sperimentali, come il QT8, dove in forma di laboratorio gli elementi di collaborazione fra enti centrali e locali, la questione sociale-urbanistica dell’unità di vicinato, e insieme nuove forme di progettazione e realizzazione della città, anche se su piccola scala6.
Del resto la sperimentazione innovativa è la norma, nel momento in cui la politica delle New Towns entra nel vivo, e l’esperienza sul campo inizia a restituire le prime riflessioni non teoriche sull’autentico significato di quella che è, a ben vedere, una grande migrazione di tipo quasi pionieristico. Come racconta una responsabile del servizio sociale di Crawley, la costruzione di una nuova comunità dalle radici è qualcosa di impensabile a tavolino, anche con le migliori intenzioni. Parte così, dalle scienze sociali, il circolo virtuoso dell’interazione fra spazi e società, che trova nel quartiere la sua dimensione ideale e nella declinazione della neighbourhood unit il suo modus operandi privilegiato. Un inquilino paragonando la vita nella grande città (e presumibilmente in un quartiere popolare degradato di una grande città) riassume: “cercavamo piaceri sintetici, ora la nostra vita è più semplice ma più divertente”7. Oltre la retorica interessata della professionista dedicata a promuovere l’integrazione, la frase riportata sta a significare almeno una cosa certa: il decentramento funziona, nel suo fattore essenziale, ovvero la costituzione di comunità e non di dormitori, e poco importa se il “più divertente” non sempre è davvero divertimento, visto che parecchi dei “piaceri sintetici” altro non erano se non sovraffolamento, o degrado ambientale.
Il fatto che una politica del genere funzioni, si deve ad un solo fatto: le “radici” stanno altrove, nel lungo lavoro culturale e istituzionale che ha preparato l’evento. Un lavoro che dura ormai almeno da due generazioni, e che a sua volta scaturisce dal dibattito sulla città giardino rivalutandone sia i contenuti politici riformisti che gli elementi di innovazione tecnico-scientifica. Naturalmente – come spiega Patrick Abercrombie ai lettori francesi – esistono cose positive e negative, che funzionano o che vanno radicalmente cambiate. Ma il processo di pianificazione nazionale comunque inteso è una pianta che ha ormai attecchito stabilmente grazie alla “preparazione del terreno” del periodo anteguerra8, e non un sistema di oggetti inanimati, artificiosamente posati sul territorio e sulla società in forma di città nuove o unità di vicinato.
Chiamato a presentare lo stato dell’arte dell’urbanistica italiana al pubblico europeo, Giuseppe Samonà sceglie la via intermedia, tra la fiduciosa descrizione delle migliori aspettative, e l’eterna polemica con la sordità istituzionale alle istanze dei professionisti. La stagione dell’emergenza legata alla ricostruzione è in buona parte alle spalle, ed è inutile polemizzare su quanto si sarebbe potuto fare e non è stato fatto. Resta lo scollamento fra un ceto politico e burocratico sostanzialmente avulso dalla realtà, e la realtà di una domanda sociale della quale gli architetti-urbanisti sono i migliori interpreti, laddove invece si verifica con mano l’inadeguatezza culturale degli apparati tecnici preposti a ricostruire la nazione, in particolare in materia di urbanistica9. Si sarebbe giunti quindi, in Italia, ad una sorta di punto di crisi, con piani redatti ma che non riescono ad imboccare l’iter di attuazione, progetti vari che si realizzano in tutto o in parte, anche senza o contro qualunque piano di insieme, e in generale una mancanza di comunicazione fra domanda sociale e ambito delle decisioni. La strategia scelta dalla cultura urbanistica, come descritto da Samonà, è quella della penetrazione nel campo sociale, istituzionale, normativo, stimolando dove possibile l’azione pubblica, sostituendosi ad essa quando indispensabile. Questa azione di lobbying avrebbe come fine immediato l’alfabetizzazione disciplinare degli ampi strati di tecnici della pubblica amministrazione, e in parallelo del ceto politico. Obiettivi: revisione della legge nazionale e istituzione di un Ministero competente per la materia. Primo passo in questo senso, l’avvenuta istituzione di una Sezione urbanistica al Ministero dei Lavori Pubblici, simulacro in nuce del futuro ministero autonomo, e il varo della sperimentazione metodologica e organizzativa sui piani territoriali regionali.
