«Chiamatemi Ismaele. E chiamatemelo in fretta, se non volete farmi incazzare!».
La voce del panzone salì fino ai tubi dell’acqua calda, un attimo prima che la Samantha entrasse nel bugigattolone che qualche entusiasta chiamava open space. La sbirciai mentre fataleggiava verso lo schermo del computer, strizzata in una poltroncina.
La voce del panzone tuonò pastosa sui vetri smerigliati: «Avanti. Venga pure, Ismaele. Ora posso riceverti».
Lo ascoltai iniziare una ampollosa telefonata col ragionier Pasqua, commercialista ed impalpabile eminenza grigia dell’intero baraccone. Poi, visto che la cosa andava per le lunghe, entrai deciso.
Mentre con ampio gesto mi indicava il basso sgabellino di plastica, incrociai i suoi occhi grigio acciaio. Aveva indubbie qualità magnetiche, quell’uomo: bastava guardarlo dritto in faccia per un momento, e ti sentivi travolto dalla vertigine. Dimenticavi la sua insopportabile megalomania, ed anche il suo orrendo vizio di non tirare l’acqua in bagno, per affacciarti al davanzale delle sue ciglia, a contemplare insondabili abissi di vuoto pneumatico.
La voce imboccò un interessante tono in discesa, preludio ad una probabile conclusione della telefonata. Alzai lo sguardo giusto in tempo per ascoltarlo salutare il commercialista … e per afferrare al volo un pacco di fotocopie scarabocchiate.
Appoggiata la cornetta, guardandomi come se fosse stupito di vedermi ancora lì, il Bonetti lasciò andare un generoso: «Abbiamo grande apprezzamento delle tue qualità redazionali, e confidiamo nella consegna per lunedì del supporto informatico corrispondente. Chiudi la porta e mandami la Samantha».
Quello che il Bonetti chiamava «Tradurre sul supporto informatico», era una strana faccenda: per la Samantha un esercizio di dattilografia; per me una missione ai confini del genere umano. Per gli altri che gravitavano attorno alla baracca, le sfumature erano solo vagamente distinguibili, come diversi e misteriosi riti iniziatici. In pratica, si ascoltavano cassette registrate, coi deliri dialettali di qualche assessore, e si trasformava il tutto in articoli per riviste, atti di convegni, lettere ai giornali, o addirittura capitoli di libri. Il pacco che mi trascinai fino a casa, era particolarmente intricato e urgente. Visto che non volevo perdermi un minuto del weekend, attaccai registratore e computer subito dopo cena.
A mezzanotte in punto, il telefono interruppe una colluttazione con schiere di genitivi multipli. Una voce concitata fece irruzione nel mio piccolo mondo di scempiaggini assessorili: «…tremendo, incredibile! Ah, Alfio, Alfio! Piegato, sdraiato contro il bidet. Ah, Alfio, Alfio!».
Mi sorbii un’infilata di frasi idiote, soffiate come da un mantice dentro la cornetta: «Oh, Alfio, lo vedessi. Sembra vivo. Uguale! Qui siamo tutti nel turbiglione, ma lo so che a te in fondo non frega niente. Tu non lo amavi! Comunque è per domani alle nove, la riunione … Oh, come sono sconvolta!».
Rimasi a scrutarmi la mano destra, mentre ascoltavo con interesse il ..tuu..tuu..tuu.. della cornetta.
Il Bonetti, l’avevo conosciuto rispondendo a un’inserzione. Dopo un’anticamera di mezz’ora, ero stato ammesso in una sala enorme, semivuota, dove una cinquantina di ottimisti come me attendevano il lieto evento.
Con notevole ritardo, un gruppo di scalcinati barbagianni si era insediato al tavolo di presidenza. Fra tutti spiccava un omone, che partì in tromba:
«Il degrado dei centri urbani e l’impoverimento dei paesi terzi, la crisi di rappresentanza sindacale e lo sterminio delle specie animali e vegetali, i nuovi progetti di esplorazione dello spazio e le questioni delle pari opportunità, mettono in primo piano problemi complessi, articolati, probabilmente destinati a condizionare le scelte strategiche dei governi negli anni a venire …».
