“Uèi, ma quant’acqua c’è, dentro quell’erba qui!”. Con tono innocente e ignoranza fisiologicamente inappuntabile, la signora milanese così descrive le risaie a qualche chilometro da casa sua che sta attraversando in bicicletta. E descrive a modo suo anche la nostra condizione identitaria postmoderna, perennemente in bilico fra una dimensione “globale” che sfugge, e un territorio “locale” che, comunque sia, è usato, percorso, considerato coerentemente proprio da una miriade di soggetti e punti di vista. Certo suona un po’ ridicolo che qualcuno scambi una risaia per un prato dopo un’alluvione, ma: che ne sapeva, nel secolo scorso, una mondina, delle oscillazioni dei prezzi internazionali che da un giorno all’altro avrebbero prosciugato la sua povera fonte di reddito?
Però la contraddizione globale-locale, o città-campagna, c’era eccome, esplicita al punto da far già stridere l’una contro l’altra le ipotesi di soluzione radicali, e quelle “riformiste”. Risale ai primissimi anni del ‘900 la polemica a distanza fra le teorie di sviluppo partecipato sul territorio di Pëtr Kropotkin[1] e quelle che convergono nel movimento per la città giardino di Ebenezer Howard[2]. La seconda ipotesi di ricomposizione subisce poi un rapidissimo ribaltamento di merito: dall’idea originaria di riforma sociale attraverso uno strumento di riorganizzazione spaziale, a puro slogan immobiliare, o poco più, pur dotato di grande fascino, e in grado di mobilitare le migliori energie intellettuali.
Da questa mobilitazione nascono nel ‘900 sia la cultura dell’intervento pubblico con le new towns e i quartieri popolari[3], sia il più banale modello del suburbio segregato di villette e centri commerciali, così come lo conosciamo oggi. E si sviluppa una cultura di tutela degli spazi aperti, di equilibrio fra territorio, città, risorse, che arriva sino ai nostri giorni, del cambiamento climatico o dei cosiddetti benintenzionati “localovori”.
È il concetto di greenbelt, grande fascia agricola di interposizione fra le aree urbane-metropolitane, di cui costituisce polmone verde e fonte di risorse alimentari. Di origine biblica, nei diagrammi a forma di bersaglio della Città Giardino è il più grande fra i cerchi concentrici, a rappresentare il limite della crescita, e un elemento di coesione e identità.
Il rapporto fra queste vicende tardo-ottocentesche e i tempi nostri è diretto, e per spiegarlo meglio, vorrei di seguito proporre due casi, uno di dimensione europea e l’altro “padano” (ma decisamente complementare) i cui sviluppi a cavallo fra il 2007 e il 2008 riassumono piuttosto bene la continuità di cui sopra.
Eco-città
Uno dei più grandi risultati dell’ultimo dopoguerra, nel riformismo europeo di matrice socialista, è il welfare britannico costruito dai laburisti, ad accompagnare “dalla culla alla tomba” il cittadino, anziché lasciarlo in balia degli spietati meccanismi del mercato. Forse meno noto, è che della serie di servizi e diritti fanno organicamente parte la casa, la città, il territorio. Il welfare britannico tocca il suo momento più alto nelle “new towns”, discendenti dalla città giardino, politica pubblica nazionale, strettamente integrata alla tutela dell’ambiente rurale, del decentramento produttivo, della perequazione regionale e sociale.
Comprensibile dunque, che il New Labour di Blair e Brown cercasse di recuperare i fasti di quest’epoca declinandoli secondo i temi del degrado urbano da deindustrializzazione e globalizzazione economica; o delle energie rinnovabili, del risparmio, dell’effetto serra e cambiamento climatico.
Da queste premesse, con qualche segnale di preavviso [4], nasce il documento del Ministero delle Aree Urbane, che apre il bando per le nuove eco-town, che “possono attingere alle migliori idee e pratiche dell’esperienza storica britannica nel campo degli insediamenti pianificati […] le green belt […] la visione di Ebenezer Howard per le sue città giardino […]. I piani di oggi devono essere più flessibili […] ma molti degli insegnamenti delle new town sono ancora validi” [5]. Si chiedono:
● insediamenti distinti ma integrati ai centri esistenti, con un minimo di 5.000-10.000 abitazioni;
● zero emissioni, e sostenibilità ambientale;
● scuola secondaria; complesso commerciale, spazi per attività economiche e tempo libero;
● abitazioni economiche fra il 30% e il 50% del totale, a formare complessi misti;
● un organismo specifico che sostenga gli abitanti, le imprese, coordini l’erogazione dei servizi e la gestione delle strutture.
