L’unità di vicinato
Il tema della ricostruzione scientifica, studiata a tavolino, degli elementi comunitari smarriti nei processi di inurbamento o decentramento, merita di essere trattato, anche se brevemente, a parte. Come la regione è lo spazio di interazione tra programma economico e pianificazione territoriale, la dimensione del quartiere rappresenta d’altra parte l’incrocio tra i temi urbanistici e la progettazione architettonica. Significativo, tra l’altro, che proprio nel secondo dopoguerra la questione della neighbourhood unit si ponga con tanta rilevanza, e che la sua origine sia acriticamente indicata da tutti (nonostante l’evidenza e le anche rilevanti differenze interpretative) nella teorizzazione anni Venti di Clarence Perry per il Regional Plan of New York and its Environs, o nella di poco successiva sperimentazione a Radburn di Clarence Stein e Henry Wright1. Resta, il fatto che questo tipo di intervento è percepito come novità, e spiegato coerentemente come strumento di progetto tecnico-sociale finalizzato a ricostruire identità nel quadro di servizi efficienti. L’entusiasmo per la novità, fa addirittura perdere di vista ad alcuni commentatori e interpreti il quadro generale entro cui si inserisce, presentandola come modo di recupero della “face to face” association of the old village community2, alternativa e non complementare a qualunque idea di insediamento nuovo, e quindi adatta solo per quartieri nelle città esistenti.
Innovativi o meno, i vicinati rappresentano il punto focale di interscambio fra i nuovi elementi di progettazione e analisi spaziale. Uno degli obiettivi dell’azione pubblica, ad esempio, è l’attenuazione dei divari nei livelli di vita, e l’unificazione nell’uso di determinati servizi. Posto che queste politiche sono innanzitutto demandate all’aspetto fiscale e di redistribuzione del reddito, si ritiene comunque che una progettazione mirata delle neighbourhood units possa sostenere questa linea: là dove sarebbe impraticabile costruire quartieri socialmente misti (per questioni di mercato, ma non solo), la gravitazione attorno ad alcuni fulcri pubblici, la possibilità di mettere in comune gli spazi verdi, e altri accorgimenti di progetto spaziale, si pensa possano aiutare ad evitare la formazione di ghetti, o quartieri monoclasse tendenzialmente squilibranti3.
Nei vicinati è anche possibile dare forma strutturata alle analisi sociologiche che, riferite ad uno spazio ben definito, possono dare importanti informazioni proprio sui modi di progettazione dello spazio. Il buon senso e la sensibilità quotidiana, in altre parole, possono entrare dalla porta principale nella redazione dei piani urbanistici per i quartieri. È il caso del contributo delle donne, intese come soggetto socioeconomico ben preciso, ovvero operatrici domestiche (piaccia o meno, questo è il ruolo della stragrande maggioranza della popolazione femminile nel secondo dopoguerra). Si chiede il sociologo, come mai di fronte ad una cucina inefficiente, ergonomicamente mal progettata, mal inserita nella casa, chiunque si profonde in critiche, mentre poche voci si levano contro le inefficienze generali, ben più gravi, delle città nel loro insieme. La risposta è provocatoria: la cucina, e in generale l’housing, hanno potuto approfittare del buon senso femminile, che ne ha via via migliorato la progettazione. Questo non è accaduto per la città, sia per predominio maschile nelle scelte e nella percezione, sia per la grande scala delle questioni che si opponeva all’incontro fra percezione individuale e giudizio di sintesi. Ora, la scala del quartiere rappresenta l’unità di base che costruisce per aggregazione l’intera città, e via via le sensibilità avranno modo di essere ascoltate e tenute nel debito conto nelle future progettazioni. L’urbanistica in generale riuscirà a rendersi meno ostica al grande pubblico. Perché la politica delle New Towns e del decentramento è affare delicato, che richiede consenso di una ampia base elettorale (a maggioranza di donne), e i piani regolatori non devono presentarsi certo come “trasportare gente da posti dove non sta, ad altri dove non vuole andare”4.