In Gran Bretagna l’aspetto sperimentale della pianificazione si arricchisce con la possibilità di rilevare sul campo gli effetti delle innovazioni, e mentre crescono le nuove città ci si inizia a chiedere se la scelta strategica del passaggio dal volontarismo privatistico del modello originale di garden city, alla politica nazionale delle New Towns, non possa integrarsi con modelli misti. Interrogato sulla questione, un piccolo gruppo di testimoni privilegiati esprime in varie tonalità un relativo scetticismo10. Eric Macfayden ritiene esaurita la spinta propulsiva del modello originario nel momento in cui le istituzioni hanno iniziato ad agire in questo senso, ovvero già a partire dalla legge urbanistica del 1909, e poi con una serie di azioni di cui la politica di nuove città è solo l’ultimo atto. In altre parole, nello scenario socioeconomico della seconda metà del XX secolo, l’unica cosa da recuperare del modello garden city, è forse lo spirito comunitario, attraverso la mediazione degli organi di governo locale. Sostanzialmente identica l’opinione di Henry W. Wells e dell’ex direttore generale di Welwyn, John F. Eccles, secondo cui la dimensione degli interventi richiede un tipo di organizzazione della development corporation garantito solo dal coordinamento pubblico, dove anche soggetti di tipo privato possono trovare spazio, ma certamente non controllare (per esempio gestendo i flussi finanziari) l’operazione. L’unico a dissentire da questa linea, è Charles Benjamin Purdom, altro ex general manager di città giardino, e dagli anni Venti in poi uno dei massimi studiosi degli aspetti generali dell’esperimento11. Secondo Purdom, la lentezza con cui si sviluppa l’azione pubblica sta diventando un limite: procedure centralizzate, poco elastiche, spesso “fuori fase” rispetto alle necessità sociali in evoluzione. In definitiva la logica dell’intervento pubblico starebbe rapidamente invecchiando, in assenza di scambi strutturati con il settore privato nelle sue varie forme.
Un modello interamente privatistico e volontario, è quello rappresentato dalla comunità di USONIA, pratica traduzione dell’idea di Broadacre City, così come delineata da Frank Lloyd Wright nelle sue proposte degli anni Trenta: una famiglia, un acro. Ma, senza sostegno pubblico di alcun tipo, solo l’essere “firmata” dal maestro di Taliesin ha consentito alla comunità di sopravvivere, oltre alla dedizione dei fondatori naturalmente, che ha evitato di sprofondare il progetto tra giganteschi litigi da cortile su questioni comuni come l’acquedotto, le strade, le aree verdi12. Implicitamente, nel dibattito sul rapporto tra pubblico e privato nella realizzazione dei piani urbanistici, questo pur curioso e ricco esperimento di comunità autogestita ricorda più le utopie ottocentesche che non i vari tentativi – da Howard alla RPAA, alle New Towns ecc. – di dare solidità e continuità a queste forme di insediamento.
E di intervento pubblico, in quantità massicce e qualità eccellenti, c’è davvero urgente bisogno se, come avverte L’Architecture d’Aujourd’hui in una serie di saggi dedicati ai problemi delle città Capitali, i pur grandi passi compiuti dalla conurbazione londinese in materia di decentramento non sono che un assaggio delle probabili sfide future. Si starebbe iniziando a manifestarsi un duplice fenomeno: da un lato si accresce il ruolo delle città capitali, anche nei paesi meno sviluppati; dall’altro le necessità di ammodernamento dei sistemi di vita collettiva rendono problematico il semplice adattamento dei centri esistenti alla vita moderna. Una risposta esiste già, ed è quella del decentramento “totale”, ovvero spostamento a partire dagli uffici pubblici dell’intero establishment politico amministrativo, che si trascinerà anche quello correlato delle sedi di rappresentanza ecc. Il modello, manco a dirlo, sono Brasilia e Chandigarh, ed in questo senso il caso di Londra è giudicato troppo “timido”: l’avvenire è della città completamente nuova, realizzata su terre vergini, su misura per le necessità attuali e future13.
