Verso la metà degli anni ’70 l’amministrazione statale del New Jersey varava un piano detto «Quartieri ordinati e sicuri» concepito per migliorare la vita quotidiana e articolato sul territorio di 28 circoscrizioni urbane. Nel quadro di quel piano, lo Stato erogava risorse alle città perché spostassero forze di polizia dalle pattuglie in auto ai controlli diretti sul territorio a piedi. Sia il Governatore che altri alti responsabili dell’amministrazione statale si aspettavano moltissimo da questa opzione delle pattuglie pedonali, come strumento per la riduzione dei reati, ma non mancava parecchio scetticismo da parte dei diretti interessati, dei dirigenti della Polizia. Quelle pattuglie, a loro parere, si erano già dimostrate sbagliate: si riduceva la mobilità dei poliziotti e la capacità di rispondere alle chiamate dei cittadini, oltre ad allontanare gli agenti dispiegati sul territorio dal controllo diretto dei comandi.
Molti tra le forze dell’ordine, tra l’altro, non apprezzavano affatto le pattuglie a piedi per diversi ovvi motivi: si faticava di più, si stava anche al freddo, di notte, sotto la pioggia, oltre a limitare le possibilità di qualche «arresto dimostrativo». In alcuni comandi assegnare uomini alle pattuglie a piedi era addirittura utilizzato come forma di punizione. Anche gli studiosi di ordine pubblico dubitavano che questa forma di controllo del territorio potesse influire sulla quantità di reati, a parere di quasi tutti, si trattava al massimo di un trucco per placare l’opinione pubblica. Ma lo Stato garantiva quei soldi per le pattuglie a piedi, e le amministrazioni intendevano approfittarne.
Dopo cinque anni dal varo del piano, la Police Foundation di Washington, D.C., pubblicava un bilancio di quelle attività di pattugliamento a piedi nei quartieri. Sulla base di una analisi campionaria su un progetto pilota sviluppato a Newark, si concludeva, senza sorpresa per nessuno, che non si era affatto ridotta la criminalità. Era però successo che gli abitanti delle zone pattugliate si sentivano più sicuri di quelli di altre aree, in qualche modo convinti che i reati fossero diminuiti, meno propensi a tutelarsi da soli nei soliti modi (star chiusi a chiave dentro casa, per esempio). Inoltre, i residenti dei quartieri pattugliati a piedi si erano fatti un’opinione della polizia assai più favorevole di quelli che stavano nelle zone non pattugliate. Infine, gli agenti che svolgevano quel servizio si trovavano bene, trovavano soddisfacente il lavoro, si erano costruiti un rapporto migliore coi cittadini di chi era assegnato alle pattuglie in auto.
Si possono considerare questi risultati la prova che gli scettici avevano visto giusto: il pattugliamento a piedi non aveva alcun effetto sui reati commessi; si limitava a convincere i cittadini che ci fosse maggior sicurezza. Ma dal nostro punto di vista, e da quello degli autori della ricerca pubblicata dalla Police Foundation (a cui aveva partecipato anche George L. Kelling), nessuno aveva preso in giro quegli abitanti di Newark. Essi sapevano quel che facevano le pattuglie di polizia a piedi, capivano la differenza con gli agenti in auto, capivano che così il quartiere diventava più sicuro.
Ma: come è possibile che una zona sia «più sicura», se il tasso di criminalità non scende, anzi a volte addirittura sale? Per rispondere a questa domanda occorre prima capire cosa spaventa di più le persone nello spazio pubblico. Sono naturalmente molti i cittadini che temono soprattutto la criminalità, specie quel genere di reati che comportano un attacco improvviso e violento da parte di sconosciuti. Un rischio concreto, sia a Newark che in tante altre città. Ma spesso sottovalutiamo un’altra fonte di timore: quello suscitato dalle persone strane. Né violente, né necessariamente criminali, ma di sicuro soggetti dall’aria poco raccomandabile, dai comportamenti imprevedibili o turbolenti: che siano ubriaconi, accattoni, adolescenti di strada, tossici, prostitute, vagabondi, psicologicamente disturbati.
Con le pattuglie di polizia a piedi, accadeva che salisse di qualche grado la percezione di ordine, in questi quartieri. Zone a prevalenza nera, poliziotti prevalentemente bianchi, ma la funzione di «mantenere l’ordine» era svolta con soddisfazione da ambo le parti. Uno dei due Autori del presente articolo (Kelling) trascorse lunghe ore camminando insieme a queste pattuglie per Newark, a verificare cosa significasse, «ordine», e come veniva mantenuto. Un percorso caratteristico: un’area al tempo stesso vivace e degradata del centro di Newark, edifici abbandonati, esercizi commerciali di basso profilo (c’erano tantissime vetrine con in bella mostra coltelli e affilatissimi rasoi), un grande magazzino, e soprattutto la stazione ferroviaria con tante fermate degli autobus. Nonostante il degrado, le strade erano affollatissime di persone perché si trattava di un nodo di trasporti. L’ordine nel quartiere era importante, non solo per chi ci abitava e lavorava, ma anche per tanti altri che dovevano attraversarlo diretti verso casa, al supermercato, alle fabbriche.
