«Perché, invece di prendervela con un onesto cittadino che ha parcheggiato l’auto giusto due spanne fuori dalle righe, non andate semplicemente a dare un’occhiata a quei brutti ceffi che girano attorno al bar dall’altra parte della strada? Non sarebbe quello, il vero mestiere di voi tutori dell’ordine?». Quante volte abbiamo sentito qualcosa del genere, o addirittura l’abbiamo pensato, considerando l’apparente sadismo con cui qualcuno colpevolizzava esageratamente una trasgressione alle regole condivise, invece di «affrontare il vero problema». In certe situazioni questo modo di pensare e agire si chiama benaltrismo, e la parola riassume perfettamente la faccenda: tutti d’accordo su ciò che è giusto e sbagliato, ma esistono delle priorità e degli squilibri di valore da rispettare, suvvia, e le cose non cambieranno certo penalizzando me, che ho giusto tatticamente sbandato di qualche frazione di millimetro dalla retta via. Sono ben altri, insomma i fronti su cui agire, si aggiunge a titolo di ineffabile conclusione. Il medesimo schema di ragionamento, pare ad esempio essersi riproposto molto di recente, quando dopo storiche decisioni internazionali relative al cambiamento climatico, a un blocco progressivo delle emissioni, i principali protagonisti strategici di queste emissioni paiono chiamarsi fuori a gran voce. Quasi involontariamente comico nella sua sfacciataggine, il massimo responsabile di una grande casa automobilistica, che commentava più o meno: «la nostra strategia tecnologica e di mercato rimane esattamente la stessa per i prossimi decenni».
Il problema è un altro?
Ma come, verrebbe da dire, proprio il comparto automobilistico, che direttamente e con gli effetti indotti su territorio, energia, consumi, stili di vita, è come minimo uno dei principali responsabili dell’impatto delle attività umane sul riscaldamento del pianeta, si chiama sostanzialmente fuori, sostenendo che insomma «bisogna prendersela con qualcun altro»? Evidentemente il grande manager in un modo o nell’altro non ce la racconta giusta: o le strategie sono cambiate, pur a nostra insaputa, oppure con questa specie di negazionismo aziendale si dovranno fare seriamente i conti, e piuttosto alla svelta. Perché vista la posta in gioco (ormai riconosciuta da tutti, negazionisti mistico-demenziali a parte), ha poco senso arzigogolare anche su cose come sviluppo, salari, aspettative di ricchezza, se per usare quella famosa frase dell’economista novecentesco «saremo tutti morti». Ma non, come intendeva e specificava, sul lungo termine, niente affatto, saremo proprio tutti morti suicidi, fisicamente, soffocati dall’idiozia collettiva. Per scendere di qualche gradino rispetto alle misteriose sparate del manager automobilistico, ovvero alle strategie collettive che corrispondono in fondo a quelle del suo settore industriale, pensiamo a certi modelli di sviluppo più o meno locale indotti dall’auto, come quello urbano e più in generale insediativo. Che dall’automobile dipendono come la vita dall’acqua, senza auto non potrebbero esistere, ruotano al 100% attorno a quell’oggetto. Potrebbero farne a me
Sempre, eternamente, tutto si tiene
C’è la cosiddetta città sostenibile venduta in infiniti renderings nel primo decennio di questo secolo, e variamente realizzata tra quartieri per la classe creativa dagli stili di vita urbani, boschi verticali, orti da terrazzo a chilometro zero, negozi di ogni genere sotto casa raggiungibili in bicicletta appena scesi dalla metropolitana leggerissima. Ci sono anche le realizzazioni pratiche tangibili di questi renderings, e non sono neppure poche, ma se andiamo a «vedere» in senso pokeristico, scopriamo che non solo la sostenibilità è un lusso per pochi, ma che per ogni persona che la adotta ce ne sono due o tre espulse a calci dall’eden urbano, e spedite nel purgatorio delle emissioni suburbane: auto sputacchianti (lo sono sempre), voragini energetiche da inefficienza sistemica, la catena infinita dei consumi indotti obbligatoriamente individuali, dalla casetta in giù. Forse è a questo infinito ma chissà perché poco visibile mercato che si rivolgeva la mente del nostro mega manager, convinto che i famosi «tempi lunghi» coincidano con le sue strategie di bilancio e profitto. E il medesimo mondo parallelo, dei dannati a loro insaputa, nei gironi del centro commerciale, del pieno che costa più del dovuto, dei pannelli solari familiari che non arrivano mai, ha anche i suoi organizzatissimi profeti, armati di cosiddetto e sventolato buon senso: esattamente come i negazionisti mistici, anche i profeti del suburbio global-dream hanno alcune fedi incrollabili. Tipo la tendenza naturale dell’uomo a formare una famiglia, a spostarsi liberamente nello spazio con quattro ruote, a iscrivere i figli a una scuola che sta a cinquanta chilometri di distanza e al diritto di andarci tutte le mattine in superstrada. Eccetera. E trovano per forza consenso, perché se tutte le volte che si prova a ragionare su uno, uno solo dei particolari di questo meccanismo a orologeria, si vede il politico di turno ringhiarci «il problema è un altro», non andiamo proprio da nessuna parte. E i tempi lunghi intanto sono agli sgoccioli. Leggetevelo, questo ennesimo finto buon senso di due campioni del negazionismo suburbano come Cox e Kotkin, coi loro dati farlocchi e truccati, al solito. Giocano sporco, ma non sono certo gli unici.
Riferimenti:
Wendell Cox, Joel Kotkin, Our anemic suburbs: Every urban area needs its outskirts — and New York City’s are in trouble, New York Daily News, 13 dicembre 2015