Centro, congestione, decentramento
Il problema dei centri città, del ripristino della loro efficienza, si pone all’indomani della guerra secondo almeno due linee di riflessione: la prima, immediata, è quella della ricostruzione, secondo linee più o meno nuove e pianificate, degli spazi direzionali e di rappresentanza (attorno a cui si aggregano tutte le altre funzioni); la seconda, certamente più interessante, è quella di subordinare il ripristino delle aree sinistrate ad una politica maturata negli anni Trenta, ovvero la dispersione pianificata, la “fine delle città”14. Appartiene alla prima famiglia, certamente, il manuale edito dallo Stationery Office nel 1947, per guidare architetti e urbanisti ad una progettazione quanto più efficace e rapida delle zone a maggior concentrazione di interessi. L’obiettivo dichiarato, è quello di andare oltre il dibattito locale sui modi della ricostruzione, indicando indirettamente la via del coordinamento tecnico-operativo delle attività urbanistiche a scala nazionale, attraverso la rete del mondo professionale e delle consulenze oltre che dei quadri tecnici della pubblica amministrazione. L’unificazione di procedure e metodi, è segno sia della rinnovata attenzione dello Stato per la formazione professionale avanzata, sia del ruolo chiave che la ricostruzione del sistema impresa/territorio ha nel secondo dopoguerra. Inizia ad emergere, anche, la necessità dell’approccio non monodisciplinare alle questioni, di cui però il manuale sconta, secondo gli osservatori più critici, l’impostazione non esaustiva in particolare per quanto riguarda gli studi preliminari al piano, dove si rileva una sottovalutazione dell’importanza di serie analisi scientifiche alla base di qualunque processo di pianificazione che voglia dirsi serio15. Da subito, comunque, l’intervento di ricostruzione nelle aree commerciali e direzionali potrà assumere linee unitarie, con nuovi standards: il metodo di calcolo delle densità Floor Space Index, e quello della qualità ambientale dei posti di lavoro e residenza, Daylighting Control.
La ricostruzione dei centri, però, deve intendersi come parte di un più vasto programma di redistribuzione sul territorio nazionale delle attività, dei posti di lavoro, della popolazione e dei servizi connessi. La commissione Barlow, proprio in questo aveva rivalutato il ruolo centrale della cultura dei planners formati alla scuola del Garden City Movement, i quali però sembrano, proprio quando tanto ci si aspetta da loro, non aver affatto le idee chiare. In pratica, un conto è organizzare cicli di conferenze a indicare i mali della congestione, o i buoni risultati socioeconomici dei pochi esperimenti di decentramento produttivo; altro è definire i “dettagli” di una politica, laddove ancora sia le potenziali virtù che i vizi nascosti delle teorie sul decentramento sono ancora ampiamente da verificare e sperimentare16. Dopo aver predicato per lustri il decentramento e le sue virtù, gli urbanisti farebbero bene anche a chiarire, all’interno del dibattito disciplinare, cosa debba davvero intendersi, per decentramento, e quali siano i mezzi più adatti per sperimentarlo e trarne le conseguenze. Il primo passo in questa direzione, sarà certamente quello di coinvolgere nel processo di studio il mondo dell’impresa: quali tipi di attività saranno adatte e maggiormente disponibili a trasferirsi? È possibile prospettare e proporre un decentramento parziale, di sezioni o comparti produttivi? Quello che i planners devono produrre, insomma, è un insieme di proposte tali da rendere la dispersione pianificata conveniente e attraente, altrimenti in breve il dibattito tornerà ad essere, semplicemente, accademico.