Le persone per strada erano soprattutto neri, i poliziotti di pattuglia soprattutto bianchi. I passanti si dividevano tra «abitanti» e «forestieri». I primi a loro volta comprendevano sia gente «per bene» che ubriaconi e derelitti però consapevoli di dover «stare al proprio posto». Il forestieri erano semplicemente forestieri, e guardavano tutto con sospetto e una certa apprensione. Il poliziotto di pattuglia – che chiameremo Kelly – conosceva tutti i frequentatori abituali, e loro riconoscevano lui. Considerava suo compito principale tener d’occhio i forestieri, oltre ad accertarsi che gli abituali devianti osservassero almeno al minimo alcune informali regole. Ubriachi e tossici non dovevano sdraiarsi, ma potevano star seduti sui gradini. Era consentito bere, ma non nelle zone più battute, solo nelle trasversali minori, e le bottiglie dovevano stare in un sacchetto di carta. Severamente vietato importunare, chiedere soldi, rivolgere la parola a chi aspettava l’autobus. Nel caso di una discussione tra un esercente e un cliente, si partiva dal presupposto che avesse sempre ragione l’esercente, specie quando il cliente era forestiero. Se un forestiero continuava a bighellonare, Kelly gli avrebbe subito chiesto se aveva di che mantenersi, che mestiere faceva. In caso di risposte evasive, l’avrebbe allontanato. Chi trasgrediva queste regole non scritte, specie quelle sull’importunare chi aspettava l’autobus, era arrestato per vagabondaggio. Gli adolescenti chiassosi venivano invitati a star più tranquilli.
Tutte regole stabilite e applicate insieme ai «frequentatori regolari» della zona. In un altro quartiere le regole potevano essere diverse, ma qui valevano quelle, capivano tutti. Se si violavano, i frequentatori abituali non solo facevano riferimento a Kelly, ma iniziavano a sfottere il reo. Talvolta ciò che faceva Kelly si sarebbe potuto chiamare «applicare la legge», ma altrettante volte significava azioni informali, extralegali, per ristabilire ciò che nella zona tutti consideravano un adeguato livello di ordine pubblico. Molte di queste cose probabilmente non avrebbero superato un esame di legittimità. Qui un convinto scettico, pur riconoscendo che un efficace pattugliamento del genere possa mantenere un certo ordine, potrebbe ribadire che comunque si tratta di un «ordine» senza rapporti diretti con ciò che una comunità teme, ovvero la criminalità violenta. E avrebbe ragione. Ma bisogna considerare almeno due cose. In primo luogo che un osservatore esterno non può capire sino a che punto l’ansia in tanti quartieri urbani derivi da «veri reati», e non da incontri genericamente sgradevoli, imprevisti, preoccupanti. Gli abitanti di Newark, a giudicare dai comportamenti, dalle risposte alle interviste, a quanto pare conferivano parecchio valore a quel tipo di ordine pubblico, e si sentivano rassicurati da una azione di polizia che contribuiva a mantenerlo.
In secondo luogo, in una città comportamenti devianti e criminali in genere hanno rapporti inevitabili, in sequenza quasi lineare. Studiosi di psicologia sociale e operatori di polizia concordano: quando c’è una finestra rotta in un edificio e non la si aggiusta, presto ne troveremo tante altre rotte [corsivo del traduttore]. La cosa vale nei quartieri più tranquilli così come in quelli più problematici. I vetri rotti non esistono solo in abbondanza là dove abitano accaniti tiratori di fionda, mentre altrove dominano gli amanti delle finestre. Accade invece che una finestra incrinata rappresenti un segnale: non importa a nessuno che resti intera, e quindi si può accanirsi anche sulle altre senza esitazione (in fondo è tanto divertente).
Philip Zimbardo, docente di psicologia a Stanford, raccontava nel 1969 di alcuni esperimenti a verifica di questa teoria della finestra rotta. Parcheggiò due automobili decappottabili molto simili prive di targa, una in una strada del Bronx, e una in una via di Palo Alto, California. Quella del Bronx fu attaccata da «vandali» dieci minuti dopo. I primi furono una famiglia al completo – padre, madre, un figlio piccolo – smontando radiatore e batteria. Nel giro di 24 ore la carcassa era stata privata di tutto ciò che poteva avere un valore. Poi cominciò la distruzione casuale ma sistematica: finestrini rotti, pezzi strappati, sedili sfondati. I bambini la usavano come giocattolo. Gran parte dei «vandali» adulti erano persone piuttosto ben vestite, bianchi. La decapottabile parcheggiata a Palo Alto rimase lì senza essere neppure sfiorata per una settimana. Dopo la quale intervenì Zimbardo, rompendo qui e là con una mazza. E immediatamente I passanti iniziarono a seguirne l’esempio: nel giro di poche ore l’auto era stata ribaltata e semidistrutta. Di nuovo i «vandali» erano principalmente bianchi con l’aria di persone rispettabili.
Qualunque cosa non presidiata diventa facile preda di chiunque abbia o voglia di divertirsi, o di rubacchiare, anche di chi in genere non si sognerebbe neppure di pensarle, queste azioni, e si considera persona irreprensibile. A causa delle caratteristiche sociali peculiari del Bronx – l’anonimato, la frequenza con cui si abbandonano auto, e si ruba o si danneggia di tutto non badando a nulla – i vandalismi iniziano immediatamente, a differenza della più «civile» Palo Alto, dove le persone credono nella proprietà privata e la curano, ritenendo certi comportamenti dannosi per sé e gli altri. Ma anche qui scatta il vandalismo, nel momento in cui i limiti della convenzione sociale – rispetto reciproco e senso civico – saltano di fronte a un messaggio che dice «le regole di convivenza non valgono più».
Riteniamo che certi comportamenti «spontanei» non previsti conducano anche alla caduta dei meccanismi collettivi di controllo. Un quartiere stabile, di famiglie attente alla propria casa, ai figli propri e altrui, sicuri rispetto a intrusioni indesiderate, può cambiare, sull’arco di qualche anno o anche di pochi mesi, e diventare una giungla inospitale e spaventevole. Un immobile abbandonato, le erbacce che crescono, un vetro rotto. Gli adulti smettono di rimproverare i ragazzini modelli; i ragazzini, sentendosi privi di controlli, diventano più aggressivi. Qualche famiglia comincia a andarsene dal quartiere, sostituita da adulti senza particolari legami. Adolescenti iniziano a radunarsi davanti a qualche negozio, e quando il negoziante gli chiede di andarsene rifiutano. Nascono scontri e liti. Si accumulano rifiuti. Davanti al negozio di liquori si comincia a farmersi per bere e ubriacarsi, qualcuno casca a terra e lo si lascia star lì a smaltire la sbronza sul marciapiede I passanti vengono importunati da accattoni.
