Ogni settimana a Londra almeno trentamila persone scaricano Uber sullo smartphone e ordinano per la prima volta un’auto. La piattaforma – valutata ad oggi 60 miliardi di dollari – chiama quel passaggio «conversione». Uber è presente in 400 città del mondo da quando ha cominciato l’attività a San Francisco il 31 maggio 2010, il che significa sinora un nuovo ingresso in un bacino di mercato locale ogni cinque giorni e otto ore. C’è molta aspettativa su questo primo uso del servizio, del medesimo tipo di quella che Apple ha quando qualcuno si avvicina ai propri dispositivi. Con Uber si vuole comunicare attenzione al cliente e disponibilità di un autista quando serve. Si apre l’app, e il logo Uber sventola per un istante prima di scomparire lasciando posto alle vie della città che ci stanno attorno, con le rassicuranti sagome grigie dei veicoli disponibili nei paraggi. L’idea di abbondanza dell’offerta che ci dà così Uber implicitamente vuol anche presentarlo come qualcosa che è sempre stato lì, spuntato naturalmente. Certo le cose non stanno così. Per conquistarsi una città per prima cosa la piattaforma manda una piccola di addetti, i launchers, e si assume localmente chi dovrà trovare autisti e fattorini.
A Londra, quel ruolo è stato affidato a un giovane operatore finanziario scozzese, Richard Howard. Howard aveva 27 anni e aveva perso il lavoro da HSBC, dove vendeva derivati detti credit default swaps, famigerati dopo la crisi finanziaria. Cresciuto a Glasgow, dove il padre vendeva strumenti musicali, non si era mai davvero ambientato nelle rarefatte atmosfere delle banche di investimento. Perso quell’incarico nel novembre 2011, Howard decise che il futuro stava nella tecnologia. Cominciò a informarsi sul settore e come tanti altri non poteva non notare il rapido affermarsi di una startup di nome Uber. E non si trattava solo delle quantità di denaro coinvolte – una valutazione da trecento milioni di dollari per qualcosa venuto da nulla e che esisteva da un anno e mezzo – ma la qualità dei soggetti coinvolti: Jeff Bezos, fondatore di Amazon; Menlo Ventures, uno dei più consolidati marchi di capitale di investimento della Silicon Valley; Goldman Sachs.
Il 7 dicembre, Howard andò sul sito Uber e mandò una email: «Ricordo di aver scritto a help@uber, o magari era info@uber, spiegando “Mi piacerebbe lavorare con voi abito a Londra diete presenti a Londra?”». Uber rispose prima di Natale, e dopo un paio di colloqui via Skype, Howard andava a Parigi per incontrare il gruppo di lavoro Uber, dato che Parigi era l’unica città dove il marchio operava fuori dal Nord America. Nel febbraio 2012, Howard aveva un contratto. Compilava i suoi moduli sulla carta intestata della compagnia, domandandosi se era il cinquantesimo collaboratore Uber o magari il cinquantunesimo.
Il marchio Uber inizia come fascia di lusso con lo slogan: «Un Autista Privato per Te». Il mito racconta come i fondatori, Garrett Camp e Travis Kalanick, uscendo da un convegno sulle tecnologie tenuto a Parigi nel dicembre 2008 non riuscissero a trovare un taxi. La cosa nell’epoca di smartphone e GPS, appariva loro davvero surreale al limite del ridicolo. Sin dal principio l’idea di auto con autista di Uber appare piuttosto singolare. A differenza del più diretto concorrente americano, Lyft, la cui filosofia ride-sharing deriva dall’idea di «stiamo andando nella medesima direzione», Uber propone l’immagine di vere e proprie auto scure padronali dove il passeggero si sente per usare la definizione quasi intraducibile nella sostanza dall’americano di Kalanick «andato a punti».
Per Howard, a Londra, organizzare Uber significa trovare il tipo di mezzi più adatto. Opera attraverso yell.com, contattando gruppi per clientela di fascia alta che offrono chauffeur cercando di convincere i conducenti a lavorare per una app mai sentita nominare (e quando si cerca una descrizione Uber ama definirsi uno spazio di mercato: mette in contatto autista e passeggero, fissa la tariffa, gestisce il pagamento). A fine marzo Kalanick, che è nel frattempo diventato CEO, arriva nel Regno Unito e manda una email a quello che è il suo unico dipendente nel paese: «Ciao Londra sono arrivato». I due si incontrano a Moorgate e Kalanick delinea le sue strategie per la città. Ricorda Howard: «Diceva voglio delle Mercedes Classe S al medesimo prezzo dei normali taxi.
