Il Giappone oggi è notoriamente uno dei protagonisti mondiali della produzione di auto. Le esportazioni del solo 2016 si valutano in parecchie decine di miliardi di dollari, il 14% del totale planetario, ponendo il paese al secondo posto assoluto dopo la Germania. Si tratta del principale prodotto di esportazione, veicoli componenti e ricambi insieme pesano per un quarto sul totale dei redditi da esportazione. E può stupire quindi che l’atteggiamento pubblico e collettivo verso l’uso dell’auto non sia classificabile proprio come entusiasta. In realtà si tratta di una forma di scetticismo nazionale verso i veicoli su ruote, che precede addirittura l’invenzione dell’automobile. Già nell’epoca Edo era (1603-1868) il governo centrale proibiva i carretti nelle strade di Tokyo. In Giappone i trasporti si basavano soprattutto su navi e barche, sia Tokyo che Osaka erano organizzate attorno a una fitta rete di canali. L’introduzione delle automobili avviene più o meno contemporaneamente ai paesi occidentali, verso la fine del XIX secolo, limitatamente a quelle minoritarie classi ricche che possono permetterselo. Allora come oggi, il paese è privo di risorse petrolifere degne di tal nome, e quindi tenere un’automobile è più costoso che altrove: carburante, veicoli, ricambi e accessori, tutto deve essere importato, e il Giappone anteguerra è molto più povero di quanto sarà in seguito, privo del ceto medio di massa di altre nazioni come Stati Uniti o Gran Bretagna.
Le città giapponesi, quanto e più di quelle americane o europee, erano dotate di poco spazio per le automobili. Alla fine della seconda guerra mondiale, qualche ricco ancora abitava in tenute a parco e magioni di epoca tradizionale samurai, c’erano sporadici rarissimi tentativi di qualche «sobborgo giardino» sul modello britannico, ma la maggioranza della popolazione urbana abitava e lavorava in zone dette shitamachi (letteralmente “zone basse” filologicamente analoghe alle “downtown” ma nel senso fisico di attiguità ai corsi d’acqua): densi quartieri polifunzionali di baracche in legno sempre a rischio di incendio, con vicoli troppo stretti per farci passare un’automobile, figuriamoci trovare un’area di sosta. Quindi le auto non si affermarono facilmente. Però in seguito, proseguendo anche politiche iniziate già negli anni ’20, il Giappone come i paesi occidentali provava a rendere le città più moderne, per esempio tombando i canali e trasformandoli in ampi viali. Si rifacevano più ampie le strade dopo gli incendi, o si demolivano quartieri ad hoc. Ma si trattava pur sempre di operazioni sulla viabilità principale. Gran parte delle altre vie urbane restava angusta come nell’epoca dei samurai, salvo che oggi erano asfaltate. Ma anche le strade nei nuovi quartieri di espansione non erano molto più larghe, larghe giusto a sufficienza per far passare un’auto.
Dagli anni ’50 il Giappone sperimenta il proprio «miracolo economico». Cambiano rapidamente gli stili di vita con uno stupefacente boom industriale. Prodotti giapponesi come macchine fotografiche o elettrodomestici diventano rapidamente concorrenziali con quelli occidentali, trascinando le esportazioni, che comprendono anche le automobili giapponesi sempre più diffuse sia nel paese che oltremare. Una crescita che avviene negli anni del dopoguerra, ovvero decenni dopo quella americana o anche in parte europea. In America in particolare, ma anche altrove, l’auto era stata utilizzata come strumento per far esplodere le città verso la campagna, nel suburbio automobilistico. Il Giappone, e in parte l’Europa, proponeva invece il veicolo a una popolazione urbana utente di treni, tram, biciclette, o che semplicemente girava a piedi. Doraibu, termine derivato dall’inglese Drive, entra in voga negli anni ’60, ma più nel senso di «andarsi a fare un giro» per passatempo, in campagna, per prati e boschi, nulla a che vedere con il circolare in città.
