Sviluppisti e masochisti sul territorio

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Stezzano (Bg) – Foto F. Bottini

C’è una cosa che, sotto sotto, lega in un rapporto sadomasochista vittime e carnefici di quanto si chiama via via sviluppo del territorio, cementificazione, emergenza casa e via di questo passo, a seconda delle prospettive. E che, qui sta il punto, rende assai meno efficaci le pur benintenzionate battaglie ambientaliste, locali e meno locali. Questo lo sanno benissimo autori di libri e giornalisti favorevoli (a propria insaputa o no) allo sprawl e consumo di suolo e risorse. Quando si comunica, a ciò che il senso comune considera ovvio non bisogna arrivarci di colpo, perché la gente se ne accorge, reagisce d’istinto a quei concetti chiave che fanno scattare il rifiuto. Bisogna evitare l’effetto colpo di fulmine sulla via di Damasco, sempre rischioso, e portare via via l’interlocutore/lettore/spettatore a capire che quella cosa altro non è che il mondo guardato da una prospettiva giusta. Tutto può apparirci solo sprawl orrendo, peccaminoso, riprovevole, che ci porterà alla dannazione, salvo quando ci rendiamo conto di abitarci dentro, e pure abbastanza comodamente, di averci dentro dei ricordi come nelle foto (taroccate) dei replicanti di Blade Runner. Quando vedendone dalla parte giusta, illuminate nel modo giusto, alcune tracce, iniziamo a provare una sensazione domestica: casa. Il demonio tentatore fa così, sa portarvi in cima alla mediatica collinetta, e voi al massimo facendo la figura da fanatico potete continuare a chiudere gli occhi, a stramaledirlo urlando e sbavando, ma di sicuro non salverete gli altri, meno caparbi di voi, e non porterete a casa nessun risultato utile.

Dall’alto della metaforica collinetta, il demonio del senso comune vi mostra la realtà, o perlomeno la sua realtà che così coincide con la vostra. Da lì, vedete voi e la vostra famiglia nelle normali attività di ogni giorno, col sole del pomeriggio e quei magnifici tramonti dietro l’acero in giardino la sera, con l’odore dell’erba falciata che sale dal vialetto. Pare quasi di sentire fin lì il profumo della carbonella sul barbecue del vicino (che funge da madeleine proustiana suburbana anche per vegetariani) e attutito il rumore di video giochi dei ragazzini nella stanzina di fianco al garage. Sforzandovi riuscite persino a vedere voi stessi sull’amaca vicino al casotto degli attrezzi, intenti a sfogliare il giornale che avevate lasciato da parte per tutta la giornata in ufficio. E il comunicatore vi induce a chiedervi: cosa vedi? La risposta, ovvia, è casa mia, che altro? E se è casa non è sprawl, lo sprawl è qualcos’altro, lontano, che arriva da fuori a minacciare quell’idillio, nascosto in varie forme. Casa mia non può, per propria natura, essere sprawl. I miei comportamenti abituali, anche se pensandoci un istante magari non sono un modello di virtù, sono accettabili, così come sono accettabili le trasformazioni “fuori casa” dentro cui si manifestano. Ecco, più o meno, schematicamente, il genere di consapevolezza farlocca a cui ci portano per mano i teorici della suburbanizzazione coatta, il genere di roba che da noi si chiama sviluppo del territorio in salsa autostradale, e che si vorrebbe chissà perché distinguere dallo sprawl globalizzato solo per via di qualche centro storico, o altre particolarità locali.

Il modello di sviluppo, i ragionamenti sull’occupazione, la qualità della vita, l’uso del tempo, dello spazio, delle risorse, danno troppe cose per scontate, e poi al dunque nei fatti tutti tornano all’ovile del cosiddetto senso comune: come diceva il palazzinaro anni ’50 William Levitt, chi possiede una casetta con giardino non può essere comunista. Nel senso che quando non rifletti praticamente sui tuoi gesti e aspirazioni, magari ti costruisci pure una impiallacciatura ideologicamente alternativa, però sotto sotto la sera torni a casa, levi la casacca ideologica, e torni ad alimentare il modello che hai fatto finta di combattere prima. Per questo poi è facile accusare di localismo, nimbismo, egoismo, e aggirare gran parte delle opposizioni ai grandi o piccoli progetti di trasformazione: il nuovo paradigma a cui si riferiscono è del tutto campato per aria, privo di radici, mentre le radici ce le ha, solidissime anche nella loro vita, il modello vigente.

Come mai tanti ambientalisti sono antiurbani? Vero che i movimenti attuali devono parecchio alle culture alternative anni ’60 e ’70 nate contro la metropoli industriale, ma come ci insegna chi almeno prova a riflettere un istante, le città non sono solo la sede delle cattive multinazionali e dei loro grattacieli fortezza. Sono anche quelle cose dove ci sono quartieri, piazze, strade affollate, o magari tranquilli giardinetti con le panchine per leggere il giornale, dove va anche chi non ha i soldi per comprarsi l’amaca, il casotto per gli attrezzi a cui sta appesa, il giardino che gli sta attorno e la casa da duecento metri quadri e passa in mezzo al prato. Per non parlare delle spese di riscaldamento, della benzina per l’auto (cinquantamila chilometri l’anno quella del capofamiglia), dell’attrezzatura della sala proiezioni, perché il cinema più vicino sta a mezz’ora di superstrada. Chi si è assuefatto a questo genere di vita, che sicuramente anche lui ha i suoi problemi, ad esempio quelli di convivenza con i diversi, in fondo si accorge della devastazione metropolitana. Si cerca la campagna, e invece se ne trovano solo simbolici brandelli, sparsi fra la solida rete dello stile di vita di chi ci abita e lavora.

Forse, per evitare le classiche guerre tra poveri, tra chi in un modo o nell’altro accetta (temporaneamente o definitivamente) il metabolismo urbano, la densità, la composizione funzionale, la possibilità di spostarsi anche senza auto, e chi invece sta immerso fino al collo dentro a quello sprawl, magari chiamandolo campagna e considerando invasore chiunque provi anche vagamente a farli riflettere, occorrerebbe capire sul serio che stiamo, tutti, dentro il medesimo calderone metropolitano. E che le trasformazioni di un luogo specifico finiscono per ripercuotersi abbastanza direttamente su tutti gli altri. A questo sicuramente non contribuiscono i localismi, specie quando sono anche amministrativi e si intrecciano con obiettivi di interesse personale o di gruppo che nulla hanno a che vedere coi cittadini in senso lato. In alcuni paesi l’abitudine della stampa di informazione a ragionare empiricamente, evitando le fette di salame ideologiche e i confini politici (del tutto evaporati almeno dell’era dell’automobilismo di massa), aiuta molto a superare questi punti di vista angusti. In Italia forse l’istituzione delle città metropolitane potrebbe aiutare in questo senso, anche con la relativa riorganizzazione dei partiti e delle forme di rappresentanza. Ma anche associazioni e comitati dovrebbero quantomeno iniziare a ragionare in questo modo, per evitare di continuare a guardare al dito, mentre speculatori e altri grandi interessi stanno lottizzando la luna.

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