Francesco Indovina ha teorizzato che la decisione urbanistica sarebbe una «scelta politica tecnicamente assistita» azzeccando sicuramente uno slogan di presa tra studiosi e interessati vari. Ma evidenziando al tempo stesso la distanza che spesso se non sempre si frappone tra teoria e pratiche, dato che appare evidente a molti osservatori come quella «assistenza tecnica» avvenga a valle di una totale discrezionalità. In un breve saggio del 2011 Roberto Camagni (*) formalizzava in maniera puntuale a quali condizioni si sarebbero potuti concretizzare i benefici potenziali insiti nelle recenti innovazioni urbanistiche, con particolare riferimento alla perequazione. Il testo, in esplicita polemica verso la creativa interpretazione che dell’istituto dava il comune di Milano, si svolge tutto su una chiara linea direttrice: la prevalenza dell’interesse pubblico. L’obbiettivo stesso della giustizia distributiva, in termini volumetrico-finanziari, tra operatori privati assume rilevanza in funzione del superiore interesse della collettività. In altri termini, il comune individua le macro-aree di trasformazione e all’interno di questo disegno opera in maniera rispettosa degli interessi in campo, senza favoritismi e con un occhio di riguardo alla realizzabilità concreta degli obbiettivi sottesi al programma complessivo.
Tra le condizioni irrinunciabili per un esito favorevole dell’utilizzo dell’istituto perequativo da parte del comune Camagni rileva la necessità «che esso sia accoppiato a un disegno razionale e lungimirante di pianificazione e di disegno urbano». A sua volta il disegno urbano, perché esprima davvero caratteristiche di razionalità e lungimiranza deve essere incardinato su previsioni insediative realistiche, deve cioè rispondere ad un fabbisogno reale che, come sappiamo, si determina in maniera passiva, cioè non è condizionabile, se non in tempi biblici, dall’azione politica. Il buon esito delle scelte comunali, anche rispetto ai tempi di realizzazione degli obbiettivi prefissati, è legato pertanto non solo alla sagacia tecnica con cui viene ridisegnata la città «sulla carta», ma alla gestione politica in senso stretto, sia nella fase di commissione del piano (previsioni insediative, mix sociale, servizi…) sia nella fase successiva, quando si tratta di maneggiare quanto previsto nel rapporto diretto con i cittadini e gli operatori economici. Ebbene è proprio qui che va presa in seria considerazione la raccomandazione di Camagni: se le finalità della pianificazione sono unicamente quantitative (per di più su una base a sua volta calibrata sostanzialmente sui desideri degli operatori), l’adagiarsi sulla libera commercializzazione delle volumetrie viene di conseguenza, anche nella versione radicalmente mercatista di «una sorta di banca dei diritti di edificazione commerciabili nell’ambito di una filiera di interessi pubblici da perseguire» vaneggiata da Maurizio Lupi.
I rilievi che Camagni rivolgeva alla giunta di centro-destra dodici anni fa non solo sono ancora di stretta attualità, ma potrebbero essere rivolti oggi, senza sollevare l’indignazione di nessuno, alla giunta di centro-sinistra, in particolare relativamente alla gestione di un uno dei temi che più hanno interessato le cronache di questi giorni: la questione stadio.
Pare evidente che la decisione del sindaco di lasciare l’intera questione nelle mani delle due società abbia finito per complicare la vita alle società stesse e abbia contribuito a sollecitare un groviglio di appetiti difficilmente estricabile. Il «campo di gioco» messo a disposizione dal comune, l’area su cui potrebbe planare lo stadio, è troppo vasto, addirittura l’intera città, se non l’intero territorio metropolitano. E troppo flessibili sono le regole e i tempi di gioco implicitamente sanciti. «Presentateci qualcosa e ne discuteremo» in sostanza. Dov’è la «lungimirante e razionale» pianificazione invocata da Camagni? Dov’è la «trasparente negoziazione dello scambio» tra pubblico e privato? Altro che storie, tutto avviene dietro le quinte, in maniera tutt’altro che lineare. Le trattative e le ipotesi localizzative vengono sollecitate da interessi occasionali in relazione alle aree che di volta in volta conviene valorizzare e portare all’attenzione dell’opinione pubblica. Non solo il risultato rischia di essere tutt’altro che razionale e lungimirante, ma c’è il rischio plausibile che non si combini niente di niente, perché le società stesse sono ormai coinvolte in un gioco sul quale hanno pochissima presa e perché i tempi incerti della valorizzazione finanziaria non hanno niente a che vedere con gli interessi della collettività.
Parrebbe sempre e comunque l’occasione per mettere in pratica la lezione di Roberto Camagni, lezione insieme economica, urbanistica, e naturalmente politica. Pensare che la «tecnica urbanistica» nel senso attribuito a Francesco Indovina in apertura, possa risolvere in maniera neutrale i problemi che la città di volta in volta mette all’ordine del giorno, è pura illusione. Sarebbe anche tempo che si stabilisse o ristabilisse un ragionevole equilibrio tra coloro cui spetta la responsabilità delle scelte politico-discrezionali e coloro che sono chiamati a «implementarle» (termine reso orribile dall’abuso e dagli strafalcioni, ma qui ci sta), cioè gli urbanisti a vario titolo, o magari anche certi ubiqui architetti prestati all’urbanistica. Pare davvero poco edificante il costume secondo cui i tecnici subiscono, e accettano (ex ante), le pressioni politiche quando si tratta di allargare le maglie delle regole, correndo in soccorso (ex post) degli amministratori con qualche espediente raccattato a rattoppare i cortocircuiti della politica.
(*) Roberto Camagni, «L’uso improprio della perequazione urbanistica: il caso del PGT di Milano», EyesReg – Giornale di Scienze Regionali, Vol. 1, n. 1, maggio 2011