Ma le auto si comprano comunque, una gran parte della popolazione ne diventa dotata, e gestire quelle quantità a porsi come problema. È lo stesso periodo tra gli anni ’50 e ’60 che in Occidente vede il rapporto Traffic in Towns nel Regno Unito, o in sistema autostradale Interstate negli Stati Uniti. Il Giappone si adegua con l’istituzione dell’Ente Strade Pubbliche nel 1956, e l’inaugurazione della prima autostrada veloce nel 1963. Ma ci sono anche delle differenze. Le autostrade si finanziano pubblicamente ma l’idea è di recuperare quei costi, con pedaggi piuttosto elevati sin dal principio. E pochi sventramenti dentro le città, dove le arterie veloci sono realizzate sopra le strade normali o i canali residui. Infine, non si intende mai arrivare all’auto come mezzo principale per la mobilità urbana di persone e merci. I centri principali proseguono nella massiccia realizzazione di metropolitane sotterranee in questo periodo, facendone il mezzo più economico e conveniente di spostamento. Oltre alla circolazione delle automobili, diventa rapidamente un problema anche la loro sosta, mano mano si accumulano sul poco spazio disponibile al ciglio stradale. A livello internazionale viene individuata la «soluzione» degli standard minimi urbani a parcheggio, divenuti rapidamente universali specie nei paesi anglosassoni. Li adottano anche le città giapponesi, anche se con proporzioni molto più ridotte, sia rispetto al suburbio americano, sia rispetto alle grandi città asiatiche, e anche del tutto escluse nel caso di piccoli edifici. Oggi il Giappone ha tassi di proprietà dell’auto paragonabili a quelli occidentali europei, e quindi necessità analoghe per la sosta. Esistono tre aspetti: standard per la sosta minimi e non obbligatori, un sistema di regolamentata autorizzazione, l’assenza della sosta sui margini. Tre fattori che concorrono a produrre ciò che Paul Barter, della Asian Development Bank, descrive come «invidiabile sistema di parcheggi commerciale efficacemente regolato dal mercato e dai prezzi».
Il dritto della medaglia
Il sistema che si è imposto, di spazi per la sosta commerciali, è assai efficiente. Servono tutte le funzioni a scala di quartiere, evitando duplicati, consentendo una sola sosta pur per destinazioni finali diverse entro ma medesima zona. Un sistema condiviso che evita alle attività minori e medie di dotarsi (o dichiarare ufficialmente necessità standard) di piazzole non calcolabili. Basta semplicemente decidere di delegare: non si hanno spazi propri assegnati e si è accessibili ai frequentatori con quelli a rotazione. Un sistema flessibile sia nel breve che nel lungo termine. Una famiglia può far decrescere il proprio parco veicoli privati senza dover dismettere un garage obbligatorio, o dover traslocare in un’altra zona con altri standard se vuole acquistare un’altra macchina. E se col passare del tempo i parcheggi di superficie si rivelano insufficienti, ed esiste una concreta domanda, si possono pur sempre riconvertire su più livelli. Oppure al contrario una struttura su più livelli che viene dismessa per carenza di domanda può essere convertita, trasformata, diventare spazio pubblico (di cui nelle città giapponesi per inciso esiste pur sempre tanto bisogno).
Una delle conseguenze meno immaginabili sono gli effetti del «traboccamento della sosta» in questo regime, quando la domanda eccede l’offerta locale. Secondo una prospettiva convenzionale considereremmo questo traboccamento qualcosa di assolutamente negativo da prevenire. Ma qui stiamo in un modello di mercato domanda offerta, e lo overspill smette di essere un problema, diventando occasione di scambio. Esiste qualcuno disposto ad offrire spazi, e non esiste neppure la questione degli effetti negativi sulla sosta libera ai margini stradali, che come si è detto non esiste. Per l’operatore commerciale è una occasione di affari, e il parcheggio copre i propri costi. Situazione di mercato significa che quello spazio produce gettito, più di altre funzioni alternative, e se non avviene così si convertirà ad altra funzione più remunerativa. Il parcheggio è valore, non problema. Infine, un modello di mercato domanda-offerta non obbliga i pubblici poteri a stabilire per forza quanta sosta si debba prevedere: «Sono i prezzi a stabilirlo» osserva Donald Shoup: è il privato ad avere l’onere di aggiungere o togliere superfici di sosta, senza alcuna imposizione.
Il rovescio della medaglia
Il sistema di dimostrazione della necessità di sosta è probabilmente la parte più nota delle politiche giapponesi di settore. È certamente importante dal punto di vista concettuale: il proprietario di un veicolo ne è responsabile anche quando è fermo. Ma è costoso, il sistema burocratico di controllo e gestione, e forse non è neppure indispensabile. Per iniziare, si applica solo al parcheggio standard di casa, non certo al tipo di sosta che produce lo spostarsi in macchina per altre ragioni che non siano quella di andare a casa. E anche qui c’è un problema: se non ci sono sufficienti controlli sul divieto di parcheggio libero nelle fasce stradali, esiste pur sempre la tentazione di forzare il sistema. E se i controlli sono sufficienti, per converso, anche dimostrare di averne bisogno si rivela superfluo. Anche gli standard a sosta minimi giapponesi non sono necessari. Le superfici minori (sotto la soglia dei 1500-2000 mq) non devono avere obbligatoriamente degli spazi propri, ma lo standard vale per quelle maggiori. In alcuni paesi con regimi diversi potrebbe essere utile una analisi e monitoraggio del traffico per le grandi superfici, anche abolendo gli standard minimi a favore di un approccio di mercato domanda-offerta. Ma si tratta di eventualità contestuali, oltre a favorire per esempio quegli insediamenti che si ritengono fruibili a piedi, in bicicletta, coi trasporti pubblici: uno standard minimo rigidamente imposto non ha senso.
