Spazio pubblico: principi e fruibilità

C’è una bella differenza tra le affermazioni di principio e ciò che si tocca effettivamente con mano. Non che le affermazioni teoriche siano senza valore, anzi quei principi di carattere generale stanno poi alla base di ogni azione concreta, ne costituiscono la qualità preliminare, ma anche nel formularle, queste basi essenziali, si deve tener conto del fatto che poi il cerchio si chiude, si deve necessariamente chiudere, dentro spazi, comportamenti, relazioni vere, che quella qualità la riproducano coerentemente. Con lo spazio pubblico della città, questa ambivalenza salta immediatamente agli occhi nel mescolarsi spesso piuttosto turbinoso e inestricabile di aspetti proprietari (perché non è detto che la proprietà pubblica o privata sia indifferente, in un senso o nell’altro, sul resto delle qualità), di accessibilità allargata, di visibilità, di fruibilità nei vari aspetti e rispetto a vari soggetti. Ci può essere uno spazio di proprietà pubblica e qualificato propriamente come tale, che non svolge affatto quel ruolo né potrebbe svolgerlo, perché manca in tutto o in parte degli altri requisiti, e pur esistendo concretamente, solido e tangibile, resta invece sospeso nell’aria come pura affermazione teorica di principio. Mentre al contrario uno spazio privato grazie all’incrocio di regole, accordi, contesto, iniziative varie, finisce per essere assai più concretamente pubblico, di fatto e anche di diritto, grazie all’aver preso in considerazione quelle variabili per quel che sono.

La rete corrente degli ambienti aperti

Nella città tradizionale, quella non ancora interessata dalla pervasività del traffico veicolare, la gran parte dei presupposti di uno spazio pubblico efficiente ed efficace, luogo di interazione e simbolo di collettività, oltre a tante altre cose, si riassume nel non essere privatizzabile, e nella qualità estetica di massima. Ma basta l’introduzione dei mezzi di trasporto meccanici a sconvolgere l’equilibrio, perché anche fermi restando tutti gli altri fattori assistiamo a una drastica riduzione quantitativa di quello spazio (le strade ridotte a corsie, le piazze ridotte a nodi-svincoli), a una sua frammentazione, a una diminuzione della sicurezza, alla divisione netta fra verde e altri ambiti aperti. Questo sia detto senza alcuna polemica «ambientalista» (pur legittima da altri punti di vista) sui trasporti motorizzati e l’inquinamento, o l’impermeabilizzazione dei suoli, ma solo e soltanto in relazione al fatto che uno spazio pubblico dato per scontato, come quello di vie e piazze, che su un ideale retinatura delle funzioni urbane si classifica assolutamente come tale, poi perde le proprie qualità fondamentali. E come metodo, questo esempio di interferenza tanto forte da cancellare nei fatti una entità di principio, ne introduce infinite altre, non ultima quella climatica, e senza alcun rapporto col «cambiamento climatico» da innalzamento delle temperature medie planetarie. Perché accade che lo spazio pubblico urbano, come ci insegnano anche certe storie delle architetture tradizionali e vernacolari locali, per essere tale al 100% deve inserirsi dentro la geografia e il clima, altrimenti non è.

Vivibilità e comodità

Come ci ha raccontato William H. Whyte in alcune delle sue vignette filmate sui tic comportamentali nelle strade di New York, l’uomo della strada ha dei gusti architettonici ben precisi, che possono o meno coincidere con quelli della critica più raffinata: là dove questa critica si esercita sul gioco sapiente di pieni e vuoti caratteristico dell’architettura e dell’urbanistica, l’abitante blasé li valuta prevalentemente nella dimensione orizzontale, e a partire dalla dimensione delle proprie natiche. Detto in altre parole, uno spazio pubblico sarà tanto più valido quanto più riesce ad equilibrare stasi, flussi, sosta e movimento, offrendo posti a sedere a sufficienza, vuoi formalizzati nelle classiche panchine (purché abbastanza vivibili), vuoi informali come i bordi di una vasca, una mensola sporgente ma abbastanza accogliente, e via di questo passo. La medesima cosa si può dire con il riparo dalle intemperie, perché se la città nasce esattamente dall’accostare ambiti pubblici e privati, in modo tale da «fornire un tetto» alle varie attività, è anche vero che le qualità urbane poi si calcolano proporzionalmente alle caratteristiche specifiche, di quel tetto o riparo. Gli scrosci di pioggia, le lastre di ghiaccio magari sopra quelle comodissime panchine per settimane e mesi, le raffiche di vento che si convogliano nella piazza mal collocata in un canyon di edifici, senza tener conto della meteorologia locale, possono fare la differenza tra la disponibilità buona o pessima di spazio pubblico di relazione. Giocando un ruolo identico o magari ancor più determinante e grave, dei comportamenti antisociali o criminali, dell’invasione di veicoli motorizzati, della privatizzazione e frammentazione. Il documento allegato prova sistematicamente, e a partire dal dettaglio, ad affrontare uno solo, di questi fattori di disturbo: il freddo del Nord. Ma il metodo, come si è provato a suggerire in questi paragrafi di presentazione, può essere allargato ad altri.

Riferimenti:
City of Edmonton (Canada), Winter City, linee guida per la progettazione di spazi pubblici all’aperto comodamente fruibili nei mesi invernali, bozza di delibera (scarica direttamente il pdf dal sito municipale)

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