Londra era l’undicesima città per per Uber, ma era molto diversa dalle altre in cui la piattaforma tentava di far saltare un sistema. C’erano una rete di trasporti pubblici del tipo di quella di New York, ma anche un sistema di vie a schema medievale e contorto, per non parlare della regolamentazione complessa di qualunque città capitale europea. Già esisteva un formidabile servizio anche di trasporto privato, una delle flotte di taxi più riconoscibili del mondo – i black cab – e uno scenario frammentato di tremila operatori «a chiamata privata». Uno, Addison Lee, con 4.500 veicoli che rendevano 90 milioni di sterline l’anno. C’erano già altre app di prenotazione delle corse, prima fra tutte Hailo, con una rete di 9.000 black cab. Kalanick ha ha definito Londra come la «Coppa dei Campioni dei Trasporti», e ci vollero due anni di riflessioni per lanciarsi in quel mercato.
Howard affittò un ufficio su King’s Cross Road, accanto a una chiesa etiope. Arrivarono due arruolatori da Seattle e Amsterdam. Sul muro un cartello recitava«#Hailno» e si provava a non pensare troppo al problema della concorrenza: «Temevamo, temevamo che Addison Lee reagisse investendo un milione di sterline – per loro in fondo non era gran che – su una app ben studiata sostanzialmente copiata da Uber. Ma non è successo». Howard si concentrava su ciò che gli riusciva meglio, ovvero portarsi in ufficio conducenti scettici fargli dimostrazioni di funzionamento di Uber e regalargli un iPhone. «Sono un venditore, sostanzialmente». Di preferenza conducenti di Mercedes S e BMW 7, imprese individuali che potevano collaborare in freelance per varie compagnie. Partiva da un’offerta iniziale: 25 sterline l’ora per la sola disponibilità a Uber, che stessero lavorando o no. «Offrivamo una sicurezza che prima gli mancava». Si poteva aderire all’offerta per il numero di ore desiderato, compreso sganciarsi se si presentava un cliente esterno. Si guadagnava stando semplicemente in macchina. In un settore dove un conducente prende 50 sterline l’ora, se ha clienti, ma può passare mezza giornata o anche più senza battere chiodo, con inesorabili costi fissi: Uber pareva troppo bello per essere vero.
Il primo conducente si chiamava Darren Thomas. Prima di iniziare con Uber gran parte dei suoi clienti arrivavano da Spearmint Rhino, il locale di lap dancing. Thomas faceva l’autista dopo aver lavorato sette anni come venditore di pavimenti. Era disponibile a restare a disposizione per tutte le ore possibili: «Mi ci sono davvero buttato a capofitto» ricorda. Presto arrivava a 2.500 sterline la settimana. A metà giugno 2012 Uber debuttava a Londra, Howard aveva 50 conducenti sulla piattaforma. Solo 30 corse in 24 ore, ma un singolo momento di gloria quando ce ne erano sette in contemporanea e Kalanick interveniva da San Francisco: «Travis era davvero colpito – ricorda Howard – Sembrava dicesse hey guardate cosa riescono a fare a Londra! Incredibile! Anche se immagino fosse solo beneaugurante».
L’idea era di avere la piattaforma operante su strada completamente a regime in tempo per le Olimpiadi di Londra 2012. Compito di Howard era ingaggiare autisti per comunicare l’idea di grande disponibilità nel momento in cui qualcuno apriva l’app. Da San Francisco non gli arrivavano mai dati, ma un flusso continuo di mappe a mostrare dove le persone stavano cercando un’auto, comprese le «zone morte» dove sugli schermi non ne compariva nessuna disponibile. Molti dei primi clienti erano turisti americani che verificavano sul telefonino fin dove era arrivato il servizio. Howard girava con le nuove biciclette in condivisione del sindaco Johnson per le vie di Belgravia, alla ricerca di qualche nuovo conducente magari tra chi schiacciava un pisolino in pausa, e di notte stava con gli occhi incollati su « Heaven», lo schema di Uber a ricostruire sinotticamente tutte le auto attive in città, chiedendosi cosa funzionava e cosa no. «Un lavoro sette giorni su sette ventiquattro ore al giorno». Se per strada c’erano attivi 15 conducenti ma Howard ne aveva bisogno 20, iniziava a molestarne qualcuno. Se qualche passeggera perdeva la borsetta durante una corsa verso il club esclusivo Boujis, il telefono di Howard suonava anche alle tre di notte, sua moglie lo odiava. Il resto della famiglia aveva preso a chiamarlo col soprannome di Eileen, come il coordinatore dei taxi della serie televisiva Coronation Street. «Uno stress mostruoso, ma in fondo mi entusiasmava».
Il disegno generale di espansione della piattaforma gli appariva solo in parte e occasionalmente. Nonostante partisse come prodotto di nicchia, Uber sin dall’inizio si percepiva come innovazione profetica destinata al trionfo. Nel 2011, con solo qualche decina di dipendenti, già si parlava di «colmare un vuoto nei trasporti globali» lasciato dai servizi con conducente nel mondo, sfruttando le nuove tecnologie. Durante una visita preliminare a Londra, Kalanick e il direttore operativo Ryan Graves passarono una intera settimana su e giù dai black cab, interagendo con Hailo, e riflettendo sui possibili futuri di Uber. Poi un pomeriggio Howard si ritrovò nella stanza di Kalanick al Sanderson Hotel di Covent Garden.