È una situazione in cui certo non è inevitabile, il passaggio in massa a reati più gravi e ad aggresioni ai forestieri. Ma molti abitanti saranno comunque convinti che in qualche modo la criminalità sta aumentando, quella violenta, e cambieranno le proprie abitudini. Cammineranno meno per le strade, e quando lo faranno si terranno a debita distanza da tutto e da tutti, sguardi all’erta, bocche chiuse, passi frettolosi, «non ti impicciare». Per alcuni una atomizzazione che conta poco, dato che quel quartiere non è «casa», solo il posto dove capita di abitare: i loro interessi stanno altrove, hanno un atteggiamento diciamo così cosmopolita. Ma per altri questa individualizzazione dei comportamenti pesa molto, e sono quelli che dal quartiere si aspettavano altro, identità e relazioni, che smettono di esistere salvo pochissimi amici fidati che si continuano a frequentare in zona.
L’area è così diventata vulnerabile a una invasione criminale. Certo non si tratta di una evoluzione inevitabile, ma diventa più probabile che qui, anziché là dove gli abitanti restano comunque fiduciosi riuscendo a regolare comportamenti attraverso regole informali, si inizi a vendere droga, a veder girare prostitute, e sfasciare auto abbandonate. Poi ragazzini casualmente deruberanno gli ubriachi, ma i clienti delle prostitute saranno derubati con più violenza e per nulla casualmente. Si faranno scippi per strada
Chi trova più difficoltà a andarsene sono gli anziani. Tutti gli studi confermano che l’anziano in genere ha meno probabilità dei giovani di essere vittima della criminalità, e alcuni ne hanno dedotto che le loro paure siano esagerate: perché varare piani per la sicurezza degli anziani, quando parrebbe meglio provare a convincerli che le loro paure hanno scarso fondamento? Ma questo modo di ragionare non coglie il punto. L’idea di potersi trovare di fronte un ragazzino aggressivo, o un accattone ubriaco, per una persona priva di difese fa paura tanto quanto quella di incontrare un vero rapinatore, anzi non si riesce proprio a vedere la differenza tra le due cose. E consideriamo, anche, quanto l’incidenza minore dei reati nei confronti degli anziani, derivi anche dalle precauzioni che hanno iniziato a prendere, soprattutto restando chiusi in casa, per ridurre al minimo il rischio. Le aggressioni a giovani maschi sono più di quelle a signore anziane, non tanto perché siano più facili o convenienti, ma solo perché ne girano molti di più nelle strade.
E il collegamento tra comportamenti devianti e paura non lo fanno solo gli anziani. Susan Estrich, della Harvard Law School, ha recentemente comparato una serie di analisi dell’insicurezza percepita. Una, condotta a Portland, Oregon, indicava come tre quarti degli intervistati attraversasse la strada per spostarsi sull’altro lato, vedendo un gruppo di adolescenti; un altro studio a Baltimora, ha rilevato come quasi la metà del campione attraversa allo stesso modo la strada anche per evitare l’incontro con un solo adolescente sospetto. Alla domanda dove si trovasse il posto più pericoloso in un complesso di case popolari, tutti rispondevano dove si trovavano i ragazzi a bere e ascoltare musica, nonostante lì non fosse mai successo nulla di simile a un reato. In un altro complesso popolare a Boston, il maggior timore degli abitanti degli edifici erano disordine e inciviltà, non i reati. Sapere queste cose, aiuta a comprendere cosa vuol dire la presenza di graffiti in metropolitana, apparentemente innocui. Come ha scritto Nathan Glazer, la proliferazione di questi disegni, anche se non si tratta di disegni osceni, pone il viaggiatore dei treni davanti all’idea che il posto dove starà per un’ora o più della sua giornata, non è controllato né controllabile, chiunque può invaderlo e far tutti i danni che vuole, che gli passano nella malevola testa.
E per superare le paure le persone si evitano, si ignorano, indebolendo ulteriorimente il controllo. Talvolta chiamano la polizia. Arriva una pattuglia in auto, capita che si fermi qualcuno, ma I comportamenti criminali proseguono, il disordine avanza. I cittadini si lamentano coi comandi di polizia, ma da lì si risponde che manca personale, che i tribunali fanno rilasciare I piccoli delinquenti o chi commette un reato per la prima volta. Agli occhi degli abitanti, la pattuglia in auto che arriva appare inefficace e poco interessata, tratta la gente un po’ come animali che si meritano quella situazione. Così si finisce per smettere di telefonare, alla polizia, che tanto «non combina nulla».
Il processo che definiamo degrado urbano avviene da secoli, in qualunque città. Ma ciò che accade oggi è diverso, per almeno due importanti aspetti. In primo luogo, nel periodo precedente la seconda guerra mondiale chi abitava in un quartiere – per problemi economici, di trasporto, relazioni sociali, appartenenza a una comunità religiosa – erano sempre immersi nei problemi del proprio quartiere. Quando ci si spostava ciò tendenzialmente avveniva coi trasporti pubblici. Oggi la mobilità è assai più semplice, per tutti salvo i più poveri, o chi è bloccato da un pregiudizio razziale. Le ondate di criminalità un tempo avevano insito una specie di meccanismo di autocorrezione: quartieri fortemente determinati a riaffermare un controllo del proprio territorio. Zone di Chicago, New York, o Boston, subivano gli scontri tra bande criminali rivali, ma poi riconquistavano una normalità quando le famiglie, in assenza di soluzioni alternative, si riprendevano autorità su quelle vie. In secondo luogo, in questo primo periodo la polizia sostiene il recupero di controllo degli abitanti anche intervenendo con violenza. Aggredendo i giovani aggressivi, arrestando persone «in base al sospetto» o per vagabondaggio, senza alcuna pietà per prostituzione e piccoli furti. Una cosa come i «diritti legali» in questa fase è applicata solo ai residenti regolari, e forse goduta dalla fascia alta della criminalità che può permettersi degli avvocati.
