«Gli immigrati ci pagano la pensione» ma servono accoglienza e integrazione

Nel 2023, l’allora primo ministro Fumio Kishida esprimeva preoccupazione per il calo demografico giapponese. La popolazione diminuisce molto rapidamente. Raggiunto un massimo di 128 milioni di abitanti nel 2008, Jda quel picco si è imboccato un ripido percorso in discesa che secondo le previsioni vedrà un crollo dei lavoratori di 19 milioni fra il 2023 e il 2050. Meno abitanti e sempre più anziani, con problemi sia nel mercato del lavoro che previdenziali. Le donne giapponesi hanno deciso di avere meno figli a causa di alcuni fattori di dissuasione: dagli elevati costi di allevare un figlio, ai tempi di lavoro, alla stigmatizzazione sociale delle mamme lavoratrici. Il tasso di fertilità, ovvero il numero di figli medio per ogni donna, è oggi del 1,3, molto al di sotto del 2,1 che manterrebbe stabile la popolazione. Una popolazione che è la seconda più anziana del mondo, oltre uno su dieci con più di 80 anni. Con tanti anziani pensioni, salute, sicurezza sociale, vedono costi crescenti a fronte di una minore base fiscale, ed è difficile finanziare servizi essenziali.

Per rispondere alla crisi il governo giapponese cerca di incrementare le nascite con un «baby bonus» di 100.000 yen (670 dollari) alle mamme. Ma si favorisce anche l’immigrazione di giovani da inserire nel mercato del lavoro e sostituire nell’economia le fasce più anziane. Tutte politiche che non si scontrano con il tipo di opposizione populista sorto in Europa dove esiste sostanzialmente il medesimo problema, e con l’apparente approvazione di gran parte dei giapponesi. Ma l’immigrazione viene però considerata in primo luogo in termini di utilità pratica, molto meno in quelli di integrazione, lasciando soli gli immigrati di fronte ai problemi di lingua cultura e sociali. Ma se si vogliono attirare nuove persone e risolvere la crisi demografica sarà essenziale che il paese attivi diversi sostegni per i giovani immigrati.

Una vicenda di ostacoli all’immigrazione

Per raggiungere un tasso di crescita annuale dell’1,24% – l’obiettivo economico del governo – il Giappone ha bisogno di nuovi 6.740.000 lavoratori dall’estero: quasi quattro volte quelli presenti nel 2020. Il paese ha una nota storia di isolamento insulare, e fino all’attuale crisi di popolazione la politica migratoria era tutt’altro che aperta. La legge del 1952 sul Controllo di Immigrati e Rifugiati consentiva l’ingresso solo con permesso di lavoro o in caso di discendenza giapponese e ricongiungimento familiare. Negli anni ’80 con l’accelerarsi dell’urbanizzazione e dell’economia il paese si è fatto più attrattivo, mentre in precedenza le presenze di persone non cittadine giapponesi si attestavano sotto lo 0,6% cresciuto allo 0,7% nel 1990. Ma mentre più persone cercavano di entrare, il governo manteneva e anzi rafforzava le restrizioni. Quando la legge del 1952 venne emendata nel 1990, si limitò l’ingresso alle persone di qualifica superiore. Ma questo significava una difficoltà crescente a coprire i posti di lavoro meno qualificati.

Entravano esclusivamente coloro che discendevano da giapponesi emigrati in Brasile o Perù. Questi lavoratori a basse qualifiche passavano attraverso un Percorso di Formazione Tecnica, introdotto negli anni ’90 per orientare un lavoro in genere precario e sottopagato. Molti sotto il salario minimo e senza alcuna garanzia o sicurezza. Questo percorso di formazione non si rivolgeva a un tipo di immigrazione permanente ma pensava in qualche modo di «esportare qualifica» verso i paesi di origine. Non avevano, questi lavoratori, neppure accesso ai servizi sociali. Negli anni ’70 e ’80 niente case popolari, sanità, o mansioni nella pubblica amministrazione. E non solo cattive condizioni occupazionali ma addirittura incentivi a andarsene dal paese. Dopo la crisi e recessione del 2008 il Giappone metteva in campo una iniziativa «pay to leave» che offriva l’equivalente di tremila dollari a chi se ne andava. Ma nel 2010, solo in 20.000 avevano sfruttato quel programma e nel paese le presenze straniere toccavano i due milioni, 1,68% del totale della popolazione.