Dopo due ore, eravamo rimasti in otto. L’oratore concluse con una disorientante citazione in dialetto, e la convocazione del pranzo, salutata entusiasticamente dai superstiti al tavolo di presidenza.
Io ero rimasto più che altro per guardare una tipa coi capelli cotonati, due file davanti a me. Quella, era la Samantha.
Mi stavo chiedendo, che senso avesse lavorare per un principale che se ne stava stecchito tra il bidet e la finestra. Smisi di chiedermelo cadendo addormentato sulla scrivania, fino a quando le urla di un pensionato contro il governo non mi fecero sobbalzare. L’orologio segnava le otto e venti.
Con un po’ di fortuna, riuscii a sbucare dall’ascensore dell’ufficio mentre dal fondo del corridoio arrivava il mesto corteo: l’inconsolabile vedova ufficiale che agitava gramagliate terga; la Samantha, agitata da passioni contrastanti; un assortimento di tirapiedi e carneadi, chiuso in bellezza dal ragionier Pasqua in persona.
Non era una presenza abituale in ufficio, quella della vedova, signora Lina. Si mormorava fosse lei, a tenere i cordoni della borsa, ma la si vedeva solo, girellare goffa e ingombrante tra le scrivanie, tastando i computers come si fa col bestiame, ciarlando di imbarazzanti nullità, farcite di incomprensibili battutine.
Stavolta, aveva deciso di strafare. Con gesto matronale ci invitò ad accomodarci (eravamo già tutti seduti da un pezzo), cavò dal borsone leopardato un pacco di appunti, ed iniziò il suo show: «L’impegno che in questi anni il professor Bonetti ha profuso, anche con notevoli sacrifici finanziari…».
Dopo venti minuti di sciocchezze, iniziai a concentrarmi sulle tette della Samantha, che il respiro concitato faceva ondeggiare secondo un ritmo – manco a dirlo – sinusoidale.
Allo scoccare della mezz’ora, la signora Lina concluse brusca: «… l’ufficio si intende chiuso con la giornata odierna di oggi pomeriggio. Per le pendenze economiche, discutiamone. Uno per volta. Grazie».
Staccai gli occhi dalla Samantha giusto in tempo per veder scomparire l’ultimo quarto di signora Lina dietro il telone delle proiezioni.
Il più giovane dei tirapiedi, entrò mesto e fiducioso. Dopo qualche istante dalla porta socchiusa si iniziarono a sentire urla e strepiti. Mentre tutti si avvicinavano al fondo del corridoio, corsi fino al bugigattolo della Samantha, e poi fuori dalla porta e giù per le scale. C’era un negozio di ferramenta all’angolo, ma mi spostai di qualche isolato per fare la copia del mazzo di chiavi che la Samantha (unica oltre al Bonetti e alla portiera) possedeva e maneggiava quotidianamente. Tornato di corsa in ufficio, ributtai il mazzo di chiavi nel cassetto, nascondendolo dietro un rotolo di nastro adesivo.
Il ragionier Pasqua, in piedi sulla porta dell’ufficio che era stato del Bonetti, stava leggendo ad alta voce, ai pochi rimasti, un documento. La Lina strepitò da dietro la porta: «Allora, voi due, dentro tutti! E te, Salama, ricordati le chiavi».
Poco dopo l’una, la Samantha attraversava la strada, trascinando un paio di scatoloni. La raggiunsi, e mi caricai in spalla quello più grosso, che posai di fianco al tavolino di un bar, sbuffando: «Siediti un momento. Ne hai bisogno». Era un’idiozia degna dei peggiori telefilm, ma chissà come ebbe successo. Senza che le chiedessi nulla, mi raccontò come la Lina e il ragioniere l’avessero sbattuta fuori, strappandole dalla borsa le chiavi dell’ufficio:
«.. sai che ieri sera avrei voluto chiamare te, per primo? … ero stata al cinema, e sulla porta di casa inizia a suonare il telefono. E’ la signora della portineria, che al venerdì sera va su a fare le pulizie. Mi dice … venga subito, signorina, che c’è il signore per terra nel gabinetto …, e io corro in taxi fino all’ufficio, dove quella mi aspetta sul pianerottolo, a fa a bassa voce …non si muove, vada, vada a vedere … e poi scappa giù per le scale».
