L’incredibile velocità del processo di urbanizzazione a scala planetaria propone due grandi prospettive di osservazione, studio e approfondimento, intervento e grandi politiche. Una prima prospettiva mira a ridiscutere gli storici equilibri città campagna non tanto sul versante quantitativo o qualitativo, caro per intenderci a tutte le utopie più o meno antiurbane o decentratrici o naturalistiche, ma nei termini funzionali e di verificabile sostenibilità ambientale. La seconda grande prospettiva, complementare alla prima ma del tutto intra moenia, riguarda l’idea stessa di città, le qualità intrinseche, le aspirazioni dei vari soggetti, e si articola poi a livelli di specifiche politiche negli standard spaziali auspicabili, negli obiettivi sociali ed economici, negli auspici di benessere e welfare. In questa cornice si evolvono (un processo continuo che difficilmente consegue risultati definitivi) i criteri di progettazione fisica degli spazi pubblici, e alcuni requisiti minimi anche per quelli privati, specie nella relazione ai primi. Emblematica la questione socio-sanitaria, che proprio nell’antica logica di equilibrio città-campagna trovava sostanzialmente sfogo in una logica di origine antiurbana: la città è comunque un male, la si attenui con dosi di anticittà. Per esempio più verde più vicino sempre uguale a bene, valore, meno verde più lontano disvalore, discriminazione. Le conoscenze scientifiche oggi disponibili consentirebbero di dare senso diverso anche a una componente essenziale della città come il verde, e a conferirgli attributi ancora più specificamente «urbani» rispetto alla tradizione del landscape, enfatizzandone invece la funzione socio-sanitaria grazie a una valutazione qualitativa e quantitativa degli effetti.
La ricetta medica di assunzione del verde
Fermo restando (almeno secondo le conoscenze attuali) il ruolo dello «standard verde» in quanto spazio pubblico, coi suoi caratteri sociali e il suo valore ambientale-climatico, a cui oggi si potrebbe aggiungere quello abbastanza facilmente valutabile della biodiversità e del contributo alimentare, resta aperto quello fondamentale originario per la salute individuale e collettiva. Il verde urbano nasce infatti come vero e proprio polo sanitario nel momento in cui l’esplosione urbana e delle densità abitative determinate dalla rivoluzione industriale allontana gli spazi aperti tradizionali agricoli e naturali extraurbani. Paradigmatica la vicenda del Central Park, inserito nel Piano Strade di Manhattan solo dopo due generazioni e a seguito delle statistiche sanitarie, contraddicendo le premesse originarie del 1811 che ritenevano sufficientemente salubri gli affacci fluviali dell’isola. Quello che cambia oggi, dopo tanti anni di evoluzione scientifica nei vari ambiti disciplinari, è la propensione crescente a considerare il contatto con la natura come vera e propria terapia medica controllata, in pratica «pillole di natura», quantificate e monitorate negli effetti psicofisiologici. Ciò significa che anche l’offerta di questa medicina può e deve allinearsi meglio alla precisa domanda, così come i primi parchi urbani moderni iniziavano a conformarsi per rispondere ad esigenze sociali più quantificabili.
Potenzialità e rischi
Come influisce sulla progettazione e ruolo generale del verde questa per ora ancora vaga medicalizzazione? Innanzitutto incrementandone il valore relativo, ma certamente modificando il senso dello standard, superficie, distanze, distribuzione, qualità intrinseca della composizione ecologica, integrazione con le reti pubblico private. Certamente come accade a qualunque presidio sanitario propriamente detto, anche per il verde si pone immediatamente (diciamo pure ancora, viste le vicende recenti e meno recenti) il problema del rapporto pubblico/privato, specie in rapporto al tipo di utenza e alla tipologia incrociata di uso: il fatto che un certo tempo passato da certi soggetti in un determinato spazio abbia un precisissimo valore terapeutico, non trasforma quello spazio-tempo in proprietà esclusiva, né il calcolo del servizio e del ruolo urbano può sbilanciarsi oltre un certo limite verso quell’inedita funzione, solo perché considerata di altissimo valore. Molto probabilmente, come accade per tutte le cose urbane e a maggior ragione nel duplice mutamento di paradigma citato in apertura di queste note, il fatto di «ripensare lo standard a verde» in termini ancora tutti da definire, ma certamente meglio quantificabili man mano si sommano le acquisizioni scientifiche, dipende da nuovi equilibri del sapere. Ovvero, se poniamo una parte delle scienze sanitarie ritiene (come ben spiegato nell’articolo sperimentale allegato) di poter valutare una «funzione pillola» del verde urbano, si tratta di attendere anche complementari valutazioni di altri campi, analoghi e diversi. Come si diceva sopra, deve restare ferma l’idea di complessità della funzione, molto difficilmente riducibile a un solo aspetto, ma anzi probabilmente portatrice di molti altri nuovi man mano altri studi si aggiungeranno a quelli esistenti.
Riferimenti:
MaryCarol R. Hunter, Brenda W. Gillespie, Sophie Yu-Pu Chen, Urban Nature Experiences Reduce Stress in the Context of Daily Life Based on Salivary Biomarkers, Frontiers in Psycology, 4 aprile 2019