Del resto era chiaro già ai promotori e sostenitori della commissione Barlow, soprattutto ai non urbanisti, che l’azione per promuovere un effettivo decongestionamento della conurbazione londinese, degli altri agglomerati simili, e un rilancio parallelo delle aree di crisi, avrebbe dovuto prima o poi incontrarsi/scontrarsi con le tendenze del mercato, certo non spontaneamente disponibili ad essere “guidate” in qualunque direzione. Una verifica, a dieci anni dalla fine della guerra, sembra dare ragione ai pessimisti: la crescita industriale avviene ancora in enormi quote (30% nazionale dei progetti di insediamento di fabbriche) nell’intasato angolino di Inghilterra a un massimo di distanza di 25-30 miglia da Charing Cross. Il timore serpeggia tra gli addetti ai lavori, visto che nonostante i massicci investimenti nelle New Towns e relative infrastrutture, nonostante l’articolazione non rigida dei nuovi insediamenti, lo sviluppo industriale ha imboccato una direzione “sbagliata”17. Il che, fa sospettare che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato anche nelle previsioni e nelle politiche, oltre che nella risposta delle imprese. Il fatto è, che molta dell’enfasi sul decentramento, anche in termini informativi, si sarebbe limitata agli aspetti residenziali, comunitari, di qualità dell’abitare, mentre si sarebbe dovuto puntare di più anche in termini di investimenti verso la costruzione di sistemi integrati residenza/lavoro, mettendo a disposizione spazi per le industrie in quantità, qualità, ed attrattività maggiore. Non c’è da stupirsi, quindi, se l’ufficio preposto al rilascio dei permessi per nuovi impianti sembra orientato ad una politica lassista per l’area londinese. Esiste, ora, un serio pericolo di urbanizzazione totale, che tra l’altro vanificherebbe anche il successo delle New Towns, sommergendole in una generica massa compatta metropolitana a scapito dell’intera Gran Bretagna. Le misure in controtendenza si individuano, manco a dirlo, in una somma virtuosa di vincoli e incentivi, che vedano: a) limiti più severi all’insediamento di nuove imprese nell’area; b) sostegno ai poteri del London County Council e le altre autorità interessate a favorire il decentramento; c) investimenti infrastrutturali ma non solo, per l’aumento di attrattività e competitività di siti fino ad una distanza di 100 miglia.
Per quanto riguarda strettamente l’urbanistica, questo significa aumentare la produttività del piano, incrementando le sinergie con l’organizzazione del governo locale, anche oltre la dilatazione delle unità territoriali responsabili e scale di intervento. Il decentramento si persegue anche realizzando nuove centralità, e intendendo unità amministrative e idea di “centro” non solo come lavoro sulle densità di edificato, ma soprattutto come comunità di interessi e scambi. Certo è difficile, a scala vasta di conurbazione, valutare quanto i vari centri gravitino effettivamente sulla metropoli principale, ma ad esempio una valutazione dell’area di influenza dei servizi, della relativa efficienza, è possibile da subito. Questo tipo di unità amministrativa e di piano, basata sull’efficienza, sarebbe un primo passo importante per rispondere alla question of the productivity of planning18, e costituire la base per un ripensamento in termini efficaci dell’intera politica di decentramento industriale e di popolazione.
Il problema dell’efficienza ed efficacia dei piani, e della conseguente vivacità socioeconomica delle nuove comunità, tocca anche, secondo la Town and Country Planning Association19, uno stretto rapporto con il fattore popolazione. Per evitare il rischio di creare nuova congestione e minor attrattività per le imprese, la dimensione demografica va davvero “pianificata”, tenendo debitamente conto di un fattore ovvio ma sottovalutato: l’incremento naturale. Pare invece che spesso le città nuove siano state progettate per una popolazione finale pari a quella che, in prima istanza, viene indotta all’immigrazione. Questo pone le premesse per una crisi da sovraffollamento, che a sua volta mina le basi dell’equilibrio che si voleva raggiungere. La seconda questione, pure legata all’ovvio fattore della “vitalità” dell’insediamento, è quella della motivazione collettiva ad investire risorse, economiche e non, su tempi lunghi. In questo senso, si suggerisce che le development corporations, fattore fondante della nuova comunità, non siano sciolte una volta conseguito l’obiettivo di realizzazione fisica della città, ma mantenute in vita per un tempo più lungo. Infine, l’incremento di valore dei suoli, essendo stato realizzato con il determinante contributo della comunità (oltre che dall’investimento iniziale del Tesoro), dovrebbe almeno in parte essere trattenuto in sede locale.
In tutto il mondo, la pianificazione regionale si scontra con le difficoltà inerenti sia l’estensioni fisica dei territori, sia la differenziazione qualitativa degli insediamenti e dei modelli socioeconomici, sia infine la complessità di un approccio multidisciplinare. Alla scala regionale si incrociano la dimensione del programma economico e quella della pianificazione territoriale20, offrendo l’omogeneità concreta o potenziale necessaria per una azione in cui tutte le forze o buona parte di esse agiscano di concerto, e non semplicemente sommandosi le une alle altre21. Anche se l’interesse per la questione si sta sviluppando rapidamente solo nella seconda metà del secolo, appare già piuttosto consolidato e sperimentato: dalla Tennessee Valley Authority degli anni Trenta, ad azioni simili anche in un sistema politico antitetico, come i piani regionali dell’Unione Sovietica, fino alla Cassa per il Mezzogiorno in Italia, che persegue una politica di continuità con la “bonifica integrale” di epoca fascista, unendo un insieme eterogeneo di interventi in una politica di sviluppo22.