Questo comportamento della polizia non è né aberrante né episodico eccesso. Sin dalla nascita del nostro paese, funzione della polizia è quella di una specie di guardia notturna: mantenere l’ordine contrastando le principali minacce, cioè incendi, animali selvatici, comportamenti scorretti. Risolvere problemi di criminalità non viene considerato un compito tipico della polizia, ma è demandato ai privati. Sull’Atlantic del marzo 1969, uno degli Autori del presente articolo (Wilson) pubblicava un breve resoconto di come il ruolo della polizia fosse gradualmente cambiato, dal mantenimento dell’ordine alla lotta alla criminalità. Un cambiamento che inizia quando nascono gli investigatori privati (spesso ex criminali), che operano a pagamento standard per conto di chi ha subito dei furti. Col tempo, questa professionalità viene assorbita dalle amministrazioni municipali, che pagano agli investigatori un regolare salario invece di una occasionale commessa, e la responsabilità di perseguire i criminali si sposta dal privato danneggiato a un operatore pubblico professionista. Lo spostamento avviene lentamente e si completa in molti casi solo nel ventesimo secolo.
Negli anni ’60, quando le rivolte urbane sono un grosso problema, gli studiosi di questioni sociali iniziano ad analizzare attentamente il ruolo della polizia nel mantenimento dell’ordine, e a suggerire metodi per renderlo più efficace: non mantenere le strade sicure (la funzione originaria) ma ridurre gli effetti della violenza di massa. Il mantenimento dell’ordine inizia, in una certa misura, a convergere verso le «relazioni comunitarie». Ma con l’ondata di crimini iniziata nei primi anni ’60 e che prosegue senza tregua attraverso i ’70, l’attenzione si sposta sul ruolo della polizia nel contrasto della criminalità. Finiscono gli studi sul comportamento dei poliziotti in quanto mantenimento dell’ordine, e iniziano gli interessi focalizzati su come risolvere il problema della criminalità, effettuare più arresti, raccogliere prove. Raggiungere questi obiettivi significa, secondo gli studi sociali, rassicurare meglio i cittadini spaventati. In questa fase sia i dirigenti della polizia che gli esperti esterni sottolineano il ruolo di contrasto al crimine, gli investimenti di risorse in quel senso, l’impegno di tutto il personale. E la polizia effettivamente migliora la propria efficacia, così come senza dubbio resta consapevole del proprio compito di mantenere l’ordine. Ma ci si scorda piuttosto il legame, che pareva evidente alle generazioni precedenti, fra i due aspetti del mantenimento dell’ordine pubblico, e del contrasto alla criminalità.
Si tratta di un collegamento analogo a quello dove da una sola finestra rotta si passa a molte finestre rotte. Il cittadino che è impaurito dall’ubriaco puzzolente, dall’adolescente indisciplinato, dall’accattone importuno, non esprime solo fastidio per comportamenti devianti: sta anche dando voce a un buon senso comune che ha intuito il problema. Ovvero che la vera e propria criminalità di strada si sviluppa soprattutto in zone dove non subisce alcun limite e controllo il comportamento deviante. L’accattone importuno è la prima finestra rotta. Scippatori e ladri, occasionali o abituali che siano, avvertono di poter abbassare la probabilità di essere identificati e catturati, , operando in vie dove i passanti sono già intimiditi dal contesto generale. Se un quartiere non riesce a controllare il mendicante che tormenta le persone sul marciapiede, ragiona il ladro, men che meno tenderà a chiamare la polizia che lo identifichi o interferisca in altro modo coi suoi furti. Qualche dirigente ammette l’esistenza di questo tipo di ragionamento, ma risponde che le cose si possono gestire con le pattuglie in auto, con altrettanta efficacia che con quelle a piedi. Non ne siamo affatto certi. In teoria, un poliziotto in macchina osserva esattamente come un altro a piedi; ancora in teoria, l’uno si rapporta a tante persone quanto l’altro. La realtà degli incontri cittadini-poliziotti è però ben diversa, e profondamente alterata dall’automobile. Un agente a piedi è profondamente integrato nella via e tra i passanti; rivolgersi a lui vuol dire mettere la sua uniforme, la sua personalità, immediatamente a servizio per ciò che sta avvenendo. Anche se non sa ancora di che genere di richiesta si tratti: può essere per una indicazione stradale, un aiuto, una denuncia, un insulto, un confuso balbettare, un gesto di minaccia.
In macchina, un identico poliziotto probabilmente si rapporterà ai cittadini abbassando il finestrino e guardando fuori. Portiera e finestrino escludono i passanti, rappresentano una barriera. Qualche poliziotto questa barriera la sfrutta, anche inconsapevolmente, e si comporta in modo molto diverso a come farebbe se fosse a piedi: l’abbiamo sperimentato in tantissimi casi. L’auto arriva a un angolo di strada dove si radunano gli adolescenti, cala il finestrino e un agente guarda fuori, guardato a sua volta.
Dice «Tu, vieni qui» rivolto a uno dei ragazzi, che fingendo di non aver sentito si gira invece verso i suoi compagni, elaboratamente manifestando di non temere affatto l’autorità.
