Qualcosa non era chiarissimo sin dal principio, solo sensazioni vaghe naturalmente, a partire da quella fantasiosa denominazione «Free Floating», non si capisce bene se decisa da qualche manager italiano col pallino dell’inglese un po’ alla Nando Mericoni, o promossa dal classico assessore creativo a senso unico, che non manca quasi mai in queste faccende. Perché il Free Floating esiste solo in Italia, nonostante quel travolgente suono globalizzante, che evoca in effetti in chi lo legge sui giornali città improvvisamente libere dalla forza di gravità, e per istintiva connessione anche libere dal traffico, dall’opprimente aria fritta e rifritta dai motori, infine dal veniale vincolo di posare la bicicletta condivisa nel posto giusto e obbligatorio, là dove è stato previsto da qualche forma di programmazione. Perché in sostanza di questo si tratta, e nel mondo, da quello anglosassone alla sterminata Cina dove sono nati i colossi delle app di gestione appena sbarcati anche qui, si dice Dockless, senza rastrelliera, così come si dice Cordless per senza filo, o Topless senza la parte superiore del costume eccetera eccetera. Qualcuno ha mai chiamato le signore che prendono la tintarella integrale «Free Floating Tits»? Ecco perché la cosa suonava strana, e come di moda oggi suscitava qualche sospettino. Puntualmente rafforzato in seguito dai fatti.
La contraddizione implosa
Il Dockless Bike Sharing alias Free Floating già da subito una cosa la diceva, nascosta dietro il Free: lo spostarsi del servizio dalla logica del trasporto pubblico a quella abbastanza fumosa sharing economy di libero mercato. Con tutte le sue medaglie e relativi rovesci, primo e più vistoso tra i quali è stato il manifestarsi degli effetti sul territorio, di questa assenza di rastrelliere e libera fluttuazione. Detto in pochissime parole: biciclette prelevate da cani e porci e buttate ovunque durante e dopo l’uso, esattamente nella versione più estrema che suggeriva quel concetto di galleggiante libertà. Ma come quasi sempre accede ai nostri tempi, anche cronisti, interpreti del disagio, decisori, testimoni diretti, sono sembrati in maggioranza orientarsi verso il filone assai in voga: «Ci vuole più senso civico, comunque individueremo e puniremo esemplarmente i trasgressori». Insomma tutto come più o meno previsto quando si tratta di assenza di regole o regole strampalate e pressoché impossibili da applicare. Si replica in sostanza quel che succede con gli incidenti stradali: tutto scaricato sul soggettivo laissez faire dei comportamenti individuali, senza nulla concedere alle colpe invece abbastanza vistose dello stesso regolatore, che si è dimenticato di porre le premesse perché quei comportamenti diventassero più corretti e coerenti (ad esempio impedendo con barriere fisiche che si andasse troppo forte, o si invadesse lo spazio riservato ad altri). Ma col Dockless Bike Sharing si è andati anche oltre, perché in pratica si è data una delega in bianco doppia: alla dimensione privata e alla sconosciuta dimensione virtuale.
Occhio non vede, Free Floating ancora meno
Torniamo al punto di partenza, a quel sospetto suscitato dalla denominazione libera e fluttuante, che ci distoglieva da quella tecnica autentica: Dockless, senza stazione fissa a cui attraccare come una nave alla sicurezza del molo in baia (la canzoncina di Otis Redding volutamente citata nel titolo, per via della perdita di tempo). Le nuove biciclette gestite dalla app globale di origine cinese sono prive di attracco fisico per il semplice motivo che ne possiedono uno virtuale, a cui è delegata la gestione, e che migliora le prestazioni smart delle app precedenti appunto virtualizzando anche quella funzione di rastrelliera. Ma lo fa adeguatamente? Parrebbe ovvio di no, dai risultati e dalle polemiche, identiche in tutte le città in cui è operativo il servizio, ma che guarda un po’ tutte si concentrano in un modo o nell’altro sul solito «senso civico» e non invece sull’altro fronte, tecnologico e organizzativo, delle responsabilità private, nonché di quelle pubbliche per aver delegato troppo al Free Floating Market. Il termine citato qui poco sopra, smart, fa riferimento specifico alla molto decantata ma pochissimo praticata smart city, il cui senso, al netto dalle relazioni ai convegni, dovrebbe poggiarsi su un virtuoso intreccio tra spazi fisici e flussi virtuali di informazioni, o meglio ancora sull’interazione tra i due aspetti, collegati in scambi reciproci costanti. Vettori di questi scambi sono certamente gli utenti, che comunicano informazioni attraverso il terminale del proprio smartphone usato per usare il servizio, ma anche la app stessa e soprattutto il sistema di rete e sensori sparsi per la città, in grado ad esempio di stabilire se un mezzo è stato lasciato in posizione corretta, in quell’infinito Dock Virtuale che sarebbe diventata in teoria la città. Ma queste cose si dovrebbero regolamentare nelle Convenzioni tra la pubblica amministrazione e gli operatori, mentre chissà perché la sfrenata fiducia nei poteri taumaturgici, della tecnologia e del libero mercato, sinora ha schivato il problema, scaricandolo sulla groppa dei più o meno volenterosi utenti. Ne vogliamo parlare?