Come ci insegna la storia, gli amati e odiati scatoloni della grande distribuzione moderna non sono l’invenzione perversa di un sadico, e a ben vedere neanche solo il prodotto dell’automobilismo di massa che ci soffoca da mezzo secolo. Macché: quello scatolotto, anche se in forme subdolamente travestite e senza le insegne al neon da quattro soldi dietro i fumi degli scarichi, già esisteva prima. Basta leggersi nei particolari le utopie urbanistiche di era industriale, quelle ottocentesche tutte pervase di giustizia sociale, casette linde per tutti eccetera, per scoprire puntuali come un treno svizzero dei centri commerciali fatti e finiti. L’unica, basilare differenza col nostro scatolotto al neon in mezzo a un parcheggio, sta appunto nel parcheggio, perché all’epoca nessuno aveva bisogno di parcheggiare, arrivando teoricamente da quelle parti a piedi, in tram, o direttamente in treno nel caso della Colonnade pensata al centro della sua città giardino da Alfred Richard Sennett. C’è un’altra differenza, assai più sottile e al tempo stesso macroscopica, fra il centro commerciale delle utopie otto-novecentesche e quello suburbano di massa: il primo è solo una potenzialità, il secondo una realtà, resa appunto possibile dall’automobile.
La forma segue la funzione, anche quando non piace
Quello che anche i più acuti storici delle architetture commerciali forse non sottolineano a sufficienza, insomma, è la strettissima interdipendenza che esiste fra i modelli di vita e consumo, e quelli spaziali e di mobilità. In altre parole, cosa faccio esattamente quando vado al centro commerciale? Salgo sull’auto, arrivo il più vicino possibile ai negozi, faccio shopping nel senso di muovermi fra un esercizio e l’altro, con un carrello o senza carrello della spesa a seconda del casi, poi carico l’auto di tutto quanto mi sono comprata, e mi porto a casa il metro cubo di maltolto. Per capirci meglio, l’esempio, come sarà successo almeno una volta a tutti, è quando ci capita per forma o per scelta di andarci a piedi, in bicicletta, in tram, in uno di quei posti dello shopping: bisogna riorganizzarsi parecchio e stare attenti, perché tutto complotta contro i nostri limiti umani di carico, per non parlare di quelli di distanza. E non sto qui a entrare in sottigliezze come le difficoltà di portarsi a casa senza auto qualcosa che rischia di bagnarsi quando piove, o saltellare su e giù da mezzi di trasporto vari con un carico un po’ ingombrante, o pesante, o di valore che ispira qualche ladruncolo. Insomma, quella forma di scatolone, o di fila di scatolette, o di cerchio, pentagono, cubo, arcata, non va mai considerata in sé e per sé, e neppure solo nel suo rapporto con le funzioni urbane spaziali, o poco urbane dello sprawl, ma anche nel modello di shopping indotto, e da cui discende.
Gli urbanisti col paraocchi patologico
Nessun progetto sulle periferie ha mai funzionato davvero, perché non si vuol capire quanto la periferia sia un modello sociale, culturale, politico: quando si innescano le rivolte, che avvengano tra i palazzoni modernisti o tra le villette del suburbio, palazzoni e villette c’entrano si, ma in modo relativo. Allo stesso modo, se solo si desse il giusto rilievo alla storia del centro commerciale così come emerge dalla stessa biografia del suo inventore moderno, Victor Gruen, si capirebbe che alla base dello scatolone introverso, in tutte le sue varianti, c’è una strategia economica, che è quella della grande distribuzione organizzata. Ovvero, se sul serio si vuole iniziare a riflettere su forme urbane alternative a quelle disperse, e comunque ad arterie commerciali meno automobilisticamente orientate, ok ragionare sull’organizzazione fisica, gli arretramenti, le dimensioni dei contenitori, le densità, le distanze relative, insomma l’urbanistica da ufficio tecnico. Ma si finirebbe (come coi violenti di periferia) per ridurre il tutto a ottime intenzioni mal poste, visto che dentro a quello spazio sarebbero gli stessi operatori, domanda e offerta di consumo, a trovarsi malissimo. Mi paiono riassumibili così, senza nulla togliere ai pregi oggettivi, i limiti del piano di riorganizzazione per uno strip-mall a Bloomington, dove tra l’altro ha sede il leggendario Mall of America, e a pochi chilometri da dove a suo tempo Victor Gruen progettò il suo centro commerciale paradigmatico, a Southdale-Edina.
Riferimenti:
City of Bloomington (Minnesota), Department of Planning, Penn American District Plan
Alfred Richard Sennett, Colonnade: una galleria civica-commerciale per la città giardino (1905)
Victor Gruen, Larry Smith, Origine del centro commerciale (1960)