Decentramento, sradicamento, ricerca di un nuovo senso comunitario. Un curioso ruolo di agente di sviluppo nei processi di decentramento è rivendicato, nientemeno, dalla Chiesa di Inghilterra, a partire dall’ovvia osservazione secondo cui il semplice brick & mortar, ovvero la costruzione fisica dello spazio, è un passo, e nemmeno il più importante, nella realizzazione della città. Strappare gli abitanti anche al più degradante e promiscuo sovraffollamento metropolitano, ha significato recidere relazioni socio-spaziali importanti, e decisive per l’equilibrio della collettività. Anche nei casi in cui si trattava di forme elementari di comunità, qualche costruttivo spirito primordiale abitava anche lì: oltre a case, servizi, posti di lavoro, ora occorre provvedere anche un senso comunitario che superi la semplice affinità di famiglia e parentado23. E quale migliore veicolo di spirito comunitario, della Chiesa ufficiale, che unisce il “professionismo” dell’approccio religioso e non solo, alla garanzia di uno stretto contatto con le istituzioni, insieme alla capillarità di penetrazione?. Oltre la curiosità di questa profferta, vale la pena però notare la sottolineatura di un fatto: quelli emergenti (come da lustri gli urbanisti si sgolano a tentare di spiegare) sono problemi abbastanza ovvi, ma che nel caso di urbanizzazione o riurbanizzazione di massa si presentano in forma “acuta”24.
All’alba del nuovo decennio, comunque, tutte le questioni della dimensione regionale e della dispersione più o meno governata degli insediamenti, confluiscono nel paradigma della città-regione: un concetto che nella pubblicistica sostituisce o si affianca alla conurbazione, all’area metropolitana, riprendendo e sviluppando studi in questo senso che procedevano da anni25. Il fenomeno sembra affermarsi visibilmente nel caso degli USA, che per primi hanno sperimentato gli effetti della motorizzazione privata di massa, nuovi consumi, espansione del tempo libero, aumento generalizzato del reddito. L’apparire acuto della questione anche nel caso britannico si deve in parte alla maggior lentezza nel verificarsi delle precondizioni, in parte alle chiare politiche di dispersione pianificata, che hanno almeno in parte consentito all’armatura urbana tradizionale di mantenersi. Negli Stati Uniti il generale declino delle città, del tradizionale rapporto fra downtown, resto dell’insediamento e suburbio, è da tempo un fatto consolidato26, che preoccupa non poco architetti, urbanisti e operatori economici. Le reazioni sinora non sono state all’altezza dei problemi, soprattutto perché si è trattato di risposte fai-da-te, con in prima fila comitati di cittadini, tecnici, amministratori, uomini d’affari, tutti impegnati ad arginare la perdita di popolazione e valore immobiliare dei centri, mentre basta guardarsi attorno per vedere che la domanda di spazi alternativi alla città e campagna tradizionali è ancora molto simile quella che aveva decretato il successo della Città Giardino di Howard27. Perché faticosamente e impropriamente contrastare questa tendenza per nulla perversa, quando è possibile agire in positivo, assecondandola in modo da eliminarne gli elementi negativi? Ma, come ci racconta ironicamente il cronista, l’architetto contemporaneo forse è troppo impegnato a piangere sulla “morte della città”. Poi si asciuga gli occhi, scuote la testa tristemente di fronte al grigio scenario che gli si prospetta, guida la sua lunga automobile sull’autostrada a otto corsie che lo porta lontano dalla casa tipo ranch dove abita, fino al parcheggio sotto il lussuoso grattacielo di uffici dove ha lo studio, nel centro della “città morente”.