La Samantha si guardò attorno, circospetta, prima di riprendere, rauca: «C’erano quasi tutte le luci spente, e dalla porta del bagno l’ho visto, con la faccia nascosta dietro al bidet. Mi sono tappata il naso, perchè c’era una gran puzza di alcool, ma sono entrata lo stesso, e l’ho trascinato nel corridoio. Poi ho aperto la finestra, per tentare di farlo respirare. Allora mi sono accorta …».
Non avevo niente da perdere, e osai l’impensabile. Allungando una mano, le stropicciai un orecchino sparando un televisivo: «Continua, se ti fa sentire meglio».
Avevo la pancia dura come un batiscafo, forse per via delle due notti quasi in bianco e della dieta, ma non andava poi così male. Mi infilai in silenzio nei vestiti, scarabocchiai sullo specchio con il dentifricio un cuoricino, ci aggiunsi un esoterico «see you later, alligator!», e feci per scappare via come un ladro.
La Samantha si girò nel letto proprio mentre stavo aprendo la porta. Parlottava, apriva gli occhi e li richiudeva come un sipario impazzito. Soprattutto, dormiva. Magari male, ma dormiva. Scappai via, comunque, come un ladro.
La pancia si lasciò sfuggire un primo, piccolo, segnale di relax, mentre parcheggiavo davanti a casa. Ne seguirono altri due o tre, mentre salivo le scale. Anche se Jack London l’aveva sempre sconsigliato, decisi che una birra, a quel punto, era inevitabile.
«… si prevedono precipitazioni nel pomeriggio. Ricordiamo che il traffico automobilistico è proibito per le macchine, in concomitanza a cinquecento metri dallo stadio …».
Suonò il telefono. All’altro capo del filo, la Samantha era entusiasta: «… after a while, crocodile! Sai che mi hai schizzato di dentifricio anche lo scaldabagno? Ma adesso, ascolta. Nel dormiveglia, mi sono fatta un sacco di domande: perchè la Lina è stata così fredda e razionale? Perchè il medico che l’ha visto per primo era un parente del ragioniere? Ci vedo un che di contorto, in tutta la faccenda. Parliamone stasera magari di fronte a una pizza». Riattaccò senza nemmeno salutare, lasciandomi impalato a sventolare il telefono, come un ottimista mentre passano i carri armati dei liberatori.
Fuori, il cielo si stava riempiendo di nubi nere. Giocherellai per un po’ con un mazzo di chiavi: la copia che ero riuscito a fare, di straforo, mentre tirapiedi e parenti in malafede celebravano a modo loro l’anticipato funerale del Bonetti. Alla fine, mi infilai di soppiatto dentro l’impermeabile, e scesi ad attraversare la strada, sotto le prime gocce di pioggia.
Sbloccato il chiavistello, spalancai il battente verniciato di grigio su una nutrita platea di gatti, che mi fissarono per una frazione di secondo con gli occhi sgranati, per ritornare immediatamente a leccarsi il culo, con la zampa puntata contro il soffitto in una specie di saluto nazista.
«Pasqua, dài chè tardi! Alùra, eh?». Il placido accento di campagna della Lina mi gelò sul punto di non ritorno, a metà corridoio. Capii che ero circondato quando, dalla direzione del bagno, la vocina pignola del ragioniere sibilò un grugnito, subito coperto dal suono dello sciacquone.
In altri momenti, mi sarei certo soffermato a riflettere sulla stranezza fonetica di un grugnito sibilato da un ragioniere, ma ora non avevo tempo per certe pensate, e nemmeno per il pensiero in generale. Così, appunto, senza pensarci, mi arrampicai in cima alla scaffalatura metallica che divideva il cubicolo della Samantha dal corridoio. Sul quarto ripiano c’era posto per una persona: lo sapevo, perchè avevo finito di riordinare l’archivio, qualche settimana prima.