Anche il progettista tenta sistematicamente di analizzare e orientare il proprio lavoro nell’ambito dell’unità di vicinato, dove assumono senso nuovo concetti apparentemente consolidati. È il caso della densità, che una volta determinata dal piano generale può dar luogo a varie scelte: effetto “città”, o immagine di “villaggio” disperso nella campagna, più o meno coerenti con gli obiettivi generali del nuovo quartiere5. Si costruisce così un insieme di occasioni “manualistiche” di intervento, con relativi suggerimenti, che riprendono la tradizione del Town Planning in Practice di Unwin, stavolta esteso ad un vastissimo pubblico di operatori.
L’attenzione ai bisogni dei soggetti sociali vecchi, nuovi, emergenti, inizia a mettere in primo piano la “questione giovanile”, che con l’estensione del periodo scolare, l’aumento della possibilità di spesa e di tempo libero, costituisce un punto fermo per la progettazione degli spazi. Anche l’urbanista dovrà interagire coi nuovi soggetti giovanili, singolarmente e nelle loro associazioni, imparando anche a costruire metodi di monitoraggio e verifica specifici. Quando progetta spazi per lo sport, la cultura, l’aggregazione, per esempio, l’urbanista spesso sembra credere fermamente che la vita dei giovani d’oggi segua più o meno quella di chi è nato prima della Grande Guerra6
Anche per quanto riguarda le unità di vicinato, però, l’effetto dei grandi mutamenti anche nella struttura insediativa delle aree metropolitane sta iniziando a farsi sentire all’alba degli anni Sessanta, con la messa in crisi della idea di relativa autosufficienza che queste piccole comunità implicavano, immersa nel mare della città-regione. Ancora una volta, sono i più pragmatici studi americani a mettere in luce tendenze oggettive altrimenti difficili da rilevare con tanta chiarezza, ma che indicano la strada inevitabile del ripensamento dell’idea di comunità. Uno studio sulla crisi economica e fiscale di alcune aree metropolitane statunitensi pubblicato nel 1959 da Science, indica che la crescita demografica nelle zone di diretta pertinenza dei centri maggiori si accompagna ad una profonda trasformazione nella composizione sociale e nel sistema di relazioni, con tendenze al degrado delle infrastrutture dovuto all’aumento dei costi di insediamento e manutenzione. La crisi delle comunità si riassume rozzamente nella “balcanizzazione” dei governi locali, negli squilibri in termini fiscali e nelle conseguenti capacità di investimento, da una comunità all’altra7. Si inizia a delineare uno scenario di crisi dei distretti commerciali centrali, dei più antichi e grandi suburbi. Anche in un paese cultore dell’individualismo come gli Stati Uniti, ci si inizia a rendere conto dell’indispensabilità di grandi policies a iniziativa e gestione pubblica, pur concordate con il mondo degli affari e il sistema dei comitati più o meno influenti: nuove autorità metropolitane, nuovo coordinamento nei progetti di housing e urban renewal, per passare da una politica centrata sui quartieri alla costruzione di più vaste metropolitan communities that we and our children can live in and take part in with pride.
Le discipline del piano
Nonostante l’indubbia suggestione dell’approccio CIAM, nonostante la tradizione del planning che, dalla crisi di ruolo dell’approccio igienista, trasmette una immagine (positiva tutto sommato) di architecture étendant ses effets à l’entour, gli obiettivi dichiarati dell’urbanistica nel secondo dopoguerra implicano accettazione del contributo di nuove discipline, non più inquadrate nel ruolo di occasionali ancelle. Ed è naturalmente un processo che non avviene senza contrasti e incomprensioni. Prima fra tutte la sociologia, già alla base degli studi che a fine Ottocento avevano caratterizzato il primo periodo di ricerca sulle case popolari, ora torna di grande attualità nella dimensione dilatata della neighbourhood unit e oltre, come strumento di programmazione e interazione. Un ruolo che gli specialisti ritengono di poter ricoprire senza alcuna difficoltà, giudicando ormai finito il tempo in cui un architetto qualunque poteva, usando buon senso ed esperienza, progettare spazi socialmente efficienti ed accettati. Quando dalla casa si passa all’isolato, al quartiere, alla città e alla conurbazione, è inevitabile che le competenze debbano estendersi, per fare un esempio, a geografi, economisti e altri scienziati sociali. Ma la tendenza dominante, in pratica, sembra quella di affidare la direzione del piano, per quanto complesso e articolato, a un tecnico formato in discipline architettoniche, ingegneria, cartografia: ottimi professionisti, che hanno saputo assorbire anche gli avanzamenti in altri campi, ma oltre un certo livello di complessità il tuttologo improvvisato può portare più danni che benefici8. Una risposta seria a questo problema, potrebbe venire da una riforma degli studi. Se la pianificazione del territorio è, come è, delicato processo di bilanciamento e armonizzazione dei bisogni umani, si comprende come l’individuazione di tali bisogni debba essere al centro delle competenze necessarie. Ora come ora, l’organizzazione degli esami per conseguire il titolo di planner è una barriera insormontabile per chi non è formato nelle tradizionali discipline dell’ingegneria e dell’architettura. A tale proposito, si suggerisce di istituire un accesso separato alla professione, con un esame di abilitazione specificamente mirato agli scienziati sociali.