Non sembra una pura delega al mercato a “risolvere” alcunché, e men che meno contraddizioni città-campagna, globale-locale, pubblico-privato, ambiente-sviluppo … E pure, che ci sia qualcosa di importante che non va[6], salta fuori immediatamente da una constatazione: le proteste che si levano non sono quelle dei costruttori. La prima, è che quelle città tradiscono il prefisso “eco” già nelle localizzazioni, non rispettose della campagna, dellagreenbelt diventata oggetto di identità locale e riferimento delle comunità[7]. Si rivelano insediamenti in aree poco infrastrutturate, spesso nel bel mezzo di spazi naturalistici di pregio, o comunque il cui riuso suggerirebbe invece il ripristino di verde, habitat, funzioni rurali.
Un’altra critica, riguarda il rapporto tra questa operazione urbanistico-ambientale-sociale (che interessa alcune decine di migliaia di persone) e l’emergenza abitativa per cui il governo si è impegnato a realizzare quattro milioni di nuove case, ecologiche ed economiche, entro il 2020. È su queste grandi quantità che si gioca davvero la qualità sociale e ambientale dell’intervento, e la patinata comunicazione sulle eco-town appare come cortina fumogena a nascondere un programma pasticciato, finanziariamente non sostenibile, e sostanzialmente consegnato nelle mani dei costruttori[8]. Questo genere di critiche, che potremmo definire all’italiana, emerge anche nel caso delle eco-città, se pur sporadicamente e senza interessare vere e proprie campagne o serie di articoli sulla stampa, senza però che la cosa prenda il sopravvento sulle opposizioni a base ambientale e sociale.
Nella stagione 2007-2007 si sviluppano opposizioni locali che riecheggiano questioni nazionali e viceversa, nell’avvicendarsi di due responsabili ministeriali del programma, la rossa Yvette Cooper prima, la bruna Caroline Flint poi. Che sono bersaglio di campagne regionali che, toni a volte immancabilmente folkloristici a parte[9], toccano problemi reali, di partecipazione alle scelte, rapporti fra merito delle scelte e pura comunicazione, di coerenza fra le dichiarate intenzioni solidaristiche, ambientaliste, e le reali conseguenze di medio termine dei progetti. Indicativo, l’intervento pubblico di Richard Rogers, non solo architetto di fama, ma Pari del Labour nonché autore qualche anno fa del documento governativo sullo sviluppo urbano[10]: le eco città sono “un grave errore”[11]. Ed è facile ipotizzare non si tratti di un giudizio limitato ai soli aspetti di sviluppo urbano, ma esteso anche a scelte energetiche, lotta al cambiamento climatico, decentramento delle decisioni e ruolo dell’amministrazione locale. Perplessità che del resto accomunano parecchi osservatori di alto livello[12].
In attesa delle prime decisioni ufficiali in settembre, la relazione in progress del Ministero sulle eco-città recepisce molte eco del dibattito[13]. Come quando si chiede che ai piani tecnici venga allegato “un programma di lungo termine per la governance e la partecipazione (compresi finanziamenti, gestione, questioni giuridiche) a far sì che: esistano rapporti di consultazione continua con le comunità confinanti”. La risposta migliore alle sollecitazioni del dibattito pubblico sembra però arrivare dalla direzione delle radici identitarie, nella loro migliore espressione di lunga durata: la storia delle teorie urbanistiche, ovvero la ricostruzione del percorso di cui all’inizio si sono citati i primi passi. Vale a dire che il “cammino verso una concreta riforma sociale” intravisto alla fine del XIX secolo, anche se con qualche variante, è ancora in corso. L’importante è non perderne di vista appunto la natura di movimento collettivo ampio e partecipato, che oggi più che mai (in fondo, sempre) rischia di venire offuscata dalle contingenze della tecnica, degli equilibri istituzionali, e finanche delle vanità, del politico o dell’architetto griffato di turno[14].