«Come ti chiami?» continua l’agente.
«Chuck» fa lui.
«Chuck cosa?».
«Chuck Jones»
«E cosa fai qui di bello, Chuck?».
«Niente, niente».
«Sicuro di non avere un obbligo di firma?».
«Naaah».
«Beh, stai fuori dai guai Chuckie, eh?».
Nel frattempo tutti gli altri ragazzi ridacchiano e commentano tra loro, probabilmente prendendo in giro il poliziotto. Che li guarda severo, non sa cosa si stiano dicendo in realtà, e non può neppure avvicinarsi perché così dovrebbe mettere alla prova direttamente le sue capacità, la sua autorità, l’abilità di non farsi «mettere sotto». Complessivamente si può dire che non abbia controllato assolutamente nulla, e gli adolescenti si sono convinti che si tratta di un alieno, lo si può ignorare, o anche sfottere, senza alcun timore. L’esperienza ci dice che gran parte dei cittadini apprezza, poter parlare con un poliziotto. Rapporti che danno una sensazione di importanza, generano pettegolezzi, consentono di sfogare e spiegare le proprie paure e dubbi (oltre a dare l’idea, modesta ma significativa, di aver comunque «fatto qualcosa» per risolvere un problema). Una persona a piedi appare assai più facile da avvicinare, rivolgergli la parola, rispetto a una in automobile. Inoltre, c’è molto più anonimato nell’appartarsi un istante con un agente per due parole in privato. Immaginiamo che si voglia scambiare una dritta su chi è lo scippatore seriale, o chi gira offrendo televisori rubati. In un quartiere popolare è molto probabile che quel ladruncolo sia il tuo vicino di casa. Camminare sulla strada dirigendosi verso un’auto della polizia e chinarsi sul finestrino significa segnalare molto chiaramente di essere un «delatore».
L’essenza del ruolo della polizia nel mantenimento dell’ordine sta nell’inserirsi nei meccanismi informali di autocontrollo della comunità. Le forze dell’ordine non possono, senza il dispiego di risorse straordinarie, sostituirsi a questo controllo informale. Ma per svolgere questa funzione di complemento alle forze spontanee la polizia deve adeguarsi, e qui sta il problema. L’azione sulle strade verrà plasmata nelle sue modalità dagli specifici criteri del quartiere, o dalle norme superiori della legge? Negli ultimi vent’anni lo spostamento dal mantenimento dell’ordine alla lotta all’illegalità ha condotto sempre più verso comportamenti legalitari, condizionati anche dallo sguardo dei media, o dalle decisioni dei tribunali, oltre che da indicazioni dei vertici. Di conseguenza, le funzioni di mantenimento dell’ordine oggi vengono governate da norme sviluppate nell’ambito dei rapporti coi sospetti di crimini. E si tratta di una situazione del tutto nuova, a nostro parere.
Per moltissimi decenni il ruolo di controllo della polizia non è stato giudicato principalmente sulla base dell’aderenza ad adeguate procedure, ma in termini di raggiungimento degli obiettivi desiderati. L’obiettivo era l’ordine, termine abbastanza ambiguo in sé, ma facilmente riconoscibile quando lo si vede in un quartiere. I mezzi per arrivarci sono gli stessi che impiegherebbero quei cittadini da soli, se sufficientemente determinati, coraggiosi, autorevoli. Mentre scoprire e reprimere criminali, per contro, era agire per un obiettivo definito, non un obiettivo in sé; si sperava nella conclusione con una condanna, o una eventuale assoluzione di innocenza, per questa applicazione della legge. Sin dal principio ci si doveva aspettare che gli agenti seguissero regole, anche se variabili nella rigidità o elasticità a seconda delle leggi statali di riferimento. La lotta alla criminalità comportava rispettare dei diritti individuali, la cui eventuale violazione era inaccettabile, perché così la polizia usciva dal proprio ruolo interpretando anche quello di un tribunale e di una giuria. Colpevolezza o innocenza erano ambiti separati, da gestire secondo criteri e procedure propri.
Di norma nessun giudice o giuria considera la persona fermata e rinviata a giudizio dal punto di vista dell’ordine nel quartiere. Cosa vera non solo perché gran parte di quei casi vengono gestiti e risolti normalmente e direttamente sulla strada, ma anche perché non esistono criteri universali per sedare dispute su cosa è ordine e cosa non lo è: un giudice in questo caso non ne capisce certo più efficacemente di un poliziotto di pattuglia. Sino a non molto tempo fa, in alcuni casi ancora oggi, si effettuavano arresti di «persone sospette» o per «vagabondaggio» e «ubriachezza molesta», ovvero motivi privi di vero fondamento legale. Accuse inventate non perché si voglia che un giudice punisca questi comportamenti, ma per eliminarli dal quartiere, là dove altre azioni informali per mantenere un ordine non hanno funzionato.
Se iniziamo a ragionare su tutti gli aspetti dell’azione di polizia, considerandoli l’applicazione di norme universali e procedure, finiremo inevitabilmente per dubitare del concetto di «persona indesiderabile», e ci chiederemo perché mai si devono criminalizzare così l’ubriachezza o il gironzolare. Il nostro forte e legittimo desiderio di veder rispettati i diritti ci fa preoccupare, se la polizia maltratta o ferma persone sulla base di criteri tanto vaghi. Un certo crescente ma poco encomiabile utilitarismo, ci porta a dubitare che si debba classificare «illegale» qualunque comportamento che non danneggia nessuno. E dunque noi osservatori della polizia finiamo per faticare a concedere che svolga, nell’unico modo possibile, la funzione che nei quartieri tutti vorrebbero fortemente vedere.