Il contributo specifico di questi specialisti, segnatamente nel programma di decentramento delle New Towns, potrebbe essere immediatamente di riduzione di alcuni carichi per la comunità, a partire da un rilevamento dei bisogni realmente scientifico anziché improvvisato. Senza contare che esiste la questione del consenso, chiave del successo o insuccesso di numerose iniziative: è una contraddizione, per non dire un affronto alla democrazie, se interi settori di interesse comunitario vengono sottratti al controllo della comunità e delegati al piano9. Compito del sociologo sarà, appunto, riempire questo vuoto, questa involontaria ma grave “rimozione”.
Il contributo delle scienze sociali appare strategico, soprattutto nella fase di survey che sempre più si articola, si estende nel tempo e nelle qualità, caratterizza la preparazione del piano, l’attuazione, monitoraggio, eventuale modifica. Emerge la questione del limite fra una conoscenza scientificamente corretta nel metodo e nei presupposti, e una strettamente finalizzata al progetto. Caratteristiche di quest’ultima dovranno essere chiarezza e accuratezza, dato che dalle informazioni e dal loro corretto recepimento dipendono scelte importanti. La pubblica amministrazione interviene direttamente in questo campo, promuovendo manuali come i Basic Surveys for Planning, o le apposite sezioni dei più organico Town and Country Planning Textbook10, entrambi pubblicati dalla Association for Planning and Regional Reconstruction nel 1950. Pur nella distinzione di competenze e ruoli, appare ancora ovvio l’accorpamento del pur complesso apparato di survey sotto la stessa direzione preposta a redigere il piano, anche se si va affermando la nozione di piano-processo. Quanto va ancora “pianificato” in modo preciso, è invece il sistema di revisione periodica delle analisi, dei metodi, e necessariamente del progetto spaziale che ne consegue, dato per scontato che al mutare dei bisogni dovrà corrispondere una anticipata risposta in termini decisionali pubblici11.
Ciò che deve apparire chiaro a tutti, è che il sociologo non è un deus ex machina in grado di risolvere la questione dei bisogni cangianti con una formula, matematica o magica che sia. La società nel suo complesso, e i redattori tecnici di piani regolatori in prima fila, devono abituarsi a non pretendere hard recommendations, e ad accontentarsi to accept advice couched in highly tentative terms12. Lo studioso specializzato può andare ben oltre un approccio da geniale bricoleur, leggendo bisogni e stilando previsioni, ma non è possibile farsi carico di tutti i problemi. Compito del sociologo sarà, dunque, soprattutto quello di chiarire ai colleghi ingegneri e architetti limiti e potenzialità della sua azione.
