Il modo brutto o bello in cui sono fatte le nostre città è merito o colpa di chi le pensa. Samuel Stein col suo Capital City: Gentrification and the Real Estate State, si sofferma sulle colpe, e accusa urbanisti e amministratori di essere interpreti acritici della volontà del capitalismo. Sono in molti a considerarsi invece interpreti del puro buon senso, ma a parere di Stein fanno solo danni «trasformando quello che è lo spazio di tutti in profitto per pochi». L’urbanistica pubblica è legata a doppio filo agli interessi immobiliari, specie in questo momento storico in cui il capitale privato si sposta dalle attività produttive agli investimenti urbani. Ne risulta una sorta di «Stato Immobiliare» che sostiene tale passaggio, uno Stato sovrano non soltanto negli USA ma in tutto il mondo. Stein documenta come il capitale immobiliare «oggi pesi per il 60% della ricchezza mondiale, di cui la maggior parte – il 75% – investita in abitazioni».
Una tendenza che non è certo cominciata ieri, il cui inizio si può datare addirittura alla presidenza di Franklin Roosevelt che con le sue leggi del New Deal istituisce la Federal Housing Administration, a standardizzare, regolamentare, assicurare i mutui per la casa. Con intenzioni progressiste la FHA adotta però le «buone pratiche» del settore immobiliare, facendo diventare normalità una politica nazionale delle abitazioni fatta di suburbanizzazione e segregazione; Cole tempo ci spiega Stein «I quartieri dei neri, degli immigrati, quelli misti, vengono tagliati fuori dal sistema di finanziamento». Gli investimenti immobiliari conformano i programmi federali di trasformazione e rinnovo urbano: «L’investimento municipale segue quello immobiliare» man mano diventa fonte primaria di accumulazione di capitale. Quindi è il potere pubblico che spinge i processi di gentrification, tanto quanto quello privato dei costruttori, e ciò nonostante tutti i tentativi di contrattare qualche vantaggio. Piani di rivitalizzazione di un quartiere si traducono in espulsioni di abitanti e devastazione sociale per le classi lavoratrici. E sono gli urbanisti, quando non capiscono che il suolo si sta trasformando in pura merce, a promuoverci sopra spesa pubblica che sostiene la speculazione privata.
Seguendo in qualche misura il tipo di critiche conservatrici all’interferenza pubblica nei meccanismi di libero mercato, Stein stigmatizza poi come inefficaci gli incentivi alla casa economica in termini di vantaggi ai privati, dall’offrire spazi collettivi di proprietà privata o piani in più, o anche le quote di abitazioni convenzionate nei nuovi interventi di mercato. Individua come colpevole l’economia capitalista, non i burocrati progressisti, dato che chi decide le trasformazioni dà per scontato che per avere dei risultati occorre garantire dei vantaggi. Ne deriva gentrification, da incremento di valore e affitti di tutte le superfici nella zona di quelli privati sussidiati, su cui verranno realizzati edifici di prezzo maggiore. L’Autore dedica un paio di pagine a una serie di ricerche secondo cui non necessariamente la gentrification danneggia i più poveri né genera espulsione, senza contestarle. Ridicolizza invece tutta quella «ala dolente» di costruttori che pur dicendo di temerla, la gentrification, proseguono con le medesime pratiche.
Due capitoli molto documentati dimostrano come nelle politiche urbane tutto lo sviluppo, quindi tutto il potere, sia sempre nelle stesse mani: «In gran parte delle città comanda l’immobiliare». A New York emerge la strenua lotta per le case economiche, nonché la vicenda del costruttore di lusso Donald Trump che si è conquistato la presidenza: «prodotto e incarnazione dell’ascesa globale del capitale immobiliare». Ma sul Che Fare? si arriva alla parte più debole di Capital City: il futuro si prospetta molto vago. Certo tra i radicali come si definisce l’Autore, non c’è affatto convergenza «su cosa sia esattamente una buona città». Gli urbanisti progressisti capiscono assai bene cosa non va, ma non hanno la bacchetta magica per far sparire lo Stato Immobiliare.
La parte più articolata dedicata a «per cosa stiamo lottando» racconta cose già viste sentite e sperimentate, dagli incentivi per case economiche in quartieri ricchi bianchi anziché poveri o abitati da minoranze, oppure l’allargamento dei fitti controllati, o ancora i community land trust. Per superare le opposizioni a queste strategie ci vorrebbe un movimento politico organizzato, che «lotti per una città anticapitalista». Ovvero niente da fare sul breve termine, e Capital City alla fine si rivela una esercitazione accademica sui meccanismi che inducono e sostengono gentrification, senza dirci nulla su come si possano usare tutte queste conoscenze.
da Counterpunch, 10 giugno 2019 – titolo originale: How Urban Planners Promote Gentrification – Traduzione di Fabrizio Bottini