Dopo l’impressionante e ravvicinata serie di incidenti mortali di ciclisti, che con modalità praticamente identiche hanno piagato le vie di Milano, probabilmente si stanno modificando gli equilibri in Consiglio comunale: tra chi caldeggiava interventi drastici per la sicurezza stradale e chi invece più attento alle «economie urbane» e degli scambi con l’hinterland sperava di poter galleggiare ancora a lungo nello status quo di un libero mercato della circolazione di chiunque con qualunque mezzo in grado di partecipare ai flussi urbani. Ma è il caso di sottolineare come anche le più recenti dichiarazioni di chi da sempre rappresenta una sorta di «fronda radicale interna alla maggioranza» sui temi della mobilità dolce pubblica e ciclabile, confermino involontariamente quale resti la scala di priorità delle strategie di sviluppo più o meno consapevolmente condivise.
Beninteso, nulla da dire contro chi sta lavorando da tempo a provvedimenti di carattere sistematico sulla mobilità, e che oggi stanno sfociando nella delibera sul cosiddetto «angolo cieco» dei grossi veicoli commerciali, responsabili di tantissimi incidenti in città. Esiste però una specie di posizione comune esplicita o implicita che riguarda le economie urbane più in generale e sui cui sarebbe il caso di ribadire certe osservazioni.
Si dice oggi «Bisogna ripensare la mobilità a Milano», ovvero occorre finalmente decidere quali mezzi sono davvero compatibili con la città e possano circolare senza rischi, in modo del tutto analogo a quanto pensato per l’inquinamento con Area C e Area B. Anche la questione sicurezza dei veicoli ingombranti è vecchia di decenni, e non riguarda solo i grandi comuni. Anche medie e piccole cittadine pensano, discutono, a volte sperimentano la circolazione governata dei mezzi, soprattutto nei centri storici. I problemi che i comuni si trovano ad affrontare sono noti e ricorrenti. Riguardano la sfera dei diritti (al lavoro, alla libera iniziativa, alla mobilità stessa delle persone e delle cose) e le diverse proposte sollevano spesso dubbi di legittimità. Oggi dopo la serie di incidenti appare a tutti evidente la necessità di far le cose, ma farle per bene: così da evitare vincoli o ricorsi che invalidino i provvedimenti annunciati trasformandoli in pie intenzioni e brutta figura di fronte agli elettori.
La vera questione qui riguarda soprattutto il mescolarsi esplicito col «modello di sviluppo» perché si tratta della circolazione su camion e furgoni di cose, merci, strumenti di lavoro. Si rileva correttamente, come essa potrebbe essere organizzata in maniera completamente diversa, individuando dei poli di smistamento e utilizzando poi per il recapito puntuale mezzi leggeri, addirittura cargo bike. Una riorganizzazione che secondo i paladini della città sostenibile e giusta potrebbe interessare tantissimi comparti dell’economia del lavoro degli scambi … ma «Tolta l’edilizia» come capita di ascoltare in una interessante intervista radiofonica. Davvero singolare questa franchigia inopinatamente concessa a un settore che certo non pecca di visibilità nell’ingombro di strade e spazi pubblici e privati coi propri mezzi di trasporto produzione trasformazione. Anzi che forse è il principale fornitore di questi tori in cristalleria.
Certo, si può comprendere come pensandoci così di sfuggita, magari soprattutto da progettisti e amministratori di reti ciclopedonali, l’idea di trasportare una gru in bicicletta possa essere più surreale di quella di altre mobilità commerciali, ma probabilmente non è questo il punto. Tecnicamente parlando, esistono attrezzature industriali, magari non delle dimensioni di una gru idraulica, che necessitano comunque di mezzi di trasporto adeguati. Del resto anche frigoriferi, lavatrici e scaldabagni vengono quotidianamente recapitati a domicilio via camion o camioncini. Persino un semplice trasloco (attività per inciso che l’amministrazione comunale sta caldamente incentivando coi cambi di abitazione di solito forzosi) richiede un mezzo di trasporto di una certa stazza che, una volta in moto, non si distingue troppo, quanto a possibili induzioni di rischio, da altri mezzi pesanti.
In definitiva, lo capiamo tutti che, qualunque cosa si faccia, qualsiasi restrizione si intenda proporre e applicare, ci dovranno anche essere necessariamente parecchie del tutto ragionevoli eccezioni. Eccezioni riguardanti privati cittadini, che all’occorrenza si troveranno a dover chiedere un’autorizzazione, o imprese che, magari non tutti i giorni, dovranno farsi recapitare a domicilio qualcosa di ingombrante. Ma turba un po’ ascoltare quel sereno e inopinato perentorio «Tolta l’edilizia»: sarà certo un settore con una sua specificità, ma non si capisce perché debba essere in cima alle preoccupazioni di qualche consigliere appassionato di bicicletta. E poi esclusa l’edilizia «come ovvio», sottinteso su cui non vale nemmeno la pena di discutere. Qualche battuta casuale incidentale che dà la misura di quanto i diritti del mattone siano interiorizzati nella coscienza collettiva, anche di chi ha attivamente a che fare con la cosa pubblica.
Non è certo il caso di prendersela personalmente con chi, da tecnico da amministratore da rappresentante dei ciclisti e della mobilità non motorizzata in generale, sicuramente vorrebbe solo rendere più sicura la vita dei cittadini magari scontrandosi anche coi flussoliberisti di massa. Quel «Tolta l’Edilizia» è una specie di lapsus freudiano, una ovvietà implicita che si ritiene forse giustamente interiorizzata da tutti. E un lapsus rivelatore, perché rivela la necessità di rassicurare quel mondo prima ancora che quel mondo chieda di essere rassicurato. Psicopatologia della vita quotidiana, anche di quella amministrativa e politica.