Il passaggio da uno stadio insediativo denominato “conurbazione” ad un altro di “città-regione”, è sancito ufficialmente per la Gran Bretagna dalla conferenza della Town and Country Planning Association nel 1961, dove si coglie l’occasiona da un lato di chiedere per l’ennesima volta una riforma del governo locale, attivando l’ente Regione, dall’altro recuperando almeno in parte alcune istanze tipiche dei CIAM, ovvero l’approccio più radicale al tema della città nuova: lo spostamento della Capitale. A really splendid lead in decentralizing28, si suggerisce, potrebbe essere dato proprio dagli uffici pubblici, che catalizzano innumerevoli altre attività, provocando e mantenendo la congestione. Così la “Brasilia” di Londra, nonostante l’apparente radicalità dell’idea, produrrebbe solo qualcosa di simile a quello che è Washington per New York, o l’Aja per Amsterdam. È facile immaginare la schiera di avvocati che coi loro studi professionali seguirebbero a ruota il decentramento della Corte di Giustizia, o dello sciame che si trascinerebbe dietro il volo di quella Ape Regina rappresentata dal Parlamento.
In definitiva, è comunque sbagliato e inutile tentare di arginare un processo di decentramento che lo stesso termine città-regione non descrive appieno, in quanto parola vecchia per descrivere un fenomeno nuovo, che comporta un insieme inedito di aspetti fisici, organizzativi, di percezione dello spazio, del tempo, delle relazioni fra luoghi e soggetti. A ben vedere, è la stessa politica di decentramento che, perseguita con successo, ha posto le condizioni perchè le nuove tecnologie di comunicazione e trasporto, a partire dall’automobilismo di massa, possano offrire nuove opportunità di vita29. Naturalmente i risultati sono diversi da quelli ipotizzati a suo tempo, soprattutto perchè i nuovi soggetti che abitano questo spazio non pensano più in termini di separazione fra città e campagna, fra tempo del lavoro e tempo libero. Soprattutto, non c’è più identificazione privilegiata fra un individuo e un contesto spaziale. È finito il tempo in cui tutti gli sforzi dell’urbanistica si focalizzavano sulla costruzione della “comunità”: ora i valori sono dispersi sul territorio, e la persona divide la sua identità su differenti luoghi. Queste sono le nuove sfide della progettazione spaziale. (segue nella quarta e ultima puntata; qui la precedente seconda parte del saggio)
NOTE
1 le détail et l’ensemble sont mis au point simultanément. Le Corbusier, «Urbanisme 1946: les travaux ont commence», AA, n. 9, déc 1946
2 l’architecture eut besoin d’étendre ses effets à l’entour. Le Corbusier, «La Cidade dos Motores» , AA, sep 1947
3 Robert Sinclair, «What has happened to the London Plans? », TCP, n. 66, Summer 1949. Sullo stesso argomento e con toni simili, Cfr. Frederic J. Osborn, «Criticism of the London Plan», TCP, Aug 1953
4 I could light a hundred candles to St. Mark in thankfulness that Venice exists, and another hundred that I’m not its planning officer and do not have to decide what to do with the crowded rabbit-warrens that were once the homes of its princely merchants. Frederick J. Osborn, «Italian journey», TCP, Dec 1949
5 town planning as we understand it has had a small part. idem
6 Cfr. H. McDowall, «”Città di Milano”. British local government systems help to solve Italian administrative problems», Municipal Review, June 1950, p. 118
7 we relied on synthetic pleasures, now our life is simpler but much more fun. Margaret Wragg, «Starting Life in a New Town», TCP, June 1951
8 pre-war preparation of the ground. Patrick Abercrombie, «Town and regional planning in Great-Britain» , AA, n. 39, fév 1952. Abercrombie si riferisce anche al proprio lavoro di lobbying, esercitato direttamente o indirettamente sui lavori delle Commissioni ministeriali, Cfr. Peter Hall, Sesso, nevrosi e impotenza politica: la triste storia della Regional Planning Association of America, in Francesco Ventura (a cura di), Alle radici della città contemporanea. Il pensiero di Lewis Mumford, Città Studi Edizioni, Milano 1997
9 insuffisance de la formation technique des organismes préposés à la reconstruction, lesquels manquent d’urbanistes qualifiés. Giuseppe Samonà, «L’urbanisme d’après guerre en Italie» , AA, n. 41, juin 1952
10 «A third Garden City? », TCP, May 1953