Assunzioni e mantenimento

Di fronte al dilemma del calo e invecchiamento di popolazione il governo giapponese prova ad aumentare il numero di immigrati e anche incentivarli a restare, specie in settori chiave come sanità e edilizia. Concedendo più permessi a breve termine, aumentando il tempo di residenza da tre a cinque anni, centralizzando il sistema di registrazione che era locale e agevolando così i rientri. Si attirano anche nuovi studenti dall’estero cercando poi di offrire loro occasioni di lavoro dopo il conseguimento del titolo. Drasticamente diminuiti i flussi di studenti col COVID-19 le quantità sono nuovamente cresciute del 20,8% fra il 2022 e il 2023 con 279.274 presenze calcolate a maggio; ed entro il 2033 l’obiettivo è che diventino 400.000. Iniziano con lavori a tempo parziale durante gli studi e spesso poi restano in Giappone dopo il titolo.

Si pone in primo piano soprattutto la copertura di posti di lavoro in settori economici particolari con due programmi di Formazione Specifica e Formazione Superiore. Il primo varato nel 2019, offre un visto della durata di cinque anni soprattutto persone con qualifiche medie in edilizia, agricoltura, cura alla persona, alimentare. Si prevedono diritti all’abitazione, programmi di orientamento, reti di relazioni, salari paragonabili a quelli degli equivalenti lavoratori giapponesi. Ma per accedere occorre superare prima un esame di lingua che è risultato di una certa difficoltà per gli stranieri.

Il programma di formazione superiore è attivo dal 2012, e si rivolge a ricercatori, operatori tecnici e amministrativi di fascia superiore, prevedendo valutazioni a punti e consentendo anche di comprendere le famiglie. I punto sono 70 e riguardano tre ambiti: ricerca accademica, specializzazione tecnica avanzata, management amministrativo di livello. L’assegnazione di questi punti avviene sulla base dei curricula universitari, professionali, risultati di ricerca. Ad esempio un ricercatore con un titolo di laurea riceve 20 punti «accademici» he diventano 30 se ha un dottorato. Se il ricercatore ha fino a 29 anni altri 15 punti per l’età, mentre fra 35 e 39 quei punti scendono a 5. A partire dall’anno fiscale 2024 si calcola di inserire su un arco quinquennale 820.000 lavoratori in questo canale della formazione superiore.

La formazione tecnica resta un elemento chiave per la forza lavoro immigrata giapponese. Tra il 2006 e il 2016, è triplicata la percentuale degli utenti di quei programmi fra la popolazione nata all’estero. E nel 2022, questi inseriti nella formazione erano la seconda categoria più ampia di lavoratori stranieri. Grazie a tutte queste iniziative le quantità di immigrati crescono, dell’11% tra il 2022 e il 2023, raggiungendo oggi la quota di tre milioni, il massimo nella storia giapponese. Per loro si aggiunge la possibilità di permessi di residenza più di lungo termine. Anche per ragioni di diritti umani i limiti della qualifica professionale sono stati eliminati nel marzo 2024; verranno rimpiazzati dal Programma Formativo per Lavoratori Stranier, o sistema «Ikusei Shuro». Un nuovo piano – rivolto soprattutto alla carenza di manodopera – che comprende tre anni di formazione più un percorso agevolato attraverso diversi lavori e residenza di lungo termine. L’inizio del programma è fissato al 2027.

Percezione collettiva del fenomeno

L’ingresso di immigrati modifica la demografia giapponese. Nel 2000, rappresentavano l’1,34% della popolazione. Al 2023, le nazionalità straniere presenti raggiungono i 3,4 milioni: il 2,7% del totale. Oggi a Tokyo, il 10% dei ventenni è nato all’estero, ma anche in città o cittadine molto più piccole come Shimukappu nella prefettura di Hokkaido, è nato all’estero più del 15% della popolazione. Il Giappone con quella sua immagine di omogeneità etnica e xenofobia non pare esprimere alcuna importante reazione negativa a queste trasformazioni demografiche. Semplicemente sono in molti a capire le ragioni dell’immigrazione, e sono molto chiari anche i messaggi del governo in materia. Nel 2018, primo ministro Shinzō Abe, sono state approvate leggi per favorire l’ingresso di 345.000 lavoratori stranieri in cinque anni.