In Giappone si consente di convertire rapidamente i loti non edificati in spazio per la sosta, e ciò vuol dire che in momenti di crisi immobiliare il parcheggio inflaziona il mercato facendo precipitare i prezzi, danneggiando l’offerta dei più territorialmente efficienti e sostenibili, ma costosi, contenitori a più livelli. Ovvero si scoraggia l’investire nell’efficienza e si sostiene invece lo spreco di superfici, oltre che far aumentare il traffico e favorire certe speculazioni come il land-banking. Infine, per quanto riguarda le politiche sulla sosta ai lati delle strade, meglio non averne nessuna. Praticare una tolleranza zero per il parcheggio casuale ha senso in vie uniformemente piuttosto strette, non dove vince l’eccezione: esistono usi convenienti di spazi disponibili e non val la pena di ostacolare inutilmente operazioni come il carico scarico.
Conseguenze
Il sistema di mercato della sosta vale in generale per tutto il territorio nazionale giapponese. Nelle grandi aree metropolitane con elevata densità e ottimi sistemi di trasporti pubblici, ciò significa una diffusione del veicolo privato molto minore che altrove in situazioni analoghe, anche là dove ci sono analoghi ottimi trasporti. L’auto non pesa finanziariamente sul non automobilista, ma il prezzo è pagato da chi guida. Il medesimo sistema di mercato vale però anche nelle zone suburbane o rurali più auto-dipendenti (certo meno dipendenti di quelle del resto del mondo, anglosassone o meno). La grande distribuzione organizzata suburbana mette a disposizione parcheggi gratuiti per i clienti, e la maggior parte delle case suburbane e rurali sono dotate di proprie piazzole in spazi dedicati. Ma l’offerta commerciale copre anche tutte le necessità del visitatore occasionale, nei centri minori, senza aggiungerne dell’altra vuoi su piazzali vuoi a ciglio stradale: il mercato funziona anche dove ci si sposta soltanto in auto.
Un modello applicabile altrove?
Alcune parti del modello giapponese si possono applicare, senza alcuna difficoltà e immediatamente, anche all’estero. Altre parti non valgono la pena, come il sistema della dichiarazione di necessità. Altre parti ancora richiedono adattamenti. Esistono paesi dotati di ampie superfici per la sosta sul ciglio stradale senza usi alternativi, specie nelle zone residenziali. Secondo un modello di mercato, si potrebbe conferire un prezzo installando parchimetri e calcolando almeno una occupazione dell’85%. Oppure adeguare l’offerta a quella di altri operatori privati dell’area (l’offerta dovrebbe livellarsi col tempo). Altre possibilità sono piani di complesso residenziale, limitazione di tempi, regolamentazioni come il carico scarico o per alcune specifiche funzioni. In molte zone ce ne è già così tanta di superficie a parcheggio da costituire già uno standard futuro.
Esiste anche l’accessibilità pubblica di zone come spiagge, riserve naturali, boschi, parchi nazionali, dove la sosta è pubblica e regolamentata. Cosa che in sé resta fortemente locale e non contraddice in alcun modo la sosta di mercato in città. Infine, anche entro un modello di mercato domanda e offerta esiste lo spazio per sussidi e sconti. Ci preoccupa il diritto di anziani o disabili di accedere liberamente a un parcheggio? Esistono buoni, rimborsi, tutto senza interferire sull’offerta di parcheggio in sé.
Concludendo per punti essenziali
- In Giappone, per avere diritto a uno spazio di sosta bisogna «comprarselo insieme all’auto», non è una cosa delegata tutta a costruttori o immobiliaristi o all’operatore pubblico
- Granze a una particolare forma urbana favorevole agli spostamenti a piedi, e alla forte dotazione di mezzi pubblici, le auto vengono considerate da molti abitanti delle città soprattutto come un accessorio, non come una necessità
- Nelle zone rurali l’auto è una necessità, ma il modello di mercato funziona comunque, sia nelle superfici dedicate che in quelle a sosta condivisa
- Data la rarità delle superfici a lato stradali, e alla frequenza dei controlli sugli abusi dei non aventi diritto, difficilmente si verificano casi di «traboccamento dell’offerta».
- «I prezzi regolano l’offerta».
Da: City Beautiful, settembre 2018 – Titolo originale: What would a free market for parking look like? It’d look a lot like Japan – Traduzione di Fabrizio Bottini