Ammazzaparchi
La seconda parte di queste divagazioni sui colori del verde riguarda un piccolo evento, in cui al green della belt britannica si mescola il verde padano in salsa leghista, per un’insalata dal gusto inatteso. Anche qui, le parole chiave sono: radici storiche, ambiente, territorio, società locale e rappresentanza. E pure qui, anche se forse se ne sono accorti in pochi, sorridono e/o si rivoltano nella tomba le solenni spoglie del barbuto anarchico Pëtr Kropotkin e del baffuto riformista Ebenezer Howard. Due le parole in bella evidenza: Expo, e Ambaradàn.
La prima parola non ha ovviamente nessun bisogno di traduzione, ma solo di qualche precisazione[15]. Che le Esposizioni Internazionali si portino appresso una serie di interventi sulla città e le infrastrutture è noto, così come le aspre contese e polemiche locali. L’Expo 2015 milanese-padana, ha come tema “Nutrire il Pianeta”, con riferimento a territori rurali, rapporto fra società e ambiente, all’equità distributiva[16]. E suona quindi stonato pronunciarsi in nome dell’Expo a favore della cancellazione di una vasta superficie agricola. L’occasione è il Cerba (Centro ricerche biomediche avanzate) voluto dall’oncologo Umberto Veronesi e iscritto d’ufficio fra i poli di eccellenza da valorizzare nel quadro dell’Expo, per cui viene individuata una superficie “offerta” da Salvatore Ligresti. Si tratta di un’area inserita nella greenbelt metropolitana del Parco Sud Milano fra la periferia e l’arco della Tangenziale. Una localizzazione discutibile per un grande progetto edilizio, che occupa oltre 600.000 mq. Localizzazione discutibile, ma il progetto di Veronesi non si discute, e con procedura rapidissima è approvata la variante di destinazione d’uso[17].
La seconda parola chiave è Ambaradàn. Termine gergale se non specificamente dialettale, ambaradàn indica aggeggi piuttosto incomprensibili, a volte ingombranti, forse inutili. Ambaradàn è la parola che, dialogando con gli elettori sul suo blog, l’assessore al territorio lombardo usa per definire gli organismi eletti di governo dei parchi[18]. Rispondendo alle pressioni delle amministrazioni interessate sul proprio territorio dai parchi, l’obiettivo dell’assessore è di scavalcare l’ambaradàn costituito dagli enti parco. Con una modifica alla legge urbanistica regionale, che riduca i parchi a “organizzatori di qualche convegno e produttori di qualche peluche evocativo”[19]. Senza addentrarsi nei particolari, l’idea è di rendere ordinaria la procedura straordinaria che ha funzionato tanto bene per la cittadella scientifica di Umberto Veronesi e Salvatore Ligresti. Là dove l’ambiente si scontra con lo “sviluppo del territorio”, la bilancia tende a orientarsi verso quest’ultimo. Qualche elettore leghista esprime perplessità sulla scarsa coerenza fra le vantate radici popolari e locali del partito, e questo genere di scelte: “Perché a decidere sui parchi […] non sono i cittadini dei comuni e dei comprensori interessati?”[20]; ma il disegno di modifica della legge ha già imboccato il percorso istituzionale[21].
Fin qui, quello che la stampa inizia subito a chiamare “emendamento ammazzaparchi”. Inizia invece inaspettata una convergenza, nell’anomalia delle reazioni. Maria Cristina Gibelli, studiosa di politiche urbane e docente al Politecnico di Milano, insieme al sottoscritto lancia quella che dovrebbe essere una classica raccolta di firme consapevoli per opporsi pubblicamente a quello che consideriamo un attentato all’idea stessa di pianificazione territoriale ed equilibrio ambientale. La campagna coinvolge studiosi, esponenti della cultura, dello spettacolo, della politica, a fare da baluardo informato ai barbari devastatori[22]. Ma noi promotori, che abbiamo deciso un po’ masochisticamente di mettere a disposizione direttamente nostri recapiti e-mail, iniziamo a notare che alle firme note se ne stanno affiancando tante, tantissime, di cittadini meno noti ma assai consapevoli del problema. E che nelle motivazioni lo schieramento politico, e in fondo anche l’atteggiamento più o meno nimby che ci si potrebbe aspettare da questo tipo di adesioni, appaiono minoritari.
