Tempi duri quelli che stiamo vivendo. Soprattutto per chi abita nel nord ovest e si è confrontato per settimane con perturbazioni intense che hanno prodotto effetti devastanti sulla vita delle comunità che abitano questi territori: frane, smottamenti, esondazioni e relativi disagi. Trasporti in tilt, città impazzite, centri minori isolati, paesaggi, insediamenti e attività economiche devastate dalla furia dei fenomeni, senza contare poi il bilancio delle vittime. Giorni di emergenza, polemiche e solite grida manzoniane di qualche ministro che ha evocato la necessità di “grandi piani per il rischio idrogeologico” (che tra l’altro già esistono, qualcuno avvisi Del Rio) e il contestuale stop al processo di consumo della risorsa suolo.
È difficile rimanere sobri in questo clima, nel quale soprattutto la politica parla un linguaggio schizofrenico che entra in risonanza con il rumore dei media. Nel momento del dramma si esprimono reazioni indignate (e relativo scarica barile collettivo) contro il degrado del territorio, l’uso irragionevole delle risorse, l’edificazione e urbanizzazione incontrollata. Poche settimane o pochi giorni prima degli eventi catastrofici, dagli stessi scranni abbiamo invece ascoltato la retorica della crescita che ha portato all’approvazione dello “Sblocca Italia”, nonché di una legge regionale (in Lombardia) che si definisce “contro il consumo di suolo” ma che nei suoi effetti autorizza l’attuazione nei prossimi tre anni di sconsiderate urbanizzazioni su 55.000 ettari di suolo
Pensavamo di averle viste tutte, e invece a furia di raschiare il barile, prima o poi qualcosa di bizzarro emerge sempre e comunque. E non va certo in una direzione diversa il Disegno di Legge Lupi per la riforma della legge urbanistica nazionale. Viene da chiedersi se la correlazione tra assalto del territorio e catastrofi ambientali, venga effettivamente colta da gran parte del nostro ceto politico; se effettivamente costoro sanno di che cosa parlano quando si abbandonano a certe reazioni, o deliberano questo tipo di provvedimenti.
Nello scorso mese di luglio mi è capitato di assistere alla inaugurazione ufficiale della Bre.Be.Mi. e al discorso nell’occasione pronunciato del Presidente del Consiglio. Ovviamente la maggior parte dei media presenti nei suoi servizi si è concentrata sugli ultimi 5 minuti dell’intervento, dedicati alle vicende parlamentari e alle relative scaramucce tra partiti e correnti. Personalmente sono rimasto più colpito dai precedenti 20 minuti del discorso; quelli dedicati al dileggio e scherno di un sistema di valutazione e approvazione dei progetti che produce iter realizzativi estremamente lunghi e contrastati; alla burocrazia cialtrona che impone veti, autorizzazioni, procedure vessatorie dagli acronimi inquietanti e dai contenuti fumosi (V.I.A., V.A.S., A.I.A.). Per non parlare poi del ruolo delle Sovrintendenze, associate nel linguaggio del Presidente Del Consiglio al paradigma del conservatorismo corporativo. Insomma una sorta di versione 2.0 del famoso mantra dei “lacci e lacciuoli” di solito recitato da attori ed esponenti politici di diversa provenienza.
Praticando la professione, ad oggi mi è capitato almeno una quindicina di volte di portare progetti in V.I.A. ai diversi livelli dal nazionale, al regionale e fino al provinciale e, tendenzialmente, potrei dirmi allineato al giudizio di sintesi finale espresso dal Presidente del Consiglio; ma la mia definizione di un “sistema di valutazione e di una burocrazia cialtrona” muove da ragioni e prospettive completamente diverse e antitetiche. Per come sono svolte oggi le procedure di Valutazione di impatto ambientale e le Valutazioni Ambientali strategiche, è difficile affermare che queste siano effettivamente efficaci e che il sistema “di controllo” porti ad una reale risultato in termini di compatibilità e sostenibilità ambientale delle iniziative di trasformazione del territorio, siano queste autostrade, centri commerciali, impianti industriali, o altro.
Le ragioni di questa insufficienza sono in gran parte però ascrivibili alle responsabilità della politica che di volta in volta, in ragione delle sue contingenze e dei suoi tempi ha modificato la struttura dei controlli e delle procedure e ha sistematicamente condizionato il campo delle valutazioni con processi di costante (e a oggi non definitivo) revisione delle normative e dei paletti. Nel primo caso è eclatante ad esempio il ruolo della Legge Obiettivo che, per quanto riguarda i grandi interventi infrastrutturali ha spostato la valutazione di impatto ambientale su un livello improprio di approfondimento del progetto (quello preliminare) rendendo molti degli esiti delle specifiche valutazioni, aleatori e forzati. Come noto, un progetto preliminare è sviluppato su indicazioni di massima, senza una progettazione compiuta degli aspetti realizzativi e di cantierizzazione dell’intervento proposto, e con una stima dei costi e dei benefici di scarso dettaglio.
Questo tipo di condizionamento ha da una parte reso “debole” e approssimata la valutazione di merito tecnico e dall’altra ha di fatto elevato il potere di pressione e condizionamento esercitato dalle ragioni della politica sull’esito della procedura stessa. Queste sono state le principali condizioni che hanno generato una stagione di pareri positivi emessi dal Ministero dell’Ambiente con delibere di compatibilità ambientale caratterizzate da centinaia di prescrizioni (cosa mai vista prima) che hanno evidenziato come tutti questi progetti approvati fossero effettivamente borderline e al limite della bocciatura. Purtroppo negli ultimi anni questa tendenza sembra essere assecondata anche ai livelli diversi di quello statale.
Analoghe modalità di condizionamento possiamo riscontrarle nel continuo “addomesticamento” delle normative, con interventi di aggiornamento al ribasso dei limiti, come ad esempio nei casi delle norme su qualità dell’aria, emissioni elettromagnetiche, rocce e terre da scavo nonché le numerose revisioni del Testo unico sull’ambiente.
Last but not least, a completare questo processo di svuotamento di istituti nati con ben altre finalità, c’è stata anche una trasformazione del processo di selezione del ceto burocratico – amministrativo, pdl merito e dalla competenza verso la sponsorizzazione politica. Purtroppo questa tendenza si è ormai diffusa anche ai livelli più periferici delle commissioni di valutazione favorendo l’atterraggio di progetti improbabili. Summa summarum, è corretto affermare che questo sistema sia da riformare radicalmente, restituendogli un senso che non sia meramente quello di un adempimento burocratico per giustificare ex post le scelte trasformative operate.
La ricostruzione di questo senso però non può prescindere da un lavoro importante sulle motivazioni dei singoli progetti e sulle componenti della filiera tecnico-disciplinare che ne supporta lo sviluppo e la realizzazione. Inutile cercare scorciatoie o artifici falsamente partecipativi come ad esempio il Debat publique. Quindi senso, trasparenza, merito tecnico, coerenza disciplinare. Elementi questi che mal si accordano coi modi spicci e con i toni spesso demagogici che informano il clima politico. Tuttavia non esistono strade alternative e le distorsioni nell’utilizzo del territorio da cui derivano le enormi fragilità e le conseguenze che abbiamo dovuto affrontare nelle scorse settimane lo testimoniano con forza.
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