Ma come costruire un linguaggio comune, superando le asperità e il ridicolo del borrowed jargon più volte criticato? Torna il tema della formazione comune dei planners, come nuovo percorso didattico autonomo, dove i vari aspetti del piano e della survey possano trovare sintesi, selezionando una nuova generazione di tecnici. La domanda di partenza è a questo punto abbastanza ovvia: vista la realtà tangibile della professione urbanistica, che senso ha obbligare uno studente a studiare per anni questioni che nulla hanno a che vedere con il piano, la società, le sfide disciplinari contemporanee? La risposta la forniscono, forse involontariamente, gli stessi pianificatori attuali – ingegneri e architetti – quando sostengono che l’urbanistica è cosa complessa, vasta al punto che è impossibile penetrarne a fondo il senso nel corso di una vita umana. E allora, perché passare una parte importante di questa vita a formarsi su cose che all’urbanistica sono estranee? La risposta, può essere l’istituzione di un corso di studi interamente dedicato alla materia. Dal punto di vista dei contenuti, è possibile e auspicabile una certa articolazione, tra scuole di sedi diverse, ma in generale dovrebbero essere comuni i gruppi di materie: tecnica urbanistica in senso lato innanzitutto, comprendente anche la parte storico-disciplinare; diritto e amministrazione, pure con una relativa sezione storica; infine materie varie come geografia (umana, economica, fisica), geologia, economia generale e dei suoli in particolare, ingegneria civile, progettazione architettonica e del paesaggio13.
Il continuo sottolineare gli aspetti di ricerca del consenso, di identificazione dei bisogni, di attenzione a tutti gli aspetti del piano, non deve far dimenticare, però, che l’oggetto concreto su cui si disserta è un faticoso, spesso traumatico processo di modernizzazione, spesso imposto con metodi nella sostanza piuttosto spicci, a popolazioni sottoposte a sradicamento, o comunque spaesamento. Ancora più importante, quindi, il ruolo del ricercatore nell’identificare virtù e vizi delle nuove comunità generate dall’iniziativa pubblica. La ricerca del sociologo nei nuovi spazi, deve ora orientarsi a comprendere il bilancio fra innovazioni spaziali proposte, reazioni e mutamenti sociali, risultati complessivi14. In sostanza, si vuole evitare che nel quadro di ampi programmi di intervento pubblico si verifichino “sviste” come quelle ben rappresentate per esempio dalla contraddizione fra gli estatici paesaggi della Ville Radieuse i gli spazi cupi e deserti della Unitè d’Habitation effettivamente realizzata, che secondo i critici mostra chiaramente i limiti dell’approccio solo progettuale dell’architetto, che si improvvisa via via ciò che non è, fornendo solo una caricatura del contributo di altre discipline15. E non c’è in questo una particolare acrimonia nei confronti degli architetti o di una loro particolare scuola, ma una rivendicazione di competenza nello sviluppare un metodo, applicabile ad un campo già socialmente e spazialmente abbastanza definito come la neighbourhood unit. Uno schema di lavoro del genere, si articola in: a) riassumere ad uso del progettista informazioni dal punto di vista dell’utente; b) proiettare nel futuro bisogni e possibili risposte; c) esercitare lobbying perché i progetti contengano varietà di opzioni, e respingere tentativi di limitazione delle scelte per contingenti motivi tecnici o economici.
La multidisciplinarità nella formazione e gestione del piano non è, ovviamente, limitata al solo campo della sociologia, della survey, dell’indagine sui quartieri, ma permea di sé molta parte del dibattito. Prima fra tutte quella, annosa, del rapporto fra unità amministrative, relative gerarchie, e livelli di piano, dove Londra è il caso più emblematico di inadeguatezza, con competenze che si incrociano, sovrappongono, ma raramente si integrano. L’ennesima dichiarazione ufficiale della Town and Country Planning Association,come contributo agli studi della (pure ennesima) commissione di studio governativa, suggerisce per la Greater London una autorità con poteri su: a) limiti e confini allo sviluppo, mantenimento delle greenbelts; b) limiti assoluti ed equilibri qualitativi alla popolazione e posti di lavoro; c) linee di comunicazione principali; d) insediamenti industriali, militari, aeroportuali16. Evidentemente questa scala e qualità di impostazione include competenze quanto mai varie, che sfumano dall’aspetto scientifico, a quello tecnico, a quello più propriamente decisionale e in definitiva strettamente politico. Ma cos’è, a ben vedere, il planning, se non una tappa nel quadro di un processo decisionale? Sempre di più, in questa prospettiva, il pianificatore dovrà diventare, o svolgere ruolo di, generalista, coordinatore di aspetti tecnici specializzati in vista di una decisione, sempre più lontano dalla figura del tecnico che delega o improvvisa impropriamente una decisione, la cui validità è spesso affidata al caso, all’eventuale capacità istintiva di giudizio. Invece, il pianificatore del futuro probabilmente scoprirà – per l’ennesima volta – che il “comune buon senso”, l’intuito, l’esperienza, sono utili ma a volte inadeguati a confrontarsi coi problemi della complessità17. Questo non esclude, anzi amplifica, il ricorso a nuove tecniche e competenze, prima fra tutte quella informatica per l’analisi e gestione dei dati, ma il planning proprio grazie a queste acquisizione diverrà sempre più orientato in senso decisionale, con gli apporti specializzati a fungergli da “assistente”.