11 Cfr. C.B. Purdom, The building of satellite towns: a contribution to the study of town development and regional planning, J. M. Dent & Sons, London 1949. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1925, soprattutto nell’edizione del secondo dopoguerra – interamente riscritta – sostiene la necessità di un passaggio, proprio dal modello “alto” ma solo emblematico dell’originaria garden city howardiana, a una fase di “amministrazione corrente”, identificata proprio con una politica del tipo di quella delle New Towns a preminente gestione pubblica
12 gargantuan disputes about the jointly owned water supply systems, roads and community lands. Priscilla J. Henken, «A “Broad-Acre” Project», TCP, June 1954
13 la cité entièrement nouvelle édifiée sur des terrains vierges, tenant compte de toutes les nécessités actuelles et prevoyant l’avenir constitute la solution la plus favorable. André Bloc, «Urbanisme des Capitales» , AA, n. 88, jan-mar 1960
14 La politica del decentramento in Europa deve il suo maggiore impulso iniziale alle questioni di sicurezza, o limitazione dei danni, connesse al pericolo di attacchi aerei. Moltissima parte dei lavori, per esempio, della Royal Commission on the Distribution of the Industrial Population, vertono proprio su questo aspetto, del resto apertamente sostenuto da Winston Churchill in parecchie affermazioni sulla vulnerabilità della “Metropolis”. Il tema, ben presente nel dibattito italiano sulla pianificazione urbana e regionale, soprattutto nel periodo a ridosso dell’approvazione della legge urbanistica (Cfr. vari interventi di Vincenzo Civico su Critica Fascista, e di Giuseppe Stellingwerf su L’Ingegnere), sembra quasi completamente dimenticato nel dopoguerra, proprio mentre altrove ne maturano i frutti sul versante operativo.
15 an under-emphasis of the importance that survey work must play in good planning. Frank Layfield, «City Centres», TCP, n. 61, Spring 1948
16 both the fallacies and the virtues of present theories of decentralisation badly need testing. Robert Sinclair, «Businesses will gain by decentralisation. But the town planners must convince them first», TCP, n. 62, Summer 1948
17 the industrial trend is in the wrong direction. Peter Self, «Is the Barlow Policy failing?», TCP, Oct 1955
18 Derek Senior, «Planning and Local Government», TCP, Apr 1957
19 «The future of New Towns. Statement by the Executive Committee of the Town and Country Planning Association, 1 May 1958», TCP, June 1958
20 Una tesi, quelle della regione come spazio di incontro fra programma economico e pianificazione territoriale, cara in questi anni anche in Italia, e alla base del dibattito in questo senso. Cfr. Atti del Convegno Nazionale di studio sulla pianificazione locale. Mendola 6-12 settembre 1961, a cura della CCIAA di Trento
21 le développement devra être simultané et coordonné et non pas juxtaposé. M. Carbonnières, «Aménagements régionaux dans le Monde et en France» , AA, n. 80, oct-nov 1958
22 corrélativement à la réforme agraire une amélioration de l’économie des régions. idem
23 something therefore has to be put in the place of these old associations of blood and kin. Peter Stokes, «The Church as a Community Builder», TCP, Feb 1959
24 problems which will be found elsewhere. But they are found “together” in the new towns . idem
25 L’uso del termine in geografia risale almeno agli anni Trenta, Cfr. Robert E. Dickinson, City Region and Regionalism – A Geographical contribution to Human Ecology, Routledge & Kegan, London 1947; in Italia un poco noto precedente al famoso seminario ILSES, La nuova dimensione della città. La città regione (Stresa 19-21 gennaio 1962), Milano 1962, è la definizione di città-regione come possibile autorità di governo locale a scala metropolitana, sostitutiva della Provincia, proposta al dibattito della Costituente da: Silvio Ardy, Regioni, Comuni, Province nello Stato unitario, La Dominante, Genova 1946
26 Ma anche in Gran Bretagna i processi sono identici, anche se chiamati con altri nomi e affrontati in modo diverso. Cfr. Robin H. Best, «The End of the City», TCP, July 1960
27 people can live happy, full, and useful lives in a much more diffuse and varied environment than the traditional city now provides. Wyndham Thomas, «City-Regions in the USA», TCP, Oct 1960
28 Joan Aucott, «Inquiry into Planning», TCP, Dec 1961
29 technology, and above all the motor-car, offers us the means of detachment as well as of involvement. Maurice Ash, «The idea of the Region», TCP, Dec 1963