Le adesioni arrivano da tutta Italia, ma naturalmente soprattutto dalla Lombardia, e non può non tornare alla mente il processo in cui, parecchi anni fa, qui “nascevano” socialmente i grandi parchi regionali. Da una articolata reazione ai primi impatti negativi del boom economico nel cuore del triangolo industriale, negli anni ’60 delle spinte partecipative, del dibattito sul decentramento, che nell’area milanese significava anche, curiosamente, recupero della cultura internazionale della greenbelt, nella forma anni più tardi istituzionalizzata nel Parco Agricolo Sud[23]. In sostanza, la perplessità manifestata dagli elettori leghisti è qualcosa di più profondo, diffuso, articolato e importante. A ben vedere una delle componenti della “centralità del territorio” che qualche mese più tardi avvantaggerà alle elezioni nazionali proprio la Lega. L’effetto immediato della massa di adesioni di cittadini comuni all’appello è quello di rafforzare le adesioni “vip”. Il progetto di modifica della legge urbanistica viene provvisoriamente ritirato[24].
Salvo tornare, più o meno identico negli obiettivi, subito dopo la pausa natalizia: è chiaro come le forze che spingono per una deregulation delle grandi trasformazioni territoriali, nel senso di una sedicente modernizzazione nel segno della città diffusa all’americana (proprio quando oltreoceano aumentano in modo esponenziale i critici dellosprawl) siano soltanto all’inizio del loro attacco all’idea stessa di democrazia urbanistica[25]. “Qualcuno vuol farla passare per una questione tecnica, da addetti ai lavori, ma non è affatto così perché le conseguenze ci coinvolgeranno tutti. E penalizzeranno non poco”[26].
Ma questione tecnica non è, e ne sono ben consapevoli i cittadini che stavolta quasi immediatamente aderiscono in massa alla nuova raccolta firme, con una novità di rilievo: il sostegno ufficiale, pubblicamente espresso nel corso di una riunione di rappresentanti di enti e associazioni, di amministratori locali della Lega Nord. Insomma, quando i giochi sembrano ormai fatti[27] riemerge rafforzato il sentimento diffuso che prima poteva apparire solo come una vaga eccezione alla regola. La pianificazione territoriale, quando riesce a fare appello alle proprie radici partecipative, in sostanza ai motivi che l’hanno vista nascere come disciplina moderna, distinta dalla pura ingegneria del territorio, trova ampi consensi[28]. E il risultato provvisorio, è che ancora una volta, e stavolta davvero pochi minuti prima dell’approvazione, l’emendamento ammazzaparchi viene ritirato[29].
Insomma
Naturalmente, sia la vicenda delle eco-città britanniche che i tentativi di deregulation padana proseguono, tra alti e bassi di partecipazione e conflitti. Quello che sembra emergere in corso d’opera da entrambi i casi, però, è come molto oltre schieramenti apparentemente automatici e i puri interessi, anche oltre gli stereotipi della società “mucillaginosa”[30] sballottata qui e là dalle influenze mediatiche, è la conferma di alcune radici piuttosto solide. Certo può apparire quantomeno stravagante, l’accostamento non casuale di casalinghe, ricconi con castello e tenuta, insegnanti in pensione, adolescenti coi brufoli e via dicendo, verso un comune obiettivo. Al punto da mortificare in parte anche quell’obiettivo, riducendolo ai suoi minimi termini, che vengono però immediatamente contraddetti dal altri segnali.
Quelli più vistosi sono ad esempio i faticosi percorsi dei nuovi leaders internazionali della destra verso posizioni di concreta tutela ambientale, che finiscono per sconvolgerne di fatto in parte anche la visione generale della società. Emblematico in questo senso il caso dei parlamentari conservatori britannici eletti nei collegi interessati dai progetti di eco-città (e sostenuti anche nelle tematiche generali dal giovane segretario David Cameron), che non ricalcano certo sempre il cliché dei ricchi gentiluomini di campagna poco propensi a vedersi una cittadina di case popolari sulla porta di casa[31]. Se per i conservatori britannici può forse valere ancora il dubbio della tattica politica di un partito all’opposizione, lo stesso non si può dire per Arnold Schwarzenegger che in California sta forse per firmare una legge storica “contro” quella che ora dovrebbe essere la base elettorale del suo partito, ovvero la villettopoli del ceto medio, le sue McMansion con piscina, giardino da un ettaro, e le autostrade multicorsia per andare dalle ville all’ufficio o allo shopping mall [32]. E forse nemmeno per l’assai più ondivago padano Umberto Bossi, che dal pulpito ministeriale via via recupera il tipo di riferimenti allo sviluppo locale che avevano rappresentato uno degli elementi forti nella prima fase di crescita del suo movimento. Gli stessi a ben vedere che nel caso “ammazzaparchi” hanno assai indebolito l’asse localismo-affarismo, che evidentemente caratterizza di più altre formazioni[33].