(Fine. Qui la terza parte precedente. L’articolo integrale è stato pubblicato dalla rivista Metronomie n. 25, 2002)
NOTE
1 La cosa colpisce ancora di più se si considera il successo di questa impostazione nel caso dei quartieri delle New Towns, che si vogliono eredi del pensiero di Ebenezer Howard il quale esplicitamente, nei suoi diagrammi, aveva indicato e dimensionato nuclei di 5.000 abitanti, raccolti in un determinato settore parzialmente autosufficiente, denominato Ward. La curiosità è rilevata da C.B. Purdom, The building of Satellite Cities … cit.
2 D.B., «The neighbourhood-in-the-city», Municipal Review, May 1948, p. 75
3 Cfr. Gordon Campleman, «Mixed class neighbourhoods: some sociological aspects», TCP, Aug 1950
4 trying to take people from where they aren’t, to where they don’t want to go. L.E. White, «Good Kitchens and Bad Towns», TCP, Sep 1951. Concetti analoghi sono sviluppati dallo stesso autore in tre studi su diversi tipi di comunità, condotti fra il 1950 e il 1951 per il National Council of Social Service, e raccolti col titolo Towns of today and tomorrow. Three studies: Small Towns; Housing Estates; New Towns
5 Cfr. G. Brooke Taylor, «Study in Neighbourhood Planning», TCP, Apr 1958
6 does the modern planner believe, for instance, that the lives of modern young people can be patterned on the lives of those who were born well before the days of the First World War? E.W. Martin, «Youth problems and Planning», TCP, Nov-Dec 1959
7 the Balkanization of local government jurisdictions that results … in great disparities in tax paying and borrowing capacity from local jurisdiction to local jurisdiction. Coleman Woodbury, «Economic implications of Urban Growth», TCP, Jan 1960
8 the Jack-of-all-the-trades represents a positive danger. Gordon Campleman, «The role of the Social Scientist in Planning», TCP, Dec 1950
9 it is an affront to democracy if … essential sectors of community interests are, through planning, removed from jurisdiction. Julian Friedman, «From Social Science to Town and Country Planning», TCP, Mar 1951
10 Molto noto a livello europeo e anche in Italia, il Town and Country Planning Textbook (The Architectural Press, London 1950) contiene una accurata sezione di Surveys for Planning curata da Jaqueline Tyrwhitt, inserita in un contesto di altri contributi di carattere demografico, statistico, e una sintetica ricostruzione storica sul ruolo dell’urbanistica nel Novecento curata da George L. Pepler
11 Cfr. L.A. Pittam, «The technique of Planning Surveys», TCP, Oct 1951
12 Peter Collison, «The Sociologist and the Planner», TCP, Mar 1952
13 Cfr. L.B. Keeble, «Problems of Planning Education», TCP, Jul 1953
14 Su piccola scala e questioni puntuali, anche in Italia un tentativo di questo genere è condotto negli stessi anni nell’ambito del Piano Fanfani. Cfr. Salvatore Alberti (a cura di), Caratteristiche e preferenze di un gruppo di famiglie assegnatarie di alloggi INA-Casa, Gestione INA-Casa, Ente Gestione Servizio Sociale, Roma 1956
15 demonstrate vividly the dangers of the gifted architect playing at sociology. G. Brooke Taylor, «Social satisfaction in Planning», TCP, Mar 1958
16 Cfr. «The Government of London», TCP, Aug 1958; G. Brooke Taylor, «Services and the City Region», TCP, May 1964
17 the planner of tomorrow may discover that the attributes of “good sense”, intuition and practical experience are inadequate to cope with the complexity of modern urbanism. Glenn W. Ferguson, «Decision Making and the Planning Process», TCP, Aug-Sep 1960