Sviluppo del territorio senza costruire in aree a rischio

foto F. Bottini

Nell’ultimo secolo si sono costruiti milioni di case lungo le coste e sponde di corsi d’acqua, occupando spazi che dovrebbero essere invece destinati all’esondazione naturale. Con l’aumento delle temperature, l’innalzarsi del livello dei mari, il crescere delle precipitazioni piovose, i danni delle alluvioni si sono moltiplicati perché mai come oggi ci sono state tante case in zone diventate a rischio. In centri costieri come Carolina Beach, North Carolina, gran parte delle costruzioni stanno in zone classificate dal governo federale come di esondazione, il che le espone a tragici allagamenti come successo con le concentratissime precipitazioni di una settimana fa allagandole sotto trenta centimetri d’acqua. Gli esperti avvertono come questo rischio sia sostanzialmente inevitabile affermando che «sono sempre altissimi i livelli di mercato degli immobili in aree di esondazione» oppure «sempre più americani si trasferiscono in queste aree» o addirittura «cresce l’espansione urbana» proprio lì. Influenzando la comunicazione giornalistica – compreso il nostro articolo – sull’argomento.

Ma nuove ricerche di studiosi dell’adattamento climatico pubblicate dalla rivista scientifica Earth’s Future, indicano come probabilmente sia l’accademia che il giornalismo traggano conclusioni sbagliate dalle rilevabili tendenze dello sviluppo edilizio. Una indagine nazionale delle trasformazioni edilizie in zone di esondazione tra il 2001 e il 2019 ha rilevato come negli U.S.A. in realtà si è costruito meno di quanto si poteva aspettare chi pensa che le urbanizzazioni avvengano un po’ a casaccio. Ovvero che se non altro in media le amministrazioni locali agiscono consapevolmente per evitare di costruire in zone a rischio, nonostante il senso comune ritenga di no. A ben vedere, nel XXI secolo gran parte delle città e cittadine americane lasciano costruire poco o nulla nelle aree di esondazione. E quasi tutte le eccezioni che contraddicono la regola – e poi si conquistano i titoli di prima pagina alimentando una narrativa pessimista – si trovano in due stati: Louisiana e Florida.

Un altro studio firmato dai medesimi autori sulla rivista Oxford Open Climate Change spiega come non occorra nessuna particolare rivoluzione perché le città possano contenere efficacemente lo sviluppo edilizio nelle zone a rischio. Secondo la ricerca, che ha scelto come ambito il New Jersey, più di tre quarti delle circoscrizioni urbane dello Stato Giardino hanno drasticamente ridotto quelle costruzioni a cavallo dei due secoli, un quarto le ha eliminate completamente. E non cambiando importanti leggi o applicando politiche sul cambiamento climatico, solo attraverso ciò che gli studiosi chiamano «pratiche amministrative di routine» come qualche variante urbanistica o delle regole edilizie.

I ricercatori sostengono che questa rilevazione dovrebbe cambiare del tutto la narrativa sull’urbanizzazione delle zone alluvionali. Certo questo genere di trasformazioni urbane e edilizie continua a porre un grave problema di costi ed effetti degli eventi estremi, ma non si tratta di un problema irrisolvibile. «Costruiamo comunque troppo in quelle zone, ma non va tanto male quanto si creda» commenta Miyuki Hino, che insegna urbanistica alla University of North Carolina, Chapel Hill, e ha partecipato a entrambi gli studi. «Non costruire affatto è cosa fattibile, e si può realizzare». Esistono ottimi motivi per cui un costruttore è interessato a questo tipo di trasformazioni vicino all’acqua. Tanto per cominciare sono molte le persone che vorrebbero risiedere vicino al mare o ai laghi, e quindi una casa realizzata in questo tipo di luoghi può spuntare prezzi più elevati di vendita o affitto. Poi c’è il fatto che Stati costieri come la Florida dipendono dalle spiagge e dal turismo per le proprie economie, il che favorisce ovviamente concentrare trasformazioni edilizie residenziali o commerciali vicino all’oceano. Infine, moltissime città degli USA sono state realizzate sui fiumi per via della navigazione, e quindi un motivo ulteriore perché i territori urbani si trovino dentro o vicino a zone di esondazione.

Tutto ciò porterebbe a pensare che nelle aree a rischio si realizzi moltissima edilizia. Ma almeno dall’inizio del nuovo secolo pare non sia affatto così a sentire le ricerche: i costruttori hanno sì realizzato 844.000 alloggi su 850.000 ettari di quel tipo, ma se avessero scelto invece a caso aree edificabili sarebbero stati molti di più. Vale per oltre il 75% delle circoscrizioni studiate, e indica che la maggior parte delle amministrazioni provano per quanto in loro potere a arginare o proibire l’edificazione su coste e sponde. Ci dice anche come l’aumento del rischio sia dovuto ad alcuni fattori che troviamo concentrati fra Florida e Louisiana. Una ampia proporzione delle superfici disponibili in questi due Stati si colloca vicino a spiagge o sponde fluviali, dato che in entrambi i casi le economie dipendono dalla prossimità all’acqua. Un altro resoconto ancora appena pubblicato dal Natural Resources Defense Council, ente senza scopo di lucro, lo conferma: tra gli oltre 250.000 immobili che hanno richiesto copertura assicurativa contro le alluvioni la metà si trova negli Stati affacciati sul Golfo del Messico.

