Se proprio dobbiamo cercare una differenza davvero sostanziale, fra la città tradizionale e quella rivoluzionata dall’industria, sta certamente nell’uso della tecnologia per ribaltare i rapporti fra spazio pubblico e privato. E per un motivo abbastanza semplice: nella città vecchia non si poteva fare altrimenti, a rischio di crepare, e tutto veniva su in modo diciamo così spontaneo, ovvero guidato da sensazioni ed esperienza pratica. Le abitazioni, o abituri che dir si voglia, fornivano (con la sporadica eccezione di quelle dei ricchi e potenti, gente assai meno diffusa di oggi) forse addirittura meno del minimo indispensabile, giusto un rifugio contro la pioggia, il freddo, le aggressioni. Per vivere nel vero senso della parola era indispensabile una enorme quantità di spazio aperto, pubblico, liberamente accessibile, che fossero pubbliche, vie, piazze o cortili in forma di piazza messi a rete, verde urbano in varie forme, senza contare gli ambienti aperti extra moenia, a cui chiunque poteva arrivare senza troppi problemi, viste le brevi distanze da cuore di qualunque complesso urbano alle sue mura. Poi con le infinite trovate tecnologiche messe in campo dalla modernizzazione (dal vetro in lastra, ai grandi ambienti coperti, al riscaldamento e aerazione, a tutte le reti tecniche) in città, tutto ciò che prima era obbligato a svolgersi nello spazio pubblico si ritira nelle private stanze.
La separazione tra spazi e flussi
Tra i tanti elementi rivoluzionari fissati dal piano a griglia di Manhattan 1811, non va dimenticata la programmatica separazione tra spazi e flussi: ambienti interni privati, potenzialmente tutti edificabili e «chiusi», dove si svolgono le attività urbane nel loro complesso, residenziali, economiche, di scambio e relazione; ambiti esterni lineari su cui incanalare le comunicazioni fra le cellule separate, garantendo unitarietà e vitalità all’insieme. Significativo, come la virtuale cancellazione da questo sistema dello spazio pubblico in ogni sua forma, si rivelerà nel breve volgere di alcuni anni la più grave lacuna concettuale, al punto da richiedere quella curiosa discontinuità della scacchiera rappresentata dal Central Park: una specie di caricaturale «massa critica di spazio pubblico» a sostituire, peraltro in modo inadeguato, quanto sottratto alla collettività dal trionfo del libero mercato. L’intuizione di certa urbanistica razionalista, che allarga infinitamente la tabula rasa del verde urbano negli isolati, impilando i volumi edificati in verticale, va nella medesima direzione del recupero di equilibrio, ma risulta debole perché dell’impianto originario accetta pur sempre quella distinzione netta tra spazio e flussi. Un passo in più sembra farlo l’idea della neighborhood unit (non a caso di origine sociologica e non spaziale) quando i flussi prova invece a incorporarli fin dove possibile, escludendo quelli più prettamente «economici» all’esterno. Ma l’invadenza del mezzo a motore privato, «familiare» per eccellenza, scardinerà anche questo impianto di camera di compensazione sociale.
Il superblocco alla fine dell’universo
La versione suburbana più coerente dell’isolato rettangolare originario della griglia cittadina, è a ben vedere la gated community, forma di privatizzazione al tempo stesso estrema e attenuata, se non altro perché ripesca pur in modo odioso ed esclusivo certe intuizioni della neighborhood unit. Oltre i cancelli e le telecamere a circuito chiuso della security in qualche modo, vuoi per la garanzia di omogeneità sociale, vuoi perché quelle forme davvero corrispondono a una spontanea domanda di andare oltre la dicotomia, i flussi ricominciano a mescolarsi almeno in parte, e l’alloggio privato un po’ smette di allargarsi all’infinito. Contemporaneamente, il medesimo modello recintato, se trapiantato dentro la griglia urbana dal mercato immobiliare, produce quelle aberrazioni da superblocco che ha così ben raccontato Anna Minton nel suo Ground Control. Con un effetto del tutto contrario a quello del quartiere chiuso suburbano, qui si esclude anziché recuperare, e anche nei casi in cui apparentemente lo spazio resta identico, come negli shopping mall urbani dei grandi operatori (dove l’unificazione di più isolati è solo virtuale, le strade restano pubbliche), ma gli effetti di desertificazione sociale su quanto viene a trovarsi esterno al perimetro parlano chiaro rispetto al processo di brutale esclusione. Del resto lo stesso termine superblocco, sciaguratamente coniato dalla solita megalomane cultura architettonica convinta di poter controllare l’incontrollabile, già la raccontava, la voglia di scavalcare anche i termini estremi della privatizzazione, della massa critica di mercato, fissati dall’antica griglia di Manhattan. E arriviamo ai nostri giorni, alla condizione post-urbana della città estesa all’intero pianeta, che muove i primi passi nella megalopoli asiatiche in cui forse per la prima volta si accostano così brutalmente, i due modelli dell’antico e del postmoderno, del tessuto permeabile tradizionale e del superblocco impenetrabile ed escludente. Facendoci tornare alla considerazione di partenza, e già non è poco.
Riferimenti:
Aaron Betsky, We can’t stop superblocks or sprawl, but we have to make space for life in between, Dezeen, 20 settembre 2016