E concludendo questa breve rassegna di questioni aperte, val sicuramente la pena ricordare che da tempo in una prospettiva anche internazionale si indica l’ingrediente chiave, per una ricomposizione da zero dello schieramento progressista, in una inedita mescolanza e declinazione del “verde” con il “rosso”[34]. Più o meno, la medesima composizione base delle ottime intenzioni che lastricano da tanto tempo il sentiero dalla campagna città verso la città. E viceversa, naturalmente.
(Saggio pubblicato in: Annuario Geopolitico della Pace, Fondazione Venezia/Terre di Mezzo 2008)
NOTE
[1] Pëtr Aleeksevic Kropotkin, Fields, Factories and Workshops: or Industry Combined with Agriculture and Brain Work with Manual Work, Thomas Nelson & Sons, London, Edinburgh, Dublin and New York, 1912, ed. It. Campi, Fabbriche, Officine, Edizioni Antistato, Milano 1975; uno dei riferimenti direttamente polemici col movimento per la città giardino si trova ad esempio nel cap. Piccole attività e villaggi industriali, dove lo si colloca semplicemente nella tendenza tutta capitalistica “delle fabbriche a migrare verso i villaggi, che appare sempre più evidente al giorno d’oggi, e ha trovato l’ultima espressione nel movimento per la Città Giardino”.
[2] Ebenezer Howard, To-morrow! A peaceful path to real reform, Swan Sonnenschein, Londra 1898; ed. It. La CittàGiardino del futuro, Calderini, Bologna 1972
[3] Per le continuità e contraddizioni fra il riformismo socialista di fine ‘800 e le configurazioni spaziali – soprattutto di iniziativa pubblica – del ‘900 un buon riferimento sono: Charles Benjamin Purdom, T he Building of Satellite Towns, J.M. Dent & Sons, Londra 1949; Peter Hall, Colin Ward, Sociable Cities. The legacy of Ebenezer Howard, John Wiley & Sons, Chichester 1998
[4] Valga per tutti, a solo titolo di esempio, il comunicato stampa congiunto, primavera 2007, della English Partnership (agenzia nazionale pubblica per la rigenerazione urbana http://www.englishpartnerships.co.uk/) e del costruttore privato Gallagher per la realizzazione di un nuovo grande complesso integrato nell’area di Cambridge, demominato Northstowe, per 24.000 abitanti su circa 450 ettari.
[5]UK Department for Communities and Local Government,Eco-Town prospectus, luglio 2007, par. 8.
[6] E si tratta in effetti di un programma piuttosto serio e coordinato, soprattutto se lo si confronta con l’uso molto più disinvolto del termine “eco-città” nel mondo a connotare progetti che vanno dalla sperimentazione puramente tecnologica, magari anche su piccole dimensioni, alla esplicita speculazione privata. Una buona rassegna di questa estrema varietà è quella proposta da Ron Nyren sul numero del giugno 2008 del periodico specializzato Urban Land, col titolo forse involontariamente autoironico “Zero-Carbon Cities”, o il pur lodevole e già citato ma indipendente esempio di Northstowe, descritto anche da James Meikle su The Guardian 13 febbraio 2008 col titolo “Urban Myth?”. Posso aggiungere una nota del tutto personale: ho anche notato ai margini dell’area milanese un grosso progetto di recupero di un’area industriale dismessa, su una superficie limitata e a funzioni esclusivamente terziario-commerciali, e che sfoggiava enormi cartelloni inneggianti a una improbabile “Eco-City”.
[7]Cfr. David Langton, “England’s countryside set to vanish in decades”, The Independent, 10 settembre 2007; “What now for the green belt?”, editoriale del Guardian, 11 ottobre 2007; Tom Feilden, “Is the Green Belt an Outdated Concept?”Dibattito, dal sito BBC Radio, 4 dicembre 2007; Reg Little, “Eco-town hint dropped”, This is Oxfordshire, 6 giugno 2008; “Eco-town plan ‘is 87% greenfield’”, The Argus, 30 aprile 2008..
