Partire è un po’ morire, soprattutto quando si parte nell’inquinamento invernale della padania felix. Ma, come ci avvertono i destri di ogni schieramento politico ormai da generazioni, bisogna conciliare le esigenze ambientali con quelle dello sviluppo. Il che detto in altre parole, si traduce con: partire è sempre più morire. Ogni anno che passa, si replica l’eterna, titanica lotta fra chi nel fine settimana festivo di Sant’Ambrogio a Milano vorrebbe qualche limitazione sanitaria del traffico automobilistico, e chi invece ritiene che i fattori economici in tempo di crisi (anche quella eterna, quando serve) debbano prevalere. Insomma, partire è un bel po’ morire, ma almeno si muore dopo aver fatto lo shopping e dato il proprio contributo alla circolazione dei capitali. Ci resta quindi solo la scelta dell’arma con cui suicidarci, a quanto pare: respirare tutte le schifezze che ci racconta la leggenda chimica dentro l’abitacolo dell’auto di famiglia? Oppure inalarle nelle varianti del cocktail tra marciapiedi, mezzanini del metro, ingressi dei grandi magazzini? C’è anche il classicissimo, ormai, metodo di sinistra (chissà perché, di sinistra) del saltare in sella alla bici, aggiungendo un po’ di brivido in più all’esperienza di interlocuzione col carnefice.
Visto che si è scelta una prospettiva di osservazione geograficamente locale, si può anche passare direttamente a quella soggettiva, ovvero di un percorso dotato di nomi e cognomi, ma certo facilmente generalizzabile da chi quei posti non li ha mai visti, ma ne conosce di altrettanto caratteristici e simili. Giornata invernale, Sant’Ambrogio appunto, festa di inizio di dicembre in una grande area metropolitana, ovvero inaugurazione (che sotto sotto striscia da prima) della grande stagione di shopping natalizio. Se qualcuno si pone ogni tanto certe domande sulla coincidenza di feste religiose, pagane, artificiose ecc. la sovrapposizione di Sant’Ambrogio con Thanksgiving potrebbe evocare fantasiosi scenari. Ma torniamo a noi, e alla semplice uscita per una spesina con pedalata/passeggiata. Punto di partenza il quartiere di Lambrate, a ridosso della tangenziale Est, e meta suburbana come a volte piacevole pedalando, un centro commerciale in comune di Vimodrone, dove c’è una scelta di certi prodotti assai più ricca che altrove. Quello che segue è lo svolgimento del tema.
Quando ci si avvia in bicicletta, come sanno più o meno tutti salvo i progettisti di percorsi ciclabili, non è detto che si scelga sempre la soluzione più lineare da un punto di origine A a un altro punto di destinazione B. Tra i fattori che influenzano la scelta dei vari percorsi dal punto di partenza a quello di arrivo ci sono tante variabili, dalla relativa fretta o meno, alle condizioni del tempo e del traffico, al puro caso. Provate a spiegarlo magari anche ai cosiddetti esperti, quelli che pretenderebbero un’osservanza religiosa integrale di certe norme: dal divieto di percorrere al contrario i sensi unici, ai marciapiedi, a certi attraversamenti ecc. Il percorso descritto qui però è abbastanza lineare e formalmente corretto, anche perché frutto di lunga esperienza e adattamento: survival for the fittest insomma, almeno per adesso. Il primo ostacolo da superare per il passaggio dal territorio comunale di Milano a quello della fascia interna metropolitana è la linea delle tangenziali, che nella zona di Lambrate coincidono per un lungo tratto – guarda un po’ – con l’omonimo fiume Lambro.
Ce ne sono tre o quattro, di questi passaggi a nord-est: quello attraverso l’ex area industriale Innocenti (ci facevano la Lambretta), quello dal parco Lambro e dal cimitero, quello a suo modo suggestivo e hard core al capolinea urbano della metropolitana di Cascina Gobba, e quello solo apparentemente soft core sotto l’omonimo svincolo autostradale lungo il naviglio Martesana. Per l’occasione si sceglie il secondo, più vario e articolato quanto ad ambienti e spunti. Si parte dall’attraversamento dell’ultimo dei quartieri popolari, il dignitosissimo INA-Casa di via Feltre, dove il traffico delle auto è stato ben digerito dentro un tessuto di sensi unici, zone a verde e attraversamenti rallentati, senza semafori se non sull’arteria principale. Pedoni, ciclisti, auto in transito quasi esclusivamente locale e in cerca di parcheggio, gente seduta sulle panchine o ai tavolini dei bar se aperti, tutto mescolato, e non si avverte certamente l’esigenza di autostrade ciclabili, sovrappassi e simili. Un posto tranquillamente attraversabile anche quando piove, a patto di non scivolare e di sbirciare più spesso dal cappuccio della mantella. Paradiso degli spazi condivisi, ma ovviamente per sua natura la neighborhood unit finisce, in questo caso proprio a ridosso del fiume e della Tangenziale.