Crediamo che sia un errore, questa voglia di «depenalizzare» comportamenti devianti ma che «non fanno male a nessuno», levando di torno l’unico strumento a disposizione della polizia per mantenere l’ordine in un quartiere. Certo fermare un singolo ubriaco o un vagabondo che non hanno aggredito nessuno pare ingiusto, probabilmente in un cereto senso è, ingiusto. Ma insieme non far nulla davanti a schiere di ubriachi, centinaia di vagabondi, può portare alla distruzione di una intera comunità di quartiere. Una scelta che pare aver senso in un caso specifico, poi non ne ha se diventa regola universale applicabile in ogni caso. Non ha senso perché non tiene conto del rapporto tra la singola «finestra rotta» lasciata lì senza ripararla, e i vetri rotti a migliaia. Certo esistono altre entità diverse dalla polizia per gestire i problemi posti da ubriachi e psicolabili, ma in gran parte dei quartieri, specie là dove c’è stato un processo di «de-istituzionalizzazione», quelle entità non operano. Più seria la preoccupazione per i problemi di eguaglianza. Alcuni comportamenti rendono le persone più o meno sgradite di altre, ma dobbiamo far sì che la base per distinguere questo più o meno non sia il colore della pelle, l’etnia, o certe convenzioni? In altri termini come possiamo essere sicuri che la polizia non diventi lo strumento di qualche chiuso conformismo locale?
Certo non possiamo dare una risposta del tutto soddisfacente a questa cruciale domanda. Non possiamo far altro, che sperare nella possibilità di inculcare negli operatori di polizia – attraverso selezione, formazione, supervisione – un chiaro senso dei confini della discrezionalità nel proprio agire. Un limite che si può più o meno definire così: la polizia esiste per contribuire a regolamentare i comportamenti, non per mantenere la purezza razziale o etnica di un quartiere. Prendiamo l’esempio del complesso popolare Robert Taylor a Chicago, uno dei più grandi interventi pubblici del genere nel paese. Ci abitano quasi ventimila persone, tutti neri, ed è esteso su una superficie circa 36 ettari lungo la South State Street. Ha preso il nome da un importante esponente della comunità afroamericana diventato negli anni ’40 presidente della Chicago Housing Authority. Non molto dopo l’inaugurazione, nel 1962, ci fu un grave deterioramento dei rapporti tra abitanti e polizia. I cittadini ritenevano che gli agenti fossero brutali e insensibili; per contro i poliziotti lamentavano aggressioni senza motivo. Ancora a Chicago ci si ricorda di quando la polizia aveva paura ad entrarci, in quel complesso. I tassi di criminalità si impennavano.
Oggi l’atmosfera è completamente diversa. I rapporti tra polizia e cittadini sono migliorati: pare che su entrambi i fronti si sia imparato qualcosa dall’esperienza. Poco tempo fa, un ragazzo aveva scippato una borsetta scappando via. Un gruppetto di giovani che aveva assistito al furto ha volontariamente informato i poliziotti sull’identità e indirizzo del ladro, facendolo pubblicamente mentre tutti stavano a guardare. Ma restano problemi, prima di tutto la presenza di bande giovanili che terrorizzano gli abitanti e reclutano aderenti in quartiere. Ci si aspetta che la polizia «faccia qualcosa» a proposito, e i poliziotti intendono farlo: ma cosa? Certo si può arrestare qualunque membro di una banda quando infrange la legge, ma la banda in sé può formarsi, reclutare, radunarsi senza far nulla di illegale di per sé. Solo una piccolissima parte degli atti criminali legati all’esistenza delle bande si risolve con l’arresto, e quindi se si tratta dell’unico tipo di intervento della polizia, le paure dei cittadini non avranno avuto alcuna risposta. La polizia si sarà rivelata di fatto impotente, e gli abitanti di nuovo si convinceranno che «non sta facendo nulla». Ma invece in realtà i poliziotti fanno dell’altro: cacciano dal quartiere i membri delle bande. Per usare le parole di un agente «Li cacciamo a calci nel sedere». E gli abitanti del quartiere capiscono, e approvano. La tacita alleanza si rafforza quando la polizia considera sé stessa e le bande come due poteri contrapposti che si scontrano per il controllo del territorio, scontro che le bande non vinceranno.
Certo non tutto qui si confronta benissimo con un’idea di trattamento equo e di diritto, da nessun punto di vista. Sia gli abitanti che i membri delle bande sono neri, quindi non c’è discriminazione razziale. Ma potrebbe esserci in un altro caso. Poniamo un quartiere abitato da bianchi e una banda di neri, o viceversa. Sarebbe preoccupante vedere che la polizia si schiera su un fronte contro l’altro. Ma in sostanza il problema rimane identico: come può la polizia intervenire a complemento dei meccanismi di controllo sociale informali delle comunità spontanee, con l’obiettivo di contenere l’insicurezza percepita negli spazi pubblici? La pura applicazione della legge, in sé, non rappresenta una risposta: una banda indebolisce o distrugge del tutto le relazioni di comunità per il solo esistere, nel rappresentare una minaccia, nell’esprimersi insultando i passanti, senza infrangere alcuna legge.
È piuttosto difficile riflettere su argomenti del genere, non solo per la complessità degli aspetti etici e delle questioni legali, ma perché siamo abituati a pensare la legge in termini sostanzialmente individualisti: la legge definisce i MIEI diritti, sanziona i SUOI comportamenti, viene applicata da QUEL funzionario a causa di QUEL comportamento. Ragionando così, si presume che quanto va bene per il singolo andrà benissimo anche per la comunità, e che quanto non conta per una sola persona allo stesso modo non conterà quando le persone diventano tante. Si tratta, di norma, di ragionamenti che hanno un senso. Ma quando accade che comportamenti accettabili per qualcuno, diventino inaccettabili per molti altri, le reazioni di questi ultimi – paura, chiusura, allontanamento – alla fine possono condurre a un peggioramento della situazione per tutti, ivi compreso chi aveva espresso in un primo tempo indifferenza.
