Sia che si abbiano ottime intenzioni, sia che queste intenzioni vadano verso la classica fregatura, semplificare le cose con uno slogan comporta dei rischi, il primo dei quali è di esporsi alle interpretazioni più varie. Cosa che va bene quando l’obiettivo è raccattare consensi generici, molto meno bene specie in un’epoca in cui i giochetti con le parole sono diventati facilissimi, figuriamoci quando poi sono poche e già servite sul piatto fumante della massima confusione. La densità, ad esempio, che piace a molti (evidentemente a troppi) quando si parla di sviluppo urbano, che sarà mai? Pare ovvio anche così a prima vista, trattarsi di concetto buono da un lato a terrorizzare, dall’altro a entusiasmare, dipende da chi e come lo legge, a cosa lo applica, in che conteso lo colloca. E non si creda che partire da qui è prenderla troppo alla lontana, dato che in teoria già ci sarebbe il famoso presupposto della «lotta allo sprawl», del contenimento del consumo di suolo agricolo, del virtuoso percorso verso la città sostenibile che spreca meno risorse naturali. Balle, perché la famosa o famigerata densificazione che emerge da dietro questi apparentemente condivisi obiettivi, poi si invola verso tutto e il contrario di tutto. E allora diciamo, per provare ad essere un po’ più chiari, che la nostra lotta allo sprawl, per contenere il consumo di risorse e superfici, vorrebbe concentrare anziché disperdere crescita: questo, significa, densificare. Ma ci ricaschiamo di nuovo: cosa cresce, cosa si densifica?
Parole Parole Parole
Ergo le questioni si fanno assai più complesse, perché a crescere potrebbe essere la popolazione, oppure le attività economiche, oppure le relazioni e scambi, oppure semplicemente la quantità di edificato. Non c’è alcuna correlazione diretta tra queste variabili, perché solo per fare un esempio fra tanti, potrebbe benissimo darsi che l’aumento di popolazione trovi posto senza problemi nella quantità di edificato già disponibile (non cresce il numero dei nuclei familiari). Oppure al contrario cresce esclusivamente l’edificato senza alcun incremento di popolazione, perché aumenta la domanda di spazi pro capite da adibire alle più svariate funzioni. La medesima cosa vale poi naturalmente per la densità e il suo incremento tanto auspicato: addensiamo gli abitanti, quando al crescere della popolazione non consentiamo di realizzare nuovi spazi? Oppure addensiamo superfici e volumi edificati (sia che cresca, sia che non cresca la popolazione), ammucchiando piani in più sopra gli edifici esistenti, o allargando le piante dei fabbricati alla parte del lotto oggi non coperta? Infine ci sono anche le relazioni che si possono densificare o no, e farlo in un modo o in un altro ottenendo quel genere di tessuto che una volta era caratteristica della fitta trama urbana, ma che oggi le tecnologie della comunicazione rendono possibili addirittura sparpagliando a piacere insediamenti e abitanti, ma dotando tutti di adeguate apparecchiature. Si potrebbe continuare a lungo, ma bastano i pochi cenni riportati almeno a chiarire quanto certe idee di città basate esclusivamente sui rapporti fra il pieno dell’edilizia e il vuoto delle strade e piazze, non rendano affatto l’idea della densificazione come strumento per arginare lo sprawl, anzi spesso finiscano per essere controproducenti, spaventando chi teme un incubo urbanistico sovraffollato.
Oltre la manhattanizzazione
Del resto, anche restando dentro l’ambito puramente edilizio, ci sono infinite alternative alla pura contrapposizione fra la villettopoli suburbana o semirurale, e l’ammasso mastodontico e congestionato di certi nuclei centrali novecenteschi, quel genere di sovraffollamento edilizio che ha di fatto indotto chi poteva permetterselo a trasferirsi proprio nelle fasce suburbane e a produrre la dispersione che oggi vorremmo arginare. Si possono addensare da un punto di vista edilizio quartieri e settori urbani, con interventi che nulla hanno a che vedere con le selve di torri comprensibilmente temute da tanti, e parallelamente agire sugli altri fronti dell’addensamento per ottenere quel genere di vitalità urbana voluta, di cui la dispersione manca del tutto. Agendo da un lato sull’incremento dei volumi edificati per unità di superficie, ma anche dall’altro accrescendo l’intensità d’uso tendenziale dei medesimi spazi: appartamenti mediamente più piccoli ma per gli stessi nuclei familiari tipo, affiancati da spazio pubblico di elevata qualità, e spazi per le attività economiche e i servizi che funzionano a ciclo continuo, in una specie di logica di condivisione. Perché il dualismo city centrale terziarizzata delle torri, e sprawl disperso delle casette, collegati dalla rete delle superstrade, era innanzitutto spreco di spazio-tempo: volumi usati solo per una frazione della giornata e poi lasciati vuoti per il resto, mentre gli occupanti andavano a riempire un contenitore diverso e remoto. In questo senso, la filosofia della densificazione finirebbe per convergere virtuosamente sia su quella della multifunzionalità (a scala di edificio, di quartiere), sia su quella tanto di moda oggi dello sharing, applicato in modo esteso ben oltre qualche spazio comune a ufficio o veicolo a noleggio breve.
Riferimenti:
Kim Dovey, Elek Pafka, Urban density matters – but what does it mean? The Conversation, 20 maggio 2016