Finiscono anche, nel solito modo assurdo, cretino, pericoloso, i percorsi intelligenti e una convivenza governata fra modalità di trasporto. Fino a un attimo prima c’era l’ultimo brandello di pista ciclabile, un po’ confusa col marciapiede ma tant’è. Poi un improvvisato scivolo proprio a evitare il salto di livello (ma c’è, di due dita, quanto basta a ribaltare una carrozzina, o a far toccare il cerchio se non si ha la gomma ben gonfia). E ci si ritrova per un centinaio di metri abbondante a condividere la carreggiata con le auto, giusto di fianco all’irraggiungibile marciapiede, venti centimetri più in alto. Spiegate questa cosa, ai legalisti, quelli che sbottano subito: «cretino, non vedi che è il marciapiede, lì ci vanno i pedoni, non i ciclisti!». Quel marciapiede, senza nessuna possibilità di scendere o salire se non ci si mette in spalla la bici, se ne va per centinaia di metri attraverso il parcheggio fino al cimitero. Mentre oltre la piuttosto pericolosa rotatoria appena dopo la Tangenziale ricompare una pista ciclabile, stavolta del tipo verniciato anziché in sede propria. Ci sarebbero anche dei catarifrangenti, a ribadire il concetto.
Non lo ribadiscono a sufficienza, come si capisce dalle piccole carovane di cuccioli di evasori, spesso radunate lì sopra in convoglio automobilistico adeguatamente costoso, a confabulare sulla prossima meta ballerina o festaiola. Come si capisce anche quando, procedendo in senso opposto alle auto, se ne vede una, e poi un’altra, e poi un’altra ancora, arrivarti addosso tranquille dopo aver scambiato quella corsia per una comoda parkway tascabile, chissà perché segnata dalla riga gialla. C’è comunque anche una quota fisiologica di automobilisti pensanti, in grado di immaginare sé stessi anche fuori dall’abitacolo, e che riescono a far convergere le due informazioni: riga gialla, più ciclista che ci pedala sopra = percorso ciclabile. Meritano un premio. Premio eventualmente da ritirare, però, se sono anche sindaci, assessori, progettisti, in qualche modo coinvolti col fatto che la corsia, sempre dentro il medesimo tratto di parco, si interrompe due volte per motivi del tutto oscuri. E quando cala l’oscurità vera, i motivi oscuri iniziano anche a diventare qualcosa di peggio. Ma dopo poche decine di pericolosi metri malamente condivisi col traffico automobilistico, ecco spuntare all’orizzonte il sogno immerso nel verde a cinque minuti dal centro.
Proprio lui: Milano Due, il paradigma del sogno berlusconiano in persona, che nel caso specifico un po’ mantiene le promesse, visto che tutto il quartiere è attraversato da una rete di percorsi pedonali e ciclabili in sede propria, e le automobili si vedono solo sbirciando dai famosi ponticelli, quelli inquadrati nelle pubblicità immobiliari o nelle mitiche cronache da via Olgettina (toponimo ninfeo tutto da scoprire nei suoi risvolti storico-critici). Niente di miracoloso in realtà, solo una interpretazione manualistica del classico quartiere suburbano con percorsi segregati quanto le funzioni, del resto non molto dissimile (salvo la collocazione su due livelli, non necessariamente virtuosa) da quanto visto poco prima nel quartiere popolare INA-Casa Feltre. Milano Due è suburbio international style da manuale, e lo si capisce benissimo non solo dal labirinto di strade a fondo cieco, dall’ostentata atmosfera intima dei baccelli residenziali, ma dal fatto che la famosa via Olgettina in corrispondenza dei cancelli di ingresso della lottizzazione ci scaraventa di colpo nel punto di vista di un Marty McFly qualsiasi in brusco ritorno al futuro.
