Chi va ad abitare nei quartieri di villette persi nel nulla dichiara di farlo alla ricerca di cose ben precise, che poi paradossalmente non trova affatto, anzi a ben vedere dovrebbe già essere certo di non trovare affatto. Una di queste si riassume nella classica dichiarazione di bandiera: “voglio abitare in un posto dove mio figlio possa uscire tranquillamente di casa”. Ma tutti sanno per esperienza diretta che in quei posti non si vede assolutamente mai un bambino in circolazione, e neppure un adolescente, salvo dentro l’auto dei genitori o nel parcheggio in attesa di salirci. Tra l’altro perché in assenza di destinazioni degne di quel nome, la circolazione pedonale nei quartieri ha poco senso, i percorsi quando ci sono restano deserti, e cala la sicurezza. Aggiungiamoci l’insicurezza aggiunta del grosso traffico di auto, perché appunto tutti si muovono in auto, e si arriva a quelle situazioni in cui chi si azzarda a fare una passeggiata magari fino al (rarissimo) negozio d’angolo, finisce per essere guardato con sospetto: che ci fa un pedone? Non avrà mica intenzioni ostili?
Tutto per dire che la questione della sicurezza stradale non è a senso unico, e neppure spezzettata in tante sezioni, ma un intreccio inestricabile che va dalla progettazione delle strade, alla città che a quelle strade sta attorno, alla forma e dimensioni dei veicoli, alle regole di circolazione e al controllo per farle rispettare, per ultimo ai comportamenti e sensibilità dei cittadini. Proprio per ultimo, il contributo dei singoli alla sicurezza o insicurezza stradale, dato che vittima e carnefice nei casi di incidente stradale stanno inseriti prima in tutto l’insieme descritto. Ma basta leggere la cronaca di qualunque giornale, per trovare al contrario sempre e puntualmente riferimenti biografici, di metabolismo (il sonno, bere, mangiare), età, etnia o altre piacevolezze. Completano il quadro supposizioni sull’istante del fattaccio, veniva di qui, andava di là, chissà cosa stava pensando … Solo pochissimi ed eventuali cenni, di norma, a come è fatto il posto dell’incidente, che rapporto c’è tra regole formali e spazi reali, la visibilità, gli elementi di disturbo e via dicendo. In pratica pare che tutti ci comportiamo come un avvocato di parte, prendendocela con l’anello più debole della catena.
Ogni tanto si prova a reagire, a questa assurda abitudine, che rischia di trascinare all’infinito il rischio stradale non affrontando la questione per quella che è, ovvero convergenza di elementi. Si parte dall’evento, e si risale via via verificando lungo tutta la catena che l’ha determinato, andando poi a intervenire dove si rileva un difetto, di solito molti e sparsi difetti. Per proteggerlo, quell’anello debole finale, anziché sacrificarlo sull’altare di una razionalità astratta, o meglio campata per aria. Sono gli obiettivi, più o meno organicamente praticati, dei cosiddetti programmi Visione Zero per la sicurezza urbana. Quindi si parte dall’obiettivo minimo di evitare che la dura superficie di un veicolo vada a sbattere contro quella assai più molle e vulnerabile di un essere umano. O, quantomeno, che quell’impatto avvenga a velocità molto ridotta e in modi tali da ridurre al minimo il danno. Gli strumenti sono regole di comportamento (leggi, norme, codici), organi di controllo perché queste regole vengano rispettate ad ogni livello (polizia, amministrazione, tecnologie), produzione e manutenzione di contesti spaziali adeguati alle regole e al loro automatico rispetto (organizzazione urbanistica e stradale), coordinamento trasversale fra gli organismi preposti alla produzione e attuazioni di tutti questi strumenti.
Ma la cosa più importante, è che l’obiettivo sia perseguito con respiro strategico intersettoriale: non serve a nulla un cartello col limite di velocità, o un dosso di rallentamento, o qualche telecamera per le contravvenzioni, o men che meno una nuova legge repressiva solennemente approvata, quanto praticamente inapplicabile per carenza di personale. Tutti gli aspetti si devono compenetrare, ovviamente con assetto variabile a seconda dei contesti. Buona metafora di contenitore e verifica (ma solo quello: attenzione, non una panacea da verniciare ovunque) è la Zona 30, applicata con successo in tante città del mondo, in piccole aree, o quartieri, o corridoi di mobilità stradale sicura. Qui la segnaletica verticale e orizzontale non lascia spazio a discrezionalità: tutti devono sapere subito e chiaramente se hanno spazi riservati, oppure se li condividono, e come. Quando i percorsi dei veicoli e dei pedoni o ciclisti si incrociano, massima visibilità e illuminazione, attraversamenti in qualche modo governati, eliminare le interferenze (quanti danni micidiali ha fatto e continua a fare il carico scarico merci selvaggio?). E poi precedenze per le svolte, gli accessi a parcheggi e fermate dei mezzi pubblici, coordinando dove necessario carreggiate segnaletica e semaforizzazioni. Infine a guida fisica di tutte queste regole e indicazioni, adeguati arredi e organizzazione della carreggiata, dei marciapiedi e piste.
Paiono, tutte, pure misure di buon senso, nulla di diverso da quanto più o meno troviamo scritto o addirittura praticato in alcune nostre bistrattate città (anche se molto episodicamente e settorialmente. Ma la cosa più importante è di conservare una trasversalità di piano, che non si compone al 100% di lavori pubblici, o semaforizzazione, o formazione e educazione, o leggi repressive/preventive, ma tutte queste cose insieme. Una trasversalità che non deve interessare solo (sarebbe già moltissimo) la serie dei settori amministrativi cittadini, dalla polizia, ai trasporti, alla salute, pari opportunità, eccetera, ma anche i livelli coinvolti, dall’Ufficio del Sindaco ai consigli e comitati scolastici locali.
Se è vero che spessissimo esistono già regole, contesti per applicarle, organismi di controllo della loro applicazione, esiste anche quella responsabilità individuale su cui a volte si soffermano (troppo, in esclusiva a volte) i giornali. Il cittadino, al volante, al bar, o a piedi e in bicicletta per strada, deve essere aiutato e preparato. Lo sa un ragazzino cos’è un punto morto? O quali sono i momenti critici di uno spostamento pedonale o ciclabile, sia dal punto di vista del pedone o ciclista che da quello di chi conduce un veicolo? Di solito no, e infatti uno dei motivi classici di incidente è proprio la collisione in quei precisi, in fondo prevedibili, passaggi critici. Basta dedicare qualche minuto di lezione a scuola, o di animazione informativa stradale in una giornata di festa (sperabilmente di sole) per salvare vite. Ma tutto, in modo organico e trasversale, altrimenti resteremo al medesimo punto: la ricerca del colpevole quando di fatto non esiste, perché è vero che è stata una “fatalità”. Basta mettersi d’accordo sul significato della parola. Buoni propositi per l’anno che viene, e che potrebbero magari aiutare a rivalutare quella parolina, bi-partisan.