Può trovare spiegazione nella maggiore sensibilità ai bisogni collettivi rispetto a quelli individuali, il fatto che gli abitanti dei piccoli centri siano in genere più soddisfatti del comportamento della polizia, rispetto a quelli di quartieri comparabili di grandi città. Elinor Ostrom e i suoi collaboratori all’Università dell’Indiana, hanno provato una comparazione su come veniva percepita l’azione della polizia in due diverse cittadine dell’Illinois, entrambe molto povere e totalmente abitate da neri – Phoenix e East Chicago Heights – con tre quartieri della città di Chicago. Anche proporzione di vittime di reati e rapporti fra polizia e abitanti erano quasi identici, tra le due cittadine e i tre quartieri centrali. Ma chi abitava nei villaggi pareva molto più propenso dei residenti di Chicago ad uscire di casa, a non aver troppa paura del crimine, a sostenere che la polizia locale avesse «il diritto di intervenire quando necessario» per risolvere i problemi, a ritenere che gli agenti «guardano alle necessità del cittadino medio». È possibile che gli abitanti e la polizia, nei piccoli centri, si considerassero reciprocamente come entrambi impegnati in una azione collaborativa per mantenere un certo livello di vita in comune, mentre quelli nei quartieri della grande città pensassero a fornire e ricevere dei servizi su pura base individuale.
Se questo è vero, la polizia come dovrebbe impiegare le sue pur sempre scarse forze? La prima risposta è che non si sa con certezza, e il percorso più prudente sarebbe di sperimentare qualche variante degli esperimenti di Newark, per verificare in modo preciso quel che funziona in un certo tipo di quartiere. La seconda risposta è parimenti di salvaguardia: moltissimi aspetti del mantenimento dell’ordine si gestiscono al meglio coinvolgendo poco o nulla la polizia. Un affollato centro commerciale o un tranquillo ben tenuto quartiere suburbano non necessitano di alcuna visibile presenza di agenti: in entrambi i casi il rapporto tra cittadini del tutto rispettabili e persone poco affidabili è così squilibrato verso i primi da rendere efficacissimo il controllo sociale informale.
Anche in zona abbastanza a rischio per la presenza di elementi di disturbo, l’azione dei comuni cittadini senza particolare coinvolgimento della polizia può rivelarsi sufficiente. I raduni di adolescenti in qualche angolo di vie, se si incrociano col desiderio di altri adulti di usare il medesimo spazio, possono portare a un amichevole compromesso e a regole condivise su chi e come e quando si può trovare lì. Là dove non si riesce ad arrivare ad un accordo del genere – o non lo rispetta – di solito può essere sufficiente la risposta delle ronde spontanee di cittadini. Esistono due tradizioni di mantenimento comunitario dell’ordine: quella dei «guardiani» risale addirittura agli inizi della colonizzazione del Nuovo Mondo. E sin ben addentro il XIX secolo erano questi guardiani volontari, non la polizia, a pattugliare i quartieri per mantenerne l’ordine. Lo facevano in massima parte senza applicare leggi, vale a dire senza punire nessuno e senza usare la forza. Funzionava la loro sola presenza come deterrente contro il disordine, oppure avvisavano il resto della cittadinanza nei casi in cui questa non era sufficiente. Anche oggi ci sono iniziative del genere in tutto il paese. La più nota è quella dei Guardian Angels, gruppo di giovani disarmati che indossano caratteristici berretti e magliette, diventati noti al grande pubblico per le ronde nella metropolitana di New York, ma che oggi vantano presenze e attivisti in oltre cento città. Non abbiamo purtroppo alcun dato degli effetti di queste attività sul crimine. È comunque possibile che, qualunque l’effetto sulle attività criminali, i cittadini avvertano una presenza rassicurante e si contribuisca così a mantenere ordine e civile convivenza.
La seconda tradizione è quella dei «vigilanti», che nasce nelle cittadine della Frontiera nei periodi precedenti all’insediamento delle normali istituzioni e amministrazioni. Si calcola che siano esistiti oltre 350 gruppi di vigilanti, contraddistinti dal fatto che si autonominavano tutori della legge, agendo come giudici, giuria e anche boia, oltre che come poliziotti. Oggi un movimento come quello dei vigilanti è cosa rarissima, nonostante i grandi timori espressi dai cittadini in quelle che stanno diventando le «frontiere urbane». Di sicuro però alcuni gruppi di guardiani hanno deviato in quel senso il proprio operare, ed altri potranno forse farlo in futuro. Un caso piuttosto ambiguo, riferito dal Wall Street Journal, riguarda ronde di cittadini nella zona di Silver Lake a Belleville, New Jersey. Un esponente dichiara al giornale: «Cerchiamo la gente che viene da fuori quartiere» e quando arrivano gruppi di adolescenti «gli chiediamo cosa vogliono: se stanno andando da qualche parte precisa a trovare una qualsiasi signora Jones, benissimo, vadano pure. Ma li seguiamo per verificare che ci vadano davvero, dalla loro signora Jones».
Se i cittadini possono fare moltissimo, è comunque la polizia l’elemento chiave per il mantenimento dell’ordine. Da un lato in molti quartieri come il complesso citato Robert Taylor, non si può operare completamente da soli. Dall’altro in nessun caso, nemmeno nei più organizzati, si comunica il senso di responsabilità che emana da una divisa ufficiale. Gli psicologi hanno condotto parecchi studi sul perché la gente non accorre in aiuto di chi è aggredito o chiede assistenza, concludendone che la causa non è né «apatia» e neppure «egoismo», ma l’assenza di basi su cui poggiare una responsabilità personale. Curioso che poi scansare la responsabilità diventi ancor più facile quando sono presenti tante persone. Nelle vie e negli spazi pubblici, là dove l’ordine è tanto importante, capita che ce ne sia parecchia di gente «attorno», e la cosa riduce la possibilità che qualcuno agisca in nome della comunità. Mentre l’uniforme del poliziotto lo qualifica come colui che la responsabilità se la deve prendere, davanti a una richiesta. In più un agente, con maggior facilità rispetto a un comune cittadino, deve saper distinguere tra cosa sia necessario per mantenere la sicurezza, e cosa invece serva al massimo per tutelare qualche presunta purezza etnica.
