La non-notizia gira ormai da una ventina d’anni almeno, puntualmente ripresa in qualche parte del mondo dal giornalista ultimo arrivato che per motivi del tutto locali «fa lo scoop» rivangando la medesima solfa: il centro commerciale è morto, i clienti disertano le sue navate di vetrine, e si moltiplicano gli scatoloni abbandonati al loro destino di degrado e nuove «funzioni informali» al limite dell’orrore, dietro a uno svincolo o sulle fasce esterne della superstrada. Vale la pena ricordare che questa presunta crisi verticale dello shopping mall è già stigmatizzata in quelle leggendarie sequenze dell’inseguimento nel film The Blues Brothers all’interno del centro Dixie Square a Harvey, nella regione metropolitana di Chicago, abbandonato dal 1976 dopo la chiusura del «negozio àncora» J. C. Penney. Ma come sappiamo dai progetti successivi di recupero e riuso, nonché dal fatto che di analoghi complessi se ne sono costruiti e/o riorganizzati e ampliati decine di migliaia da allora, si trattava al massimo di un caso locale, a parte le dimensioni nulla più del panettiere che stenta all’angolo della nostra via, e abbassa le serrande, non immediatamente sostituito dal minimarket etnico, o dalla lavanderia, o dalla filiale della banca. Ma il giornalista ansioso di scoop ad ogni costo del giorno d’oggi, ha sempre il suo infallibile asso nella manica: la vera notizia è che la fantasticata crisi verticale del mall sarebbe innescata da Amazon e in genere dal dilagare dell’e-commerce.
Smaterializzazione?
La storia la conosciamo bene per sommi capi: fermo restando il paradigma consumista, anche nelle sue forme più estreme compulsive identitarie, al passeggiare qui e là tra le luci scintillanti di un percorso tra i prodotti più trendy del momento, si va a sostituire quella maniacale navigazione web tra links pubblicitari, siti, offerte, pagine specializzate, fino all’apoteosi finale del click sulla forma di pagamento prescelta, e all’attesa della consegna, a domicilio o nel punto di prelievo. E certo tutto questo lo shopping mall lo mette in crisi, ma non nel senso immaginato dai suoi eterni principali avversari, ovvero i negozi urbani di prossimità e la loro ostinata (almeno a parole) affezionata clientela. Resta fermo e incrollabile il modello economico e territoriale, infrastrutturale, automobilistico, proprietario che del centro commerciale tradizionale è stato la culla e il laboratorio, ovvero l’espansione urbana infinita e casualmente speculativa. Con una marcia in più, per inciso, rispetto all’antico svuotamento della rete commerciale urbana tradizionale effettuato da metà XX secolo in poi. Se il processo di suburbanizzazione spinto sia dal white flight che dallo stesso decentrarsi dei servizi alla nuova popolazione dei quartieri dispersi, lasciava semplicemente dei vuoti urbani, destinati a restare tali o a riempirsi di funzioni diverse, in genere di fascia inferiore, con la cosiddetta «smaterializzazione» del commercio online ci sono effetti fisici pervasivi su entrambi gli ambienti, oltre che nel mondo virtuale e sulla società naturalmente.
La permanenza del metro cubo
Per capire meglio il processo, bisogna tenere conto che dire «il centro commerciale entra in crisi per colpa del commercio online» è una esagerata semplificazione, sottolinea l’aspetto più vistoso ma ne trascura altri importanti. Quello che più interessa le aree urbane è la migrazione e vera e propria transustanziazione del passeggio commerciale in varie forme, che dello shopping mall scatolone suburbano mantengono però intatta la traccia organizzativa e le reti di riferimento. La più classica è in pratica l’inverarsi in altri modi del sogno di Victor Gruen, quando dopo lo strepitoso successo del suo standard indiscusso voleva estendere la progettazione integrata e la regia dei medesimi operatori anche alle città centrali. Esperimento fallito e abbandonato dopo un famoso tentativo a Fort Worth in Texas, ma che decenni dopo costituirà il palinsesto di fatto per i programmi dei Business Improvement District. E non tralasciamo, sempre per quanto riguarda le trasformazioni commerciali urbane, anche quelle forme spurie di mall verticale in ambiente denso, magari con il riorganizzarsi della composizione merceologica, o degli accessi in mobilità dolce, e comunque di adattamento parziale al contesto fisico. Resta, saldissima, la logica organizzativa di tipo industriale e complesso, nata a suo tempo col grande magazzino, cresciuta e perfezionata con lo shopping mall suburbano, e che oggi ritorna più o meno identica dal virtuale-fisico del commercio online ad altre evoluzioni. Combinando commercio vero e proprio, finanza, e asset immobiliari: che si tratti di un palazzo in centro, di uno scatolone in periferia o in aperta campagna, di un intero parco logistico lungo l’autostrada, di una rete di punti di consegna che sostituiscono le antiche botteghe, non cambia nulla. E qui dentro ci sta anche la «contraddizione» (che contraddizione non è affatto) di un nuovo asset finanziario-immobiliare sotto forma di …. Il Più Grande Centro Commerciale Americano proposto dalla Triple Five a Miami, forse non a caso in Florida dove vanno a stare tutti i pensionati baby boomer, con gusti novecenteschi e redditi tutti da mungere adeguatamente.
Riferimenti:
Triple Five, American Dream Miami
Per i testi citati di Victor Gruen si veda il tag omonimo riportato a piè di pagina