Prati in fiore, vette innevate, foreste pluviali, paludi tenebrose, abissi oceanici, o semplicemente classici boschetti coi funghi, gli scoiattoli: chi mai, di fronte al termine «sostenibilità», non evoca immediatamente e automaticamente immagini e concetti del genere? Perché la stessa origine del concetto rinvia alla natura, alle trasformazioni indotte nei secoli (diciamo nei secoli per semplificare) dalle attività umane, e quindi più o meno all’idea che queste attività umane si debbano dare una regolata, smettere di essere così pervasive e impattanti, ma proprio qui casca l’asino: come e con che strumenti, arrivare all’obiettivo? Casca l’asino, dato che questi automatismi, il chiedersi sempre «dove stiamo andando» prevalentemente in termini quantitativi, quanta natura si cancella un tanto al quintale, mette in secondo piano l’altro essenziale aspetto della qualità: cosa trasformiamo e come lo trasformiamo, impattando in modo più o meno sostenibile. In fondo si tratta dell’antica dicotomia città-campagna, che non è ovviamente così semplice come nell’icnografia classica coi bastioni murati, la selva oscura fuori, e dentro il mitico buon governo dei borghigiani. Sappiamo benissimo quante gradazioni intermedie esistono, e quanto faccia male non tenerne conto.
I cerchi concentrici
Se gli utopisti cercavano sempre una nuova frontiera più in là per le loro sperimentazioni socio-ambientali, negli anni più recenti si è almeno capito che, per così dire, la frontiera prima o poi arriva all’oceano e più in là non si può andare: meglio iniziare a fare i conti con lo spazio e le risorse finite. Il che ci riporta, per certi versi, a quell’immagine della città murata classica: dentro le trasformazioni («ben governate») fuori il non-impatto, il recupero della biodiversità, in sostanza il famoso sviluppo sostenibile. Ma non è affatto così, come ci hanno spiegato infiniti studi sin dai primi barlumi novecenteschi della cosiddetta riqualificazione urbana post-industriale. Proprio quel prefisso «post» appare una cortina fumogena, un falso punto a capo, da affrontare in tutta la sua natura ideologica e fuorviante. Lo sviluppo industriale e il suo strascico sociale, economico, gli impatti ambientali, spessissimo vengono solo esportati fuori, dal mondo che si autodefinisce «post», non davvero superati. E se questo appare spudoratamente ovvio con le delocalizzazioni di lungo raggio, con la cosiddetta globalizzazione dei processi (che toccano questioni storiche e politiche troppo intricate per stare in queste note, ovviamente), più sottilmente il meccanismo si replica anche a scala tangibile di regioni urbane, esattamente come accadeva nel ‘900 col suburbio affluente e il decentramento pianificato delle attività produttive. Solo, se un tempo il motore immobile di tutto era il degrado urbano, oggi esso prende le forme di una falsa o troppo parziale riqualificazione, che espelle attività a gruppi sociali anziché includere, che allarga diluendole le contraddizioni invece di risolverle.
I consumatori coatti di suolo
Curioso, che proprio le città diventate simbolo di crescita sostenibile, resilienza, bassi impatti, di fatto si rivelino a una lettura un po’ più ampia dei processi, delle vere e proprie fabbriche di degrado allargato. Il meccanismo è quello del resto antichissimo della sostituzione sociale e funzionale: la riqualificazione affidata al libero mercato, premia un gruppo e ne penalizza un altro, che ovviamente non evapora, ma si va a collocare altrove, in genere non lontanissimo. Nella pratica, la gentrification, l’agricoltura urbana di élite, la prevalenza delle nuove professioni qualificate e qualificanti, gli spazi per gruppi sociali diversi dalla famiglia tradizionale, provocano un travaso che è anche in parte uno scambio. Per esempio le fasce suburbane si svuotano dei ceti medi (travasati verso il centro riqualificato) e si riempiono di redditi inferiori e culture tradizionali di consumo, mobilità, residenza. Al tempo stesso, la massa essendo per definizione più corposa dell’élite, aumentano gli impatti anche indipendentemente dalla crescita pro capite, e qui arriviamo davvero ad assurdi, come nel caso della famosa Friburgo. Dove, a fronte dei famosi interventi sulla mobilità dolce o l’edilizia a basse emissioni o le energie rinnovabili nel nucleo interno, mentre nell’area metropolitana sempre più ci si muove in auto, vanificando a dir poco ogni eventuale progresso dentro la città. In altre parole, come sempre accaduto, i «costi sociali» di trasformazioni urbane poco accorte, nonostante le ottime intenzioni, si fanno sentire gravi e abbastanza alla svelta. C’è una soluzione? Difficile dirlo, così in due parole, anche se al solito l’approccio territoriale integrato una indicazione la dà: provare a osservare i processi secondo un bacino che ne contenga quantomeno tutte le componenti fondamentali. La regione alimentare e quella pendolare potrebbero rappresentare, approssimativamente, un modello di partenza.
Riferimenti:
David Wachsmuth, Daniel Aldana Cohen, Hillary Angelo, Expand the frontiers of urban sustainability, Nature, 23 agosto 2016