In un suo celebre saggio dedicato a un particolarissimo conflitto sociale di era pre-industriale, lo storico Jacques Le Goff ci racconta la vicenda dell’introduzione degli orologi meccanici nelle torri campanarie rurali. Lo scontro qui è, per usare le sue parole, fra Tempo della Chiesa e Tempo del Mercante, cioè fra due sensibilità del tutto diverse che si incrociano nel medesimo campo: da un lato il flusso eterno che si ritiene incomprensibile e inquantificabile, men che meno riducibile a comode e maneggiabili porzioni da mettere sul mercato; dall’altro l’esigenza sempre più impellente di «abitare l’eternità» e pur senza negarne affatto l’eventuale natura trascendente, ritagliarsi qualche comoda nicchia. Tra le varie vicende ricostruite dallo storico, quella dei contadini che rivendicano, grazie all’uso del misuratore meccanico di porzioni di eternità, qualcosa di simile a un orario di lavoro, non più scandito dal vago «dall’alba al tramonto», e compensi commisurati. Ci suona forse curiosa, questa propensione ad amare ed apprezzare innovazioni tecnologiche al limite del diabolico, da parte di umili operatori del solco, specie nella nostra epoca di mistico neo-luddismo con orizzonti vagamente sindacal-democratici. Ma da sottolineare resta comunque e soprattutto la discrasia, lo scollamento fra quelle due idee di imponderabile e impacchettabile, di eternità e sua scansione in precisi tic-tac. Oggi, lo chiameremmo magari discrezionalità politica e nimbismo da casalinghe.
Il nimbismo come ennesimo sintomo
Come? Che c’entra, la lotta progressista dei contadini medievali contro il potere religioso-economico della chiesa, con l’opposizione di qualche massaia o bottegaio ai grandi progetti di modernizzazione e trasformazione urbana? C’entra parecchio, perché in quasi tutti i casi (al netto di interessi particolari o distorsioni, ovviamente) c’è uno scontro fra prospettive diverse di tempi e tempo. Se immaginiamo per esempio la classica resistenza all’altrettanto classica gentrification, comunque la si interpreti, c’è il tempo lungo dei residenti tradizionali, magari spalmato su varie generazioni urbane ed evoluzioni socioeconomiche locali, contrapposto al tempo ristretto dell’investimento immobiliare, di chi vuol lucrare presto, incassare, e andare a investire altrove in operazioni analoghe. Ma c’è un altro e più interessante e forse attuale schema di discrasia fra tempi urbani soggettivi, ed è quello di certi lavori di trasformazione, dei cantieri di trasformazione per essere ancora più esatti. Nel caso dell’opera infrastrutturale col cantiere si intrecciano una notevole quantità di popolazione interessata, sia nel periodo dei lavori che alla loro conclusione (e vantaggi/svantaggi), e poi il genere di innovazioni indotte, che non interessano solo la vita quotidiana degli abitanti, ma anche qualcosa di più profondo. Entrando ancor più nello specifico, pensiamo al classico problema della cancellazione di spazi verdi, tipico di strade, ferrovie, metropolitane. Di cosa è sintomo, nel caso specifico, un movimento nimby locale? Di qualcosa di particolare.
Tempo della macchina, tempo della natura
Si dice giustamente che il tempo della natura e quello dell’artificio, o se vogliamo stringere della città e del suo contesto territoriale, sono molto diversi, come diversi sono i due metabolismi che si incrociano. Quando un comitato di strada o di quartiere, una associazione, si oppone anche radicalmente a tagli di alberi, interramento di corsi d’acqua o simili, fa l’esatto contrario di ciò di cui spesso vengono accusati questi movimenti, ovvero di «ostacolare il progresso». A ben vedere, seppur in modo intuitivo e sporadico, i cittadini che qualche volta si legano agli alberi o si frappongono fisicamente alle ruspe avanzanti, esprimono un’idea di progresso del tutto analoga a quella dei loro antenati che rivendicavano l’orologio sulla torre campanaria, per poter calcolare esattamente la fettina di eternità che era stata sottratta dal lavoro alla loro vita. E le piante, la natura in generale, come stanno scoprendo con sempre più evidenza le ricerche di ecologia urbana, rappresentano l’occasione preziosa per riconvertire sostenibilmente l’orologio della «macchina per abitare» al nuovo tempo del cambiamento climatico. Chi decide delle trasformazioni dovrebbe a sua volta saper cogliere l’occasione, non tanto per cercare consenso (con le classiche mediazioni, o lavori di compensazione, o sussidi a controbilanciare la perdita sentimentale), ma per adeguare tecniche e obiettivi: più rispetto per i cittadini, e soprattutto più rispetto per la città, che anche attraverso quelle proteste ha dato un segno di insofferenza, verso trasformazioni inadeguate nel metodo, anche se in parte certamente utili, come una linea di trasporto pubblico che taglia le emissioni.
Riferimenti:
Louise Boronyak, Trees versus light rail: we need to rethink skewed urban planning values, The Conversation, 6 aprile 2016