Sistemato il sedere tra fascicoli polverosi, con il cuore che pestava come un lattoniere, aspettai immobile lo svolgersi del mio corrente destino. Tre metri più in basso, la signora Lina sbraitò qualcosa, e il ragioniere dal bagno rispose, stranamente giocoso. Anche perchè non avevo altro da fare, iniziai ad ascoltare tutto quello che si stavano dicendo.
«Hai finito? Dai, che mi fa star male rimanere qui dentro! E non capisco niente del compiuter. Vieni qua a vedere, che poi andiamo via».
«C’erano un mucchio di segni, e tutto il liquore per terra. Adesso ho quasi finito. Aspetta, dai, che cerco quel sacchetto giallo, per rimetterci dentro gli stracci …».
«L’ho buttato via, eh la madonna! Non potevo guardarlo, e nessuno se ne accorgerà mai. Vieni qui, prendiamo le cose delle banche, e andiamo via».
«Torniamo prima di andare a letto. Non attaccare l’allarme, tanto qui non c’è più niente da rubare».
Guardai con raccapriccio il ragioniere che strizzava il culo della Lina, baciandola rumorosamente contro lo stipite dell’ingresso.
Sul divano di fianco alla scrivania, di fronte ad un tavolino ingombro di cartacce unte, tracannai un gran sorso di birra, e raccontai tutta d’un fiato l’intercettazione da sopra lo scaffale. La Samantha, alla fine, sbuffò: «Tombola! Adesso sarà meglio mettere le carte in tavola. Io e te, intendo. Ieri ero confusa, stanca, ma ora è ora. Vediamo di mischiare quello che abbiamo visto e sentito: io l’altra notte, e tu oggi pomeriggio. Chi inizia per primo?».
Senza una parola, incrociai le dita dietro la nuca, lanciando placidi sorrisi verso il soffitto. Lei mi puntò addosso per qualche istante gli occhi gialloverdi, poi strizzandomi tra due dita la punta del naso attaccò: «Questa faccenda puzza. L’ho capito tutto in una volta, ieri mattina. Ci hanno fregati: prima l’Alfio, e poi la Lina e quella mummia … L’altra notte quel cesso era sporco al punto giusto, quando ci sono entrata io. C’era puzza di liquore, e per la prima volta da parecchi mesi, il sacco di plastica gialla con gli stracci e i detersivi non era nell’angolo tra il bidet e la finestra. L’ho notato, perchè tutti i flaconi erano sparpagliati sul pavimento. Tra l’altro, in mezzo ai detersivi ho trovato questo».
Mi appoggiò sul petto un cartoncino rettangolare, vagamente profumato, da cui pendeva una cordicella rosa. Sollevai la testa, ed iniziai a sfogliare quel libretto.
Era un calendario tascabile, del tipo che parecchi anni prima si regalava nelle botteghe dei barbieri, con pin-up a colori pastello, e battute umoristiche. Sapevo che il Bonetti aveva una collezione, di queste rarità, in un cassetto della scrivania.
La Samantha non avrebbe mai potuto capire, questo ridicolo, eroico specifico maschile. Visto che c’era di mezzo un cadavere, tentai di erudirla almeno sui meccanismi pratici della faccenda. Mi ci volle un bel po’, di tempo e di vergogna.
Dalla strada iniziavano a salire i rumori del traffico. Era lunedì mattina, e mancava poco al funerale. Ci guardavamo in faccia senza motivi particolari. Il solito pensionato, al terzo piano, iniziò a gridare contro il governo.
Anch’io, iniziai il mio comizio: «Immaginati il venerdì sera, in ufficio. L’Alfio Bonetti ci sbatte tutti fuori con un bel pacco di straordinari per il weekend, e poi va avanti un paio d’ore a grappa, caffè e telefonate. Lo sai quanto me, che era il suo passatempo preferito, e che chiamava anche queste cretinate «strategia d’impresa». Immaginiamoci che vada nel bagno, e che si guardi bramoso quel calendarietto da barbiere. Mettiamo che la porta si spalanchi di colpo, l’Alfio scatti in piedi per la sorpresa … e la pressione gli giochi un brutto scherzo. Il nostro Mister X lo vede svenire, prende il sacco di plastica dei detersivi e glie lo infila sulla testa, aspetta una decina di minuti, poi se ne va, tirandosi dietro il sacchetto giallo. Il compianto Bonetti, con i pantaloni risistemati, le mani ripulite, è pronto a farsi trovare dalla signora delle pulizie. Altro che coccolone da superlavoro! Prima di proseguire, vorrei chiederti: capisci qualcosa, di questioni legali?».
