Il termine “indiani metropolitani” ha avuto un gran successo mediatico ben oltre l’effimera vita dei gruppetti anni ’70 che si identificavano in quella figura. Come tutte le definizioni di successo, ha avuto però una progressiva, banalizzazione, distorsione, uso a dir poco contraddittorio, sino a non significare più assolutamente nulla salvo quanto inteso al momento da chi lo usava. Ma almeno un carattere, per quanto secondario, l’ha conservato intatto: quello di circoscrivere un gruppetto minoritario ma fiero della propria specificità, oltre la diffidenza, l’isolamento, finanche il ridicolo. Certo, un conto è identificarsi nei nativi americani, esponenti di una civiltà sconfitta dalla brutale colonizzazione europea e poi ancor più brutalmente schiacciata dall’industrializzazione del continente, altro conto il generico chiudersi dentro recinti identitari esclusivamente conservatori e quasi sempre settoriali. Perché è sostanzialmente questa la natura assunta dalle moderne tribù che popolano oggi la metropoli, anzi troppo spesso addirittura spopolano.
Tanto per fare un esempio a caso, quella degli amici degli animali, nelle varie sottospecie dei protettori o appassionati di cani gatti o affini, sino ai cosiddetti animalisti come si definiscono anche le bande di idioti che hanno minacciato via Facebook quella ragazzina colpevole di dire che forse certe sperimentazioni da laboratorio, forse, servono a qualcosa. Lo scontro fra le sterminate orde di animali, animalisti, animalofili e non diventa poi ciclopico quando a scala dell’intero continente europeo si moltiplicano gli avvistamenti urbani del nemico pubblico numero uno: il lupo. Proprio lui, quello delle fiabe un po’ horror oggi transustanziato come tanti altri predatori in una specie di animaletto di peluche. Quasi estinto nei processi di industrializzazione e urbanizzazione ottocenteschi, negli ultimi anni ha avuto una sorprendente ripresa, quadruplicando la popolazione europea dagli anni ’70 a oggi. Avvistamenti nei pressi di grandi metropoli, da Berlino, a Roma a Atene, come di centri urbani minori, in buona sostanza coerente con le ipotesi degli zoologi esperti studiosi di altre realtà urbane e ambientali di altri continenti.
La natura deve chiudere il cerchio, e come in tutti i casi c’è la famosa morte da cui rinascere, il predatore in cima alla catena alimentare. In fondo molto più ovvio finire dentro le fauci di un lupo, di un orso, di una tigre, di un puma, che sotto le ruote di un camion, no? Sembrano battute di cattivo gusto, ma altro non sono se non una specie di rinaturalizzazione dello spirito parallela a quella di rinaturalizzazione della metropoli. Le infrastrutture verdi si popolano di vegetali, erbivori, e carnivori, così come non mancano margherite e topolini, potevano mancare quelli che mangiano le margherite e i topolini? Ed ecco ripresentarsi in altre forme infinitamente più complesse il medesimo scontro che ha visto sul social network quell’esplosione di idiozia contro la ragazza che metteva in dubbio alcune certezze. Esplosione di idiozia non solo nei toni, ma anche nell’approccio del tutto folle e irriflessivo: c’è sicuramente un problema nel nostro rapporto con l’ambiente, che non si affronta né con le schematicità dell’epoca industriale, né con il loro altrettanto schematico rifiuto. Basta guardare le date sulla ripresa delle popolazioni di lupi, per intuire qualcosa.
Corrispondono esattamente all’affermarsi generalizzato del processo di deindustrializzazione europea, e casualmente anche alla prima grave crisi energetica petrolifera. Qualcosa vorrà pur dire, no? C’è un percorso di artificializzazione delle regioni metropolitane che, in corso dal XIX secolo così come la progressiva scomparsa dei grandi predatori, si interrompe. Dovrebbe interrompersi anche il nostro atteggiamento e prospettiva di osservazione, e infatti iniziano più o meno da lì i movimenti di massa conservazionisti, ambientalisti. Che però scontano un approccio settoriale a temi che settoriali non sono affatto: la paura antica del lupo si affrontava in un certo modo, fiabe terrificanti ammonitrici comprese; che si fa oggi? Dobbiamo immolarci a un animalismo di maniera lasciandoci sbranare nel giardino di casa, nel caso un branco di pelosi canidi alla Jack London si materializzi all’angolo dietro il supermercato? Detta così pare una sciocchezza, ma è sicuro che, dai lupi alle nutrie a tanti altri casi di “invasione improvvisa” non è possibile né ripetere certi errori passati, né imboccare percorsi semplicemente del tutto opposti. Pena l’inutile e controproducente scontro fra tribù metropolitane, che non porta da nessuna parte, e figuriamoci le povere bestie (o le essenze vegetali) che non partecipano affatto al dibattito.
Più o meno la medesima cosa si potrebbe dire per le tribù della mobilità. C’è quella dei ciclisti molto all’ordine del giorno, per loro, per ottenerne il consenso, pare si faccia di tutto, come quei sindaci che da lustri si presentano più o meno in buona fede a ogni appuntamento pedalando sudati, e/o promuovendo chilometri e chilometri di piste ciclabili, a volte solo a parole, spesso in modi che a ben vedere con la circolazione in generale hanno poco a che fare. E poi ci sono le masse degli automobilisti conformisti novecenteschi, che odiano i ciclisti, e gli utenti del trasporto pubblico, e poi quella condizione di pedoni che proviamo tutti, ma che chissà perché diventa identitaria solo per alcuni. Possibile, almeno in prospettiva, provare a riflettere in modo non strettamente tribale? La segregazione non ha mai giovato a nessuno, salvo a chi finge di combatterla, in realtà rafforzandola per puri scopi di potere. Guardatelo bene, questo signore o gruppo: non propone mai nulla di sistemico, complessivo, complesso, si limita a indicare nemici, alleati, cose facili da capire quanto prive di senso. Vogliamo la pista ciclabile, il sottopassaggio, la salvezza dei lupi selvatici, oppure vogliamo poter andare da qui a lì a far qualcosa in santa pace e senza far male a nessuno? Pare una domanda strana, solo perché di solito qualcuno vuole evitare che ce la poniamo. Molto più facile fare il capotribù, urlando sopra la confusione.