Ma le forze di polizia degli Stati Uniti tanno diminuendo di organico, non crescendo. In alcune città ci sono stati notevoli tagli del personale disponibile per il servizio. Tagli che con poca probabilità in futuro vedranno qualche sostanziale inversione. Quindi ciascun comando deve disporre delle forze disponibili con grande cautela. In alcuni quartieri è così bassa la fiducia, e così elevato il tasso di criminalità, da rendere pressoché inutile la pratica delle pattuglie a piedi, il meglio che si può fare è rispondere al massimo delle tantissime chiamate di emergenza. Altre zone risultano così tranquille da rendere superflue le ronde a piedi. Si tratta di individuare quei quartieri che si collocano a un punto di svolta: dove l’ordine pubblico si sta sgretolando, ma ancora non è arrivato a un punto di non ritorno, dove ancora si circola molto per le strade, anche se con molto nervosismo, dove qualche finestra rischia di essere rotta [corsivo del traduttore] e la si deve invece riparare in fretta, per far sì che non ne vengano rotte tante altre.
La gran parte dei comandi di polizia non hanno alcun modo di individuare sistematicamente queste aree in bilico, e assegnare ad esse delle pattuglie. Ai poliziotti gli incarichi vengono conferiti sulla base dei tassi di criminalità (vale a dire che si escludono zone poco a rischio per puntare su quelle praticamente senza speranza) o in relazione alle chiamate di servizio (nonostante il fatto che nessuno poi chiami la polizia se è soltanto spaventato o infastidito). Per allocare le pattuglie efficacemente, un comando esaminando i vari quartieri deve decidere, sulla base di dati di prima mano, dove aggiungere un uomo potrà fare la differenza nel promuovere senso di sicurezza.
Un modo di incrementare l’efficacia di risorse scarse si sta sperimentando in alcuni complessi di case popolari problematici. Le organizzazioni degli inquilini ingaggiano ex agenti per pattugliare gli edifici. I costi sono contenuti (almeno lo sono per i residenti), alla persona fanno comodo un po’ di soldi in più, e tutti si sentono tranquilli. Un tipo di scelta più efficace dell’ingaggiare guardie private, e il caso di Newark aiuta a capire perché. Una guardia privata può certo fungere da deterrente per le attività criminali o i comportamenti antisociali con la sua presenza, oltre ad aiutare chi ne ha bisogno, ma non riesce a intervenire – vale a dire controllare ed espellere – su chi non si comporta secondo i criteri condivisi. Essere un funzionario, un «vero poliziotto» pare conferire un senso del dovere, un’aura di autorità, necessari a svolgere questo difficile compito.
I poliziotti di pattuglia dovrebbero essere incentivati a spostarsi coi mezzi pubblici, e mentre stanno sull’auto bus o la metropolitana far rispettare i divieti di fumo, di bere in pubblico, disturbare e simili. La cosa da fare non consiste in altro se non allontanare il disturbatore dell’ordine (d’altra parte non si tratta certo di azioni che possano essere perseguite con un fermo o da un giudice). E magari cercare di mantenere con discontinuità ma regolarità qualche forma di ordine sui mezzi, lentamente porterà a quel genere di civiltà che oggi troviamo normale sugli aeroplani.
La cosa più importante però è convincersi che mantenere l’ordine in situazioni di rischio sia un obiettivo vitale. La polizia sa che questa è una delle sue funzioni, ma sa anche che giustamente non la si può svolgere trascurando le indagini criminali e le chiamate di emergenza. Forse possono essere stati spinti a credere, sulla base delle espresse preoccupazioni riguardo alla criminalità violenta, che il loro operato venga giudicato esclusivamente per la capacità di contrasto a questo tipo di reati. Se ciò è vero, i responsabili della polizia continueranno a concentrare forze là dove i tassi di criminalità sono più elevati (anche se non necessariamente nelle zone più vulnerabili all’invasione), ponendo in primo piano la propria professionalità nel combattere e reprimere e i reati (ma non quella nella gestione della vita di strada), finendo per partecipare a qualunque spinta di depenalizzazione di tutti i comportamenti qualificati «non dannosi» (nonostante l’evidenza che ubriachezza molesta, prostituzione nelle strade esposizione di immagini pornografiche, provochino un rapido deteriorarsi dell’abitabilità del quartiere, più di qualunque banda di ladri).
Concludendo, dovremmo prima di tutto tornare all’idea, da troppo tempo abbandonata, che la polizia debba proteggere le comunità, oltre che gli individui. I dati sulla criminalità e le indagini sulle vittime calcolano aspetti individuali, ma trascurano i danni collettivi. Allo stesso modo in cui oggi la medicina riconosce l’importanza di perseguire la salute e il benessere, invece di curare semplicemente le malattie, la polizia – e con lei tutta la collettività – deve riconoscere l’importanza di mantenere, intatti, i propri quartieri senza alcuna finestra rotta.
Da: The Atlantic, marzo 1982; titolo originale: Broken Windows. The police and neighborhood safety – Traduzione di Fabrizio Bottini
Immagini: BN Oscar Newman, Creating defensible spaces, US Department of Housing and Urban Development, 1996; COL foto F. Bottini