Ricordo ancora con un un certo choc, il brevissimo ma illuminante scambio di battute con un giovane architetto che svolgeva attività didattiche in una prestigiosa università europea. Alla mia osservazione, pur molto diplomatica perché avveniva in presenza degli studenti, sulla natura di sprawl suburbano di un’area di esercitazione di progetto, la signora (di una signora architetto, si trattava) rispondeva con l’aria di chi la sa lunga, anzi lunghissima: «macché sprawl, io l’ho visto in lungo e in largo lo sprawl, e non è mica fatto così». Si riferiva, la mia interlocutrice, a caratteri secondo lei assolutamente fondamentali e discriminanti, come lo stile architettonico delle case, l’organizzazione planimetrica stradale, i giardini, indicandoli uno per uno con sorrisetto vagamente sarcastico. Immagino che sotto sotto pensasse di avere a che fare con qualche genere di ominide senza cervello, del tutto incapace di cogliere anche segnali chiarissimi di assenza del vero sprawl suburbano, dai modelli delle automobili, ai cassonetti dell’immondizia, a quelle insegne che si intravedevano sullo sfondo. Anche senza approfondire sul valore culturale e urbanistico di una simile «didattica universitaria» sui poveri studenti, e sorvolando sulla specificità dell’approccio spropositatamente formalista e intuitivo alla «città» tipico di certe culture progettuali: questa sarcastica allegra altera ignoranza era solo una delle tante espressioni di un atteggiamento molto, molto diffuso.
Cosa è sprawl e cosa non lo è
I primi osservatori di madrelingua inglese a individuare il fenomeno della dispersione urbana negli anni ’30, su una sponda o l’altra dell’Atlantico, gli appiccicarono quella parolaccia sguaiata, sprawl appunto, per via del generale disordine che esprimeva, un tipo di disordine molto propenso a sprecare risorse, come diremmo al giorno d’oggi con qualche decennio in più di esperienza. Pur assai necessariamente intuitivi e imprecisi, quei primi osservatori non potevano certo conoscere i criteri precisi della sarcastica architetta sapientona e dei suoi simili, ovvero che per fare uno sprawl certificato ci vogliono certi villini modello ranch o analogo, un prato con basso steccato bianco o senza recinzione sul fronte e un cortiletto più informale sul retro, una certa organizzazione spaziale dei gruppi che dall’alto ricorda un baccello o una foglia, e via di questo passo. Non è un caso se questa idea di disordine poi porta spesso anche a chiamare così, impropriamente sprawl, qualunque espansione urbana o insediamento variamente disordinato, anche quando ha nell’insieme caratteri urbani innegabili. Il giudizio intuitivo ed estetizzante, per quanto sintomatico, andrebbe sempre però accompagnato da qualche riflessione un po’ più sistematica: di cosa stiamo parlando? Di qualcosa che non ci piace, certo, ma perché? Sta sostanzialmente qui, nella risposta al perché, tutto l’interesse dei non progettisti, esseri umani correnti, per la faccenda.
Cosa individuare, e cosa rammendare
Più o meno contemporaneamente a quell’incontro con la progettista intuitiva che la sapeva lunga ma solo dei fatti suoi, l’Agenzia europea per l’ambiente pubblicava un rapporto dal titolo allarmistico: Sprawl, una sfida ignorata. E ignorata proprio per lo stesso, identico motivo: la dispersione c’è, cresce, si afferma in contesti diversissimi in tutto il pianeta (contribuendo direttamente e indirettamente a varie gravissime crisi), ma non viene riconosciuta come tale, e trattata, come tale. L’approccio intuitivo o estetizzante fa sì che spuntino i cosiddetti «rammendatori di città», che di quel fenomeno sanno vedere esclusivamente squilibri formali, magari un «eccesso di vuoti», che si precipitano a proporre di riempire, aggravando il problema vero, che non è affatto estetico. C’è poi un altro – e assai più diffuso – approccio tutto ideologico, che ha fatto dell’evitare la parola la propria strategia centrale. Spesso è praticato da approcci, significativamente, del tutto estranei alle discipline ambientali, dall’economia alla politica alla speculazione, e si sostanzia nel trovare definizioni inedite, da legare al medesimo fenomeno dello sprawl individuato come «motore di sviluppo», ponendo così in ombra o in secondo e terzo piano gli impatti negativi. Nascono così le città diffuse, quelle infinite, i territori smart, le smaterializzazioni retoriche appoggiate però a solide infrastrutture, identiche (nella sostanza se non nella forma) a quelle che hanno sotteso e sottendono lo sprawl suburbano Doc. Non parliamo poi della dispersione come «fenomeno identitario», ultima frontiera ideologica, che anche a fronte del crollo di credibilità in patria, trova sollievo nel notare che altre, infinitamente più numerose e pericolose popolazioni, stanno prendendo il testimone. Per continuare a far danni a loro insaputa. Fermateli, magari con l’aiuto di un bel vocabolario!
Riferimenti:
Robert Montenegro, The American Suburb Finds a Second Life in China, Big Think, 23 gennaio 2016
Bell’articolo non ho capito l’ultima parte. Cosa intendi per “Non parliamo poi della dispersione come «fenomeno identitario», ultima frontiera ideologica, che anche a fronte del crollo di credibilità in patria, trova sollievo nel notare che altre, infinitamente più numerose e pericolose popolazioni, stanno prendendo il testimone”? Grazie!