Quando si prova a sviluppare negli studenti universitari qualche sistematico interesse per le cose urbane, un classico errore in cui si inciampa è quello di partire da buone teorie e condivisibili concetti, ovviamente sviluppati in classici testi specialistici. Non che quelle teorie e concetti non siano sacrosanti e indispensabili, per provare almeno a capirci qualcosa della città, iniziando a districarne il ginepraio di contraddittorie componenti, ma così si rischia di provocare un effetto del tutto contrario a quello desiderato. Ovvero, di orientare quegli studenti, magari futuri brillanti studiosi, a un interesse che si applica non tanto alle cose urbane, quanto a teorie e concetti prevalentemente galleggianti nel loro satellitare iper-uranio. Scordandosi del tutto che le migliori, fra quelle teorie, nascono proprio dal sistematico confronto fra studi precedenti e realtà tangibile. Anzi, nelle discipline urbane il vero coefficiente di moltiplicazione in grado di accrescere il valore di una elaborazione scientifica, è proprio il suo grado di verifica sperimentale.
Il rischio principale è quello di finire per credere che la propria prospettiva di osservazione, necessariamente ristretta e particolare, valga più di altre solo perché queste non hanno magari categorie di riferimento tanto solide e strutturate a sostenere i propri giudizi. Cosa che vale in modo particolare, in questa contingenza, coi sacerdoti dell’economia, specialmente con quelli di orientamento liberale. Non passa praticamente giorno senza che qualche rivista di studi urbani o organo di informazione generale pubblichi ricerche corredatissime di tabelle e grafici del professor tal dei tali o addirittura del gruppo di lavoro tal dei tali. Che guardati un attimo più da vicino si rivelano per quello che sono, ovvero delle specie di tesine molto mirate e parziali, niente affatto comprensive, che però pretendono (eccome se pretendono) di essere prese come organiche e già belle e pronte per dettar legge e ispirare ispirate decisioni pubbliche.
Certo la forza irresistibile del metodo di discipline come quelle economiche, la loro legittimazione attuale a prescindere, rendono difficile non cadere vittima della sistematica seduzione, specie per certi politici di quinta fila miracolati ad occupare sedie strategiche. Ma spesso basterebbe seguire con paziente sistematicità una linea di pensiero, per scoprire infinite magagne in quegli studi parziali e diciamo un po’ faziosi. Oppure se proprio il grande decisore di turno non ha voglia o non ha abbastanza tempo per cimentarsi con l’impresa, potrebbe ascoltare anche altre campane: che – attenzione – è cosa ben diversa dal finanziare un convegno tenere il discorsetto “a misura d’uomo” introduttivo e poi tornare alle riunioni di conventicola. Ma non succede quasi mai, e così assistiamo a cose che parrebbero surreali se non le potessimo toccare con mano: le città e i territori sprofondano esattamente sotto la stupidità di scelte parziali, come il costruire dappertutto o dedicare spazi spropositati alle auto, e i nostri eroi alla fine dell’ennesimo convegno pubblicano le immancabili linee guida: più costruzioni e più auto! Hai voglia poi a fare opposizione sociale e culturale a questa banda di scemi: più che provocatorie azioni di guerrilla gardening, occupazione di alloggi vuoti da secoli, piste ciclabili verniciate di notte a costo quasi zero, a volte ci si chiede se magari chiamare un altro genere di specialista non sarebbe più utile. Il riferimento, implicito, è allo psichiatra, per la cura anche farmacologica del nostro eroico rappresentante del popolo.