La fine della pista ciclabile ai confini comunali di Milano, in fondo, aveva qualche suo pur perverso motivo «tecnico»: la Tangenziale là sopra, il passaggio dal quartiere popolare al ponte sul fiume, il cimitero di mezzo, la rotatoria, lo stesso confine con un altro comune. Nel quartiere simbolo di Berlusconi, a parte i piloni virtuali del cancello di ingresso, non c’è nulla che impedisca fisicamente di far proseguire almeno in parte la logica dei percorsi pedonali e ciclabili, visto che tra l’altro da lì si accede direttamente all’ospedale San Raffaele. Macché. La pista ciclabile, per quanto realizzata da pochissimo tempo, in realtà esiste, ma è del tipo surreale progettato più in ossequio burocratico alle forme, che con qualche criterio degno di questo nome. Inizia nel nulla da un piccolo scivolo vicino ai cancelli del quartiere di Marty McFly, dopo dieci metri attraversa la trafficatissima strada (perché iniziava sul lato opposto rispetto all’ospedale), dopo altri dieci metri si mescola al viavai di auto e ambulanze, per non contare i mezzi dei servizi ambientali del deposito comunale, e poi serpeggia fino a un altro attraversamento, poco dopo il quale termina nel nulla. Dove siamo adesso? Ritorno al passato, stavolta.
La pista ciclabile finisce davanti a una rotatoria, appena sotto uno svincolo della Tangenziale … pare la strofetta di una poesia, il ritornello di una canzone popolare, e invece deve essere un capitolo base del manuale dell’ingegnere sadico. Tutto ritorna, identico, salvo che stavolta la strada è davvero molto, ma molto, ma molto trafficata. E ne ha tutti i motivi, trattandosi della Padana Superiore ex SS11. E i percorsi ciclabili? Ci sono, ci sono, niente paura. O meglio, tanta paura, perché bisogna attraversare la Padana, per raggiungerli. Oppure dire ma vai al diavolo, e iniziare a pedalare lungo la strada. Ecco un caso in cui l’alternativa di percorsi di cui all’inizio si pone ben chiaro. Il centro commerciale meta di questa passeggiata si attesta proprio sul tracciato della Padana Superiore, all’altra estremità del territorio comunale di Vimodrone, ma per arrivarci così dovremmo pedalare per parecchie centinaia di metri, praticamente strisciando il gomito sulle portiere dei Tir, visto che la carreggiata occupa tutta la sezione stradale, e per lunghissimi tratti manca del tutto anche una minima striscia smilitarizzata di sicurezza. Vengono in aiuto del ciclista, si fa per dire (si fa per dire aiuto, non ciclista), i controviali pensati per le auto che accedono a capannoni e depositi: un tipo di spazio condiviso improprio, ma su cui certo si potrebbe riflettere in termini di potenzialità.
Però forse è altrettanto interessante descrivere anche l’altra possibilità, quella di imboccare il percorso ciclabile ad hoc, una volta superato il mega-ostacolo della strada Padana. Sconcertante il primo tratto, quello più nuovo e anzi ancora incompleto, della pista ciclabile realizzata dentro il grosso svincolo della tangenziale. Perché continuamente insiste nell’incrociare le corsie automobilistiche, senza motivo apparente salvo uno, intuibile: è stata stancamente e passivamente disegnata sopra le traiettorie delle corsie per auto. Punto. Unica consolazione, si fa per dire, buona parte di questo svincolo non è ancora operativa, il traffico salvo alcuni orari è abbastanza contenuto, e pedalando si evita di procedere fastidiosamente a singhiozzo, obbligati a dare la dovuta (in pratica) precedenza al mezzo più pesante. Dopo questo semi-comico interludio modernista, la pista ciclabile si ricongiunge con uno dei percorsi alternativi accennati all’inizio, ovvero l’alzaia del naviglio Martesana.
Un classico italiano, quello di salvarsi sempre col centro storico monumentale, e le sue qualità abitative-spaziali intrinseche. Sostanzialmente svolge questo ruolo anche il cinquecentesco canale della Martesana, sulla cui alzaia si sviluppa la pista ciclabile più lunga e continua di tutta l’area (lo stesso vale ovviamente per le sponde degli altri due famosi Navigli, Grande e Pavese, ma stanno dall’altra parte dell’area metropolitana). Nel caso specifico se ne percorrono di fatto solo alcune centinaia di metri, ma è davvero confortante, dopo tanto procedere a singhiozzo, poter fare le cose normali che farebbe chiunque durante qualunque spostamento, senza essere costretti a scrutare il percorso come un apache sul sentiero di guerra. Dura abbastanza poco e allontana anche un pochino dalla meta, in linea d’aria, ma ne vale certamente la pena se non altro per fare un paragone col resto. L’allontanamento si recupera poi risalendo un pezzo di area abitata, dove senza gloria o infamia particolari si incrociano tutti i piccoli disagi per il ciclista medio, ma anche la comodità di qualche sprazzo pedonalizzato, o marciapiede largo a sufficienza per non infastidirsi coi pedoni, fino al semaforo che consente di riattraversare la Padana e raggiungere l’ingresso posteriore al parcheggio del centro commerciale. E già questa definizione è tutta un programma.