Quando scriviamo che negli Stati Uniti si costruisce a man bassa nelle zone alluvionali diciamo qualcosa che può essere vero solo in alcuni casi» racconta A.R. Siders, professore di politiche pubbliche all’Università del Delaware che ha partecipato a entrambe le ricerche. Ed esistono alcune situazioni così negative da far apparire l’intero paese negativo». Esistono due modi di guardare al problema: una amministrazione di contea sulla costa della Florida potrebbe costruire molte più case in zona alluvionale di un’altra contea nel deserto del Nevada, ma la stessa contea del Nevada realizzare una percentuale molto maggiore di case in zona alluvionale sul totale di quella in Florida. I danni degli eventi estremi, i premi assicurativi, i costi di ricostruzione nella contea della Florida saranno molto più alti, ma quella del Nevada ha molto lavoro da fare, perché mette a rischio tanti nuovi proprietari di case mentre ci sarebbe tanto spazio disponibile in zone sicure.

Politica, ricerca scientifica, associazioni per il clima, hanno proposto molte riforme per arginare questo tipo di trasformazioni edilizie in aree alluvionali. Anche che gli enti di finanziamento federale per l’edilizia non sostengano più in alcun modo i mutui in queste aree, o che il National Flood Insurance Program federale non garantisca più quelle costruzioni, oppure ancora che gli Stati le proibiscano totalmente. Viste le reazioni al tentativo di alzare i premi assicurativi per edifici in zone di esondazione a livelli di mercato, si intuisce come si tratti di questione politicamente assai Ma esaminando il caso del New Jersey, che ha edificato gran parte della propria linea di costa nel ventesimo secolo, i ricercatori hanno scoperto che forse esiste una soluzione molto più semplice. In una indagine su 500 circoscrizioni amministrative, si rileva come almeno 120 abbiano del tutto eliminato le costruzioni in zona alluvionale senza nessun strumento speciale. Semplicemente la commissione urbanistica non ha rilasciato i permessi di costruire, oppure si sono spostati gli interventi altrove, tutto qui.

«Certamente esistono tantissime idee innovative per confrontarsi con la questione, ma forse non sono così necessarie nella maggioranza dei casi di edificazione in zone a rischio» commenta Siders. «Ci mostra che semplicemente regolando con strumenti normali si ottengono importanti progressi» aggiunge Oliver Wing, responsabile scientifico di Fathom Global, società di consulenza assicurativa collaterale a Swiss Re. «Esistono soluzioni semplici applicabili localmente».

Ma che fare con quella piccola quota di circoscrizioni che contengono la maggior parte dell’edificazione in zona alluvionale? Secondo i ricercatori servono interventi mirati. I governi federale e statali con sussidi che contengano la convenienza delle trasformazioni in area a rischio, rendendole meno appetibili, qualche stato potrebbe imporre anche sanzioni per le città che consentono questi nuovi edifici vicino all’acqua. Secondo Siders e Hino, la soluzione esatta si deve adattare ai motivi per cui qui o là si costruisce in quel modo. Alcune amministrazioni forse costruiscono in queste zone alluvionali perché non riescono a spostare le trasformazioni in terreni a quote maggiori, come spesso accade in aree rurali, mentre altri lo fanno per le tasse immobiliari delle abitazioni turistiche. Concepire politiche di contenimento può essere difficile, ma secondo gli autori agire dentro le specificità locali dovrebbe indurre ottimismo.

Secondo Wing però, già coordinatore di altre ricerche in questo ambito, occorre badare al fatto che esistono dei limiti alle tendenze positive rilevate. Gli studiosi ci mostrano come le trasformazioni urbane in zone a rischio vengano regolamentate dalla pubblica amministrazione, ma solo là dove è la Federal Emergency Management Agency ad averle perimetrate come tali, e classificate ai sensi delle polizze assicurative. Però si tratta di mappe imprecise obsolete mentre molti dei danni da alluvione avvengono fuori dai perimetri segnati. È successo nel 2017 con l’Uragano Harvey, quando tre quarti degli edifici danneggiati dell’area di Houston si trovavano al di fuori della zona contrassegnata flood-prone dalla FEMA. In altre parole, oggi le pubbliche amministrazioni locali agiscono ad arginare l’edificazione in zona alluvionale, ma dovranno fare di più per ridurre a zero il rischio. E ciò comporta un riequilibrio tra i vantaggi economici di certe trasformazioni e i rischi anche economici del loro collocarsi in zone critiche. «Abbiamo ottimi esempi dei casi in cui basta aver mappato le zone per iniziare ad arginare l’edificazione – conclude Wing – le regole funzionano ma bisogna stabilire anche dove si applicano e certe aree ne stanno ancora fuori».

da: Grist, 9 settembre 2024; Titolo originale: The US is finally curbing floodplain development, new research shows – Traduzione di Fabrizio Bottini

Vedi anche la ricerca citata: A Nationwide Analysis of Community-Level Floodplain Development Outcomes and Key Influences

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