[8] Per una buona rassegna delle luci ed ombre del programma governativo britannico per l’abitazione economica si veda Peter Hetherington, “Is government facing a housing brick wall?”,The Guardian, 28 novembre 2007.
[9] Che vanno dalla saga da rotocalco dei classici oppositori borghesi magari noti in televisione, con la loro villa di campagna minacciata dalle case popolari, alle strapaesane processioni attorno alla chiesetta di campagna per scacciare il demonio della eco-città, ma riecheggiano comunque temi seri. Solo per qualche esempio Cfr. Michael McCarthy, “Protesters’ fury as ecotown shortlist targets ‘unsustainable’ locations”, The Independent, 4 aprile 2008; Isabel Oakeshott, Brendan Montagne, “Tim Henman’s parents rally against ‘eco-town‘”,The Sunday Times, 23 marzo 2008; Scott Armstrong, “Church demo on plans for eco-town”, York Evening Press,26 maggio 2008; Juliette Jowitt, “Ministers hit back at stars over eco-towns”, The Observer, 29 giugno 2008; Rob Sharp, “A little local trouble”, The Independent, 3 luglio 2008; Janet Street-Porter, “Eco-towns are just vandalism dressed up in a trendy green coat”, The Independent, 18 maggio 2008; Jenny Cornish, “Businesses back battle to kill off eco-town bid”, Leicester Mercury, 10 maggio 2008; Theresa Bradley, “Urban sprawl fear for city in eco town plan”, Lichfield Post, 10 aprile 2008.
[10] Cfr.Towards a Strong Urban Renaissance. An independent report by members of the Urban Task Force chaired by Lord Rogers of Riverside, novembre 2005
[11]Tom Peterkin, “Lord Rogers: Eco-town plans big mistake”, The Daily Telegraph,28 maggio 2008.
[12]Cfr. Richard Girling, “Ecotowns: for and against”, The Sunday Times, 15 giugno 2008; Christopher Hope, “Build eco-towns in urban areas, not the countryside, say council chiefs”, The Daily Telegraph, 25 giugno 2008; Shaun Spiers, “Time to talk about eco-towns”, The Guardian, 8 luglio 2008; Robert Booth, “So, just how green will the eco-towns be?”The Observer, 13 luglio 2008; Optimum Population Trust, rapporto Eco-Towns: Living a Greener Future? inviato al governo britannico nel luglio 2008.
[13]Cfr. UK Department of Communities and Local Government, Eco-towns: living a greener future, luglio 2008. Per le reazioni immediate si veda anche il sito della Campaign to Protect Rural England, http://www.cpre.org.uk
[14]Cfr.Tristram Hunt, “Can eco-towns stop the sprawling suburbs?”The Times, 5 aprile 2008.
[15] Limitatamente e “faziosamente” con riferimento ai temi e prospettive di questa rassegna, sugli impatti territoriali negativi temuti in relazione all’evento espositivo, già prima dell’assegnazione a Milano, si vedano: Expo Milano 2015: una grande opportunità o una sciagura da evitare? Dossier inviato al Segretariato Generale del BIE, dal Comitato No Expo Milano www.noexpo.it febbraio 2008; Giorgio Salvetti, “Tutti i mercanti alla Fiera di Letizia”, Luca Fazio, “L’altra Moratti, un’altra Milano”, entrambi in il manifesto, 3 febbraio 2008.
[16] Per tutto quanto riguarda specificamente il progetto Milano Expo 2015 il riferimento è al ricco sito ufficialehttp://www.milanoexpo-2015.com
[17] Cfr. Simona Ravizza, “Veronesi: la città della scienza non può aspettare”, Il Corriere della Sera, 16 marzo 2006; Paolo Hutter, “Bisogna salvare le aree agricole”, Stefano Rossi, “Più cemento nel Parco Sud: oggi il vedetto dell’assemblea”, entrambi su la Repubblica ed. Milano, 29 ottobre 2007; Fabrizio Bottini, “Transfer of Health Rights: le nuove frontiere della scienza”, eddyburg.it, 1 novembre 2007; Edoardo Salzano, “Milano Parco Sud”, Carta n. 41, 17 novembre 2007;
[18]Il blog è una sezione del sito http://www.davideboni.orgla nota è del 22 novembre 2007, intitolata semplicemente “Parchi”.