Facciamo i nomi e i cognomi: Centro commerciale Vimodrone, negozio ancora ipermercato Auchan. Quello che si definisce ingresso posteriore al parcheggio è, in realtà, l’unico puzzolente pertugio da cui mai siano potuti entrare quegli intrusi sgraditi del commercio moderno che sono i pedoni, e i ciclisti per assimilazione. Recentemente tutta la zona è stata sottoposta a una radicale trasformazione edilizia con ampliamento e riorganizzazione sia dei negozi che della viabilità e parcheggi. E per un lungo periodo, se prima per i pedoni quello era un ingresso un po’ scomodo e lontano, in mezzo a un incrocio e collegato ai negozi veri e propri da una specie di lungo viale delle rimembranze, col cantiere a non automuniti è riservato un trattamento abbastanza simile a quello delle popolazioni nomadi in Europa: tollerati, impossibile tagliarli del tutto fuori, ma … E per il ciclista è pure peggio, costretto a diventare pedone con mezzo condotto a mano, per superare la mezza dozzina di gradini che, variando di mese in mese a seconda delle esigenze del cantiere e dei cambi di percorso, dividono l’ex puzzolente ingresso sul retro dalla fascia di parcheggi più a ridosso degli ingressi. Adesso comunque, tutto è «risolto» nel senso che c’è una specie di Viale delle Rimembranze da cimitero che striscia (pure alberato e parzialmente panchinato) attraverso i parcheggi fino alla facciata.
Ma non è ancora proprio finita, perché naturalmente bisogna trovare un posto dove lasciare la bicicletta. C’è la solita rastrelliera in tipico stile sovietico dopo un bombardamento, ma sono spariti dopo i cantieri del «refurbishment» gli sparsi paletti della segnaletica, sostituiti da paletti 0.2, ovvero quelli infilzati dentro un panettoncino di cemento, e piazzati nel bel mezzo di un punto di svolta delle auto dai sensi unici discutibili. Chi ha faticosamente legato lì una bici, di solito se ne pente, trovandola con le ruote accartocciate, e magari pure un furgonista che ti chiede i danni. Così si è diffusa l’abitudine di legarsi con la catena direttamente alle file di carrelli, verso la cima. Unica precauzione, non andarci nei giorni di pienone: qualche consumatore compulsivo impossibilitato a prendersi il penultimo carrello della fila potrebbe chiamare la vigilanza, e visto come Auchan tratta in media i ciclisti, magari potremmo scoprire che per quel reato è prevista la pena di morte.
Ma finalmente, scesi dal sellino, siamo ridiventati cittadini nel pieno dei diritti, non ci guardano più con sospetto. Sarà una piccola pausa di shopping, prima di tornare nella società dell’apartheid ciclistico, riflettendo fra l’altro sul vero senso di tutta questa storia: si è trattato di un percorso attrezzatissimo dal punto di vista delle infrastrutture dedicate, su cui sono stati investiti negli anni moltissimi soldi pubblici (e privati, se contiamo come va contata l’ottima Milano Due). In fondo la quota di strada percorsa in condizioni di brutta mescolanza con le auto si riduce a poca cosa, ma c’è davvero da chiedersi: perché? Perché tanta trascuratezza, discontinuità, vera e propria idiozia progettuale, con tutti quei vuoti, attraversamenti assurdi, su, giù, destra, sinistra, vai, fermati? Lo farebbero mai un equivalente per le auto? Una via che finisce di botto in uno sterrato senza uno straccio di avviso? La risposta è NO. E il resto è un’altra storia, che racconteremo magari un’altra volta.
(lo so, lo so, questo pezzo l’avevo scritto un paio d’anni fa e già pubblicato; ma mi pare di validità eterna, e l’ho pure sfrondato di cose contingenti); complementa le altre cose che penso su Piste Ciclabili e dintorni