In principio era il concetto di crescita infinita ai suoi albori, unito alla meccanica specializzazione: per così dire, ci si allargava e ci si restringeva allo stesso tempo. Lo stabilimento o ufficio amministrativo più grande, per produrre più pezze di tela, barre di ferro, pratiche e pacchi di fogli stampati, aveva bisogno di spazio, e quello spazio si doveva automaticamente cercare «un po’ più in là». Il medesimo luogo, in parallelo, perdeva concettualmente dei pezzi, dedicandosi in esclusiva a certe pezze di tela, certi tipi di barre di ferro, certe pratiche e servizi. Per le altre, erano disponibili altri spazi, contenitori, personale, e all’inizio questo processo era chiamato virtuosamente «decentramento», a evocare ariosità, salute, benessere, visto che il problema pareva giusto quello di una angusta soffocante «congestione». Per un intero secolo, pensatori e utopisti si erano esercitati su questo tema della nuova frontiera di uscita dallo spazio angusto (mentale e fisico) tradizionale, e finalmente una innovazione tecnico-sociale pareva rispondere a quasi ogni difficoltà incontrata sul terreno pratico: l’automobilismo di massa. Che cancellando insieme alle telecomunicazioni l’idea stessa di distanza, poneva le basi di quanto sarebbe stato poi ribattezzato lo sterminato Tecnoburbio.
Matrix
E al centro di tutto questo azzeramento virtuale dello spazio e delle distanze, vera e propria torre d’avorio della modernità, stava il concetto di campus, luogo di ultraconcentrazione mentale degli eletti che sfornava puro pensiero, per spalancare ancora nuovi orizzonti di crescita ed espansione per il resto del mondo. Da lì, un po’ come da una sorta di computer centrale come ci si immagina qualunque organizzazione gerarchica, emanava la ragnatela di comando strategico per il mondo, i mercati, il futuro. Che si trattasse di una struttura universitaria o legata alle imprese industriali, il campus ci è da sempre stato presentato secondo i medesimi criteri: cittadella esclusiva autoreclusa, anche se amichevolmente aperta, col verde a fungere sia da sfondo rilassante che da elastica barriera di reclusione, dentro cui si muoveva l’élite del pensiero creativo. Ma già agli albori, di quella che pareva l’alba dell’utopia, una versione migliorata di medioevo monastico, senza nessuno dei rovesci della medaglia draghi e barbari inclusi, qualche sociologo e studioso notava vistose crepe: disaffezione, stress da isolamento, e addirittura (udite udite) scarsa propensione a produrre pensiero, o almeno qualità innovativa nettamente inferiore a chi continuava a meditare e ricercare «congestionato» in città. Piccoli sintomi, all’inizio: il campus di impresa giusto un filino meno innovativo di quello universitario, era solo la dimostrazione dei prevalere naturale del pubblico rispetto al privato? Macché: c’era ben altro.
Sprawl di cervelli
Accadeva, e ancora accade semplicemente, che un ambiente chiuso e autoreferenziale, così come tende a diventare tutto ciò che si isola rispetto al resto della società, perde in vitalità complessiva e quindi proprio in ciò che dovrebbe esprimere al massimo grado. Se per il quartiere suburbano residenziale monoclasse dormitorio, questo isolamento poteva tradursi in stress, se per il centro commerciale introverso diventava occasione di sbilanciare l’offerta o incrementare gli aspetti pubblicitari e identitari, nel caso dello office park direzionale, e peggio ancora del campus di ricerca, la crisi tocca un nervo vitale, quello della sua fondamentale ragione d’essere produttiva. Un centro di innovazione che non riesce a innovare, perché ha perduto i contatti con la società e il mondo con cui dovrebbe interagire, deve recuperarli in fretta, e il modo più immediato è quello di tornare a immergersi a strettissimo contatto. Da qui, tutte le tendenze, a partire dagli ultimi scorci del ‘900 sino ad oggi, al ricentraggio dei quartieri generali di riflessione di tante imprese, a volte si dice a «inseguire la propria materia prima», ovvero la creative class a cui lo sprawl suburbano non è mai andato troppo a genio. Basta così? Torniamo alla città tradizionale dopo mezzo secolo di ricreazione a piedi nudi nei prati dell’ex Nuova Frontiera suburbana? Molto probabilmente no, ma la lezione da imparare è che schematizzando troppo, schiacciando esseri umani e natura secondo qualche schema meccanico di breve respiro e troppo semplificato, si rischiano grossi guai. Evitiamoli, per quanto possibile.
Riferimenti:
– AA.VV. Rethinking the corporate campus, SPUR, San Francisco, aprile 2017
– Per la citata definizione di Tecnoburbio, si veda qui su questo sito l’estratto tradotto da The Bourgeois Utopia di Robert Fishman