[19] Carlo Monguzzi, capogruppo Verdi per la Pace al consiglio regionale, nel comunicato stampa La Regione Lombardia chiude i parchi: via libera alla cementificazione del Parco Sud, Milano, 7 novembre 2007.
[20] Commento di Giacomo n. 8 a “Parchi” (vedi nota 18), 30 novembre 2007.
[21]Luciano Muhlbauer, “Le Mani sulla Città”, il manifestoed. Milano, 27 novembre 2007.
[22] Cfr. Andrea Montanari, “Un blog con firme illustri in difesa dei parchi”, la Repubblica, 20 novembre 2007.
[23] Sembrerebbe, questa, un’affermazione retorica ad effetto e con solo vaghi appigli alla realtà. Ma si vedano ad esempio le cronache delle prime fasi istitutive del parco nell’opuscolo La difesa del Ticino, curato da Italia Nostra nel 1968, e in particolare l’intervento “La vocazione del Ticino” di Giancarlo De Carlo, architetto di cultura anarchica all’epoca molto impegnato nel Piano Intercomunale Milanese che per la prima volta formalizza anche l’ipotesi digreenbelt agricola. Lo stesso De Carlo, che come osserva Sir Peter Hall a pagina 271 del suo Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford 1988, già nell’immediato dopoguerra rilanciava il metodo partecipativo nell’approccio alla pianificazione territoriale studiato dal biologo Patrick Geddes a inizio secolo. Lo stesso Geddes che, guarda caso, invitava Pëtr Kropotkin alla sua scuola estiva, a parlare della sua idea di integrazione città-campagna …
[24]Fabrizio Bottini, Maria Cristina Gibelli, “Una grande prova di partecipazione democratica”, eddyburg.it , 2 dicembre 2007.
[25] Cfr. Paolo Hutter, “Un duro conflitto appena cominciato”, la Repubblica ed. Milano, 21 febbraio 2008, sulle stesse pagine il 22 successivo, Jacopo Gardella, “La legge della jungla che divora i nostri parchi”; Fabrizio Bottini, Maria Cristina Gibelli, “Planophobia”, eddyburg.it , 11 febbraio 2008.
[26] Giorgio Boatti, “È l’assalto ai parchi”, La ProvinciaPavese, 17 febbraio 2008.
[27] Laura Guardini, “Parchi, nuove norme al via. Fronte verde contro la Regione”, Il Corriere della Sera ed. Milano, 21 febbraio 2008.
[28] Fabrizio Bottini, “La pianificazione del territorio è capace di parlare alla gente?”, Carta online 4 marzo 2008.
[29] Cfr. Giovanna Maria Fagnani, “Parchi, retromarcia della Regione”, Il Corriere della Sera ed. Milano, 5 marzo 2008; Ivan Berni, “La brezza delle elezioni”, e Stefano Rossi, “Boni ritira la legge ammazza parchi”, entrambi su la Repubblicaed. Milano, 5 marzo 2008; Luciano Muhlbauer, “L’ammazzaparchi non c’è più”, il manifesto ed. Milano, 5 marzo 2008.
[30]La definizione è di Giuseppe De Rita, osservatore storico anche se a mio parere un po’ sopravvalutato della società italiana e delle sue dinamiche.
[31] Per semplicità, il riferimento necessariamente parziale è agli articoli elencati alla nota n. 9 sulle opposizioni locali ai progetti di eco-città.
[32] Cfr. Margot Roosevelt, “Legislature takes aim at urban sprawl and global warming”, The Los Angeles Times, 21 agosto 200
[33] Per l’ambiente e il territorio, il riferimento d’obbligo è (con tutti gli aggiornamenti del caso) a: Gilberto Oneto,Pianificazione del territorio, federalismo, autonomie locali, Alinea, Firenze 1994; a suo tempo ho cercato anch’io di ricostruire qualche brandello di sensibilità leghista su questi temi, Cfr. Fabrizio Bottini, “La Città ideale della Padania”, il manifesto, 17 maggio 200
[34] Cfr. ad esempio, Carla Ravaioli, “Il capitale ha vinto ma è in declino”, Liberazione, 19 agosto 2008.