Per alleviare le carenze di manodopera dovute al calo e invecchiamento della popolazione. Esiste certo un diffuso sentimento anti-immigrati, specie tra le vecchie generazioni. Un sondaggio del 2018 condotto da Pew Research, rilevava un 58% degli intervistati favorevole a fermare le percentuali alle attuali presenze, mentre il 23% sosteneva ce ne fosse più bisogno. Però soltanto il 13% preferiva diminuire le quantità di immigrati, e il 5% vietare ogni nuovo ingresso. Cosa più importante, il 59% riteneva che gli immigrati rafforzano il paese lavorando e mettendo a disposizione le proprie conoscenze e capacità. In un altro sondaggio pubblicato nel maggio 2024, il 62% degli intervistati giapponesi risultava favorevole a concedere nuovi visti di ingresso a lavoratori qualificati. Complessivamente la maggioranza capisce e sostiene le ragioni della politica migratoria.

Immigrazione senza integrazione

Se risulta minima la resistenza agli ingressi di immigrati, le politiche del paese non favoriscono certo l’integrazione dei nuovi venuti col resto dell’economia e della società giapponesi. Si offrono ai migranti accesso ai servizi sociosanitari e status di residente, che certo confrontati agli ostacoli di un tempo sono un passo in avanti. Ma non ci sono adeguati sostegni per esempio ad apprendere la lingua, all’istruzione, all’importante gestione delle emergenze naturali, a tutto ciò che fa normalmente parte della cultura locale. Il Giappone è l’unico paese democratico che non possieda alcuna autorità ufficiale anti-discriminazione, a cui un immigrato possa rivolgersi a chiedere giustizia.

E molti di questi immigrati non possono chiedere la cittadinanza, di accedere al voto, partecipare ai concorsi pubblici, entrare e uscire dal paese senza speciali permessi. I minori diventano cittadini giapponesi se la famiglia è di discendenza giapponese, ma è invece molto difficile senza questo presupposto. Chi presenta domanda deve essere residente in Giappone ininterrottamente da cinque anni, dimostrare di potersi mantenere col proprio lavoro, rinunciare a qualunque altra nazionalità. Ciò significa che un bambino può crescere nel paese mentre i suoi genitori non sono giapponesi. Con difficoltà del genere molti potenziali immigrati potrebbero rinunciare.

Esiste anche il problema della cultura del lavoro locale. Una ricerca del 2015 rilevava come metà degli studenti internazionali in Giappone non auspicassero molto diventare dipendenti di un’azienda locale per gli orari molto prolungati, la discriminazione degli stranieri, l’organizzazione molto particolare come il premiare sempre l’anzianità di servizio anziché l’etica del lavoro, o la presenza di gruppi esclusivi capacità, tutti ostacoli ad una carriera. Un altro problema importantissimo – sia per gli immigrati che per i datori di lavoro – è la padronanza della lingua giapponese, usata sempre correntemente in ogni momento invece dell’inglese internazionale così comune altrove.In un articolo del 2012 le imprese dei settori scientifico e ingegneristico esprimevano molta diffidenza rispetto a questa barriera linguistica.

Ogni genere di immigrati, inclusi quelli da paesi occidentali, hanno subito la cosiddetta «assimilazione negativa» che vede i compensi progressivamente decrescere e la carriera non decollare. Non si conoscono esattamente le cause e i termini di questa assimilazione negativa, ma si ritiene che dipenda in qualche misura da barriere strutturali alla assimilazione, dalla discriminazione alla scarsa istruzione. All’agosto 2024, gli stranieri in Giappone guadagnavano il 28% in meno dei colleghi lavoratori nazionali. Un fattore importante è la difficoltà a cambiare lavoro, o la riluttanza dei datori a retribuire adeguatamente chi non è giapponese. Chi è disoccupato o sotto occupato fatica a cambiare anche perché l’uso nazionale è lavorare per una compagnia sola su tutto l’arco dell’esistenza, valutati sulla base dell’anzianità.

Sostenere gli immigrati, specie nella padronanza della lingua e cultura, può costruire «assimilazione positiva»: guadagnare col tempo sempre di più integrandosi nel paese ospite. Paiono essenziali per una assimilazione positiva politiche di sostegno all’immigrazione basate sul contrasto alla discriminazione, sulla formazione non solo professionale, e che indirettamente incidono su salari e carriere migliorando la qualità della vita per gli immigrati. In queste politiche sarebbe anche utile inserire misure rivolte ai datori di lavoro per incoraggiarli ad assumerli. Governo e popolazione giapponesi non sono di per sé ostili ai migranti, però non li sostengono a sufficienza. Pare essenziale spingere ad integrali di più nella società e nell’economia, anche per rispondere alla crisi demografica e del mercato del lavoro: diamo agli immigrati la migliore possibilità per svolgere quel ruolo.

da: Harvard International Review, 30 ottobre 2024; Titolo originale: Improved Immigration: Japan’s Solution to Its Population Crisis – Traduzione di Fabrizio Bottini

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