La mia vecchia giacca di fustagno con le toppe le stava benissimo. Si lasciò cadere sul sedile, borbottando: «Longtemps, je me suis couch‚e de bonne heure. Mica come adesso, con uno psicopatico che mi fa stare sveglia tutta notte, parlando molto e scopando pochissimo. Passami la bottiglia, che ho una fifa blu».
Anch’io ero terrorizzato, ma non volevo puzzare come una distilleria, alle nove del mattino, davanti al tizio che stavamo andando a trovare. La Samantha in certi ambienti poteva fare la sua figura anche un po’ su di giri, io no. Dopo una decina di minuti la lasciai sola e addormentata, in sosta vietata, con il solo conforto di un bigliettino adesivo. Ci avevo scritto sopra una bella citazione patriottica: «TIREMM INNANZ». Sapeva le lingue, la Samantha.
L’usciere era stato asciutto e professionale: «Terzaportaprimabussi».
Il signor Terzaportaprimabussi, con gesto largo e cardinalizio mi indicò la poltroncina. Mentre il sudore mi scivolava giù dalle ascelle, lo guardai negli occhi marroncini: «Volevo chiedere un’autopsia. E’ una storia lunga, ma l’autopsia ci vorrebbe subito, perchè tra qualche ora c’è il funerale. Ora, io non so tecnicamente come funzionano queste cose, me lo spieghi lei».
La porta si spalancò di colpo, e la Samantha fece irruzione nel piccolo ufficio. A dire il vero, era entrata educatamente: l’idea di irruzione, la davano gli occhi marroncini di Terzaportaprimabussi, improvvisamente spalancati e accesi di luce propria.
Il burocrate dietro la scrivania agitava il sederone tentando di non dare nell’occhio, mentre la guardava sedersi ed iniziare la sua versione della storia. Lei, aveva un alito che avrebbe entusiasmato gli studiosi di Edgar Allan Poe.
Partì da lontano, e farcendo il racconto di divagazioni arrivò fino al punto da dove avevo iniziato io. Improvvisamente, si alzò in piedi, e con gli occhi fissi al crocefisso sul muro mormorò ispirata: «scusi se tiro in ballo la fede, ma credo che le persone di cui stiamo parlando siano del tipo che non piaceva a San Paolo, quello delle lettere ai Cicisbei». Cavò di tasca la sua agendina, e con aria alcolicamente ispirata recitò:
«costoro servono al loro proprio ventre, e coll’onesto parlare e colle lusinghe ingannano i cuori dei semplici».
Il burocrate, si era girato verso il muro a guardare il crocefisso. Rivolgendosi al ficus nell’angolo, dichiarò pensoso: «San Paolo, … quello del Brasile, eh già. Signori: qualche volta le cose funzionano. E noi le faremo funzionare!».
Finse di lanciarmi una fiammeggiante occhiata, ma sapevo che stava guardando le tette della Samantha. Mi porse un modulo, e senza toglierle gli occhi di dosso proseguì: «Quando c’è l’urgenza, noi siamo qui per il servizio. Anche pochi minuti, se necessario». Potevo immaginarmelo, il tipo di servizio che aveva in mente Terzaportaprimabussi, ma la cosa più importante era che ce l’avevamo fatta. Firmai il modulo compilato, pensando alla faccia della Lina, da lì a poco.
Samantha, sospirando una tremenda zaffata di liquore, mi pizzicò una specie di segnale Morse tra le scapole. Non riuscivo ad indovinare cosa volesse dire. Magari stava citando l’Apocalisse, dalla sua agenda. Oppure, avevo una piega nella giacca, proprio lì.