C’era anche Graves insieme a due ingegneri di Uber arrivati da San Francisco. Kalanick rifletteva ad alta voce sulle sue grandi idee. Trentacinquenne, già con un rosario di compagnie startup tecnologiche a proprio nome, Kalanick era una figura piuttosto ingombrante. Il profilo Twitter all’epoca aveva come immagine la copertina del romanzo distopico capitalista di Ayn Rand, The Fountainhead [quello del famoso film con l’architetto interpretato da Gary Cooper n.d.t.]. Quel giorno si stava chiedendo se Uber avesse il potenziale per evolversi in un servizio di massa. Significava magari diventare meno di lusso e tendenza, però anche puntare a un mercato globale del valore di centinaia di miliardi di dollari. Ricorda Howard: «Pensava che si potesse anche rendere Uber qualcosa di più dozzinale, più simile al taxi». Nessuno la riteneva una buona idea. Lo stesso Howard disse qualcosa a favore del marchio di lusso. «Travis pareva badare poco al genere di marchio: se non ci cannibalizzavamo da soli l’avrebbe presto fatto qualcun altro». Restò solo in quella stanza d’albergo, e quando tornarono gli altri qualche ora più tardi Kalanick sembrava aver deciso. «Disse: faremo di Uber una cosa più economica». A luglio si varava sperimentalmente il nuovo servizio a costi contenuti, UberX, a San Francisco. Poi avrebbe invaso tutto il mondo.
A Londra, restava nella fascia esclusiva. Howard e il suo gruppo (a settembre l’ufficio era composto da cinque persone) pensavano di far adottare Uber a chi operava prevalentemente nelle tecnologie, tra Shoreditch e Old Street, ma l’app inizialmente funzionava attorno ai night club del West End. Tra venerdì e sabato sera la piattaforma raggiungeva il 100% della capacità. Howard si inventò una verifica geografica per i nuovi conducenti così che potessero incrociare la nuova domanda tra Made in Chelsea, Berkeley Square, Nobu, Soho House, The Dorchester. Uscivano auto Uber per le feste private e Howard regalava corse gratis. In autunno i conducenti erano un centinaio e aveva a disposizione un «fondo da bruciare» di 50.000 sterline per reclutarne dei nuovi alla piattaforma. «E mi dicevano di bruciarne di più. Mai avuta una quantità programmata, un obiettivo: solo più conducenti, altri conducenti».
Per chi si rendeva disponibile, Uber non assomigliava a nulla sperimentato prima. E non si trattava solo dei soldi. Anche nella fase embrionale, ricordano ancora quei conducenti, guidare per Uber voleva dire non trovare nessuno degli aspetti negativi e irritanti così caratteristici delle auto private che a Londra sono il rovescio della medaglia del fortemente regolamentato ambiente dei taxi. Nessun coordinatore delle corse tirannico che assegna le corse più comode ai parenti e leccapiedi, solo un algoritmo a individuare l’auto più vicina alla chiamata. Niente contanti, niente accostare in piena notte a qualche sportello bancomat, o frugare per cercare il resto. E il sistema dei punteggi di gradimento: conducenti e clienti che valutavano. Tutti avevano voce, tutti sapevano.
Finalmente un po’ di trasparenza e logica. L’app si presentava bene, funzionava bene, i passeggeri erano ben forniti, in generale educati. «Era un po’ surreale – ricorda un conducente entrato con Uber nel settembre 2012 – Una cosa incredibile». Thomas, il primissimo conducente, racconta che i primi tempi cercare corse assomigliava a «una specie di gioco divertente». Dopo sei mesi Uber iniziava a sostituire il fisso orario di disponibilità a un compenso per corsa, ma la resa economica per i conducenti restava comunque elevata. Il passaparola – e le indiscrezioni varie incontrollabili – sul nuovo servizio girava molto. Tre anni dopo due terzi dei conducenti di Uber a Londra ci erano arrivati su indicazione di un conoscente.
Ruman Miah ne aveva sentito parlare in autunno. Uomo solido, ponderato, Miah era cresciuto nello East End. Suo padre, immigrato dal Bangladesh, era nel Regno Unito dal 1962. «Lui era una specie di versione asiatica del personaggio televisivo Del Boy» racconta. Nei fine settimana il padre di Miah gli portava pezzi di computer i seconda mano da riparare. Poi Miah ha lavorato nelle sezioni elettroniche del Servizio Sanitario Nazionale prima di essere licenziato per riduzione dell’organico nel maggio 2012. Aveva già ottenuto un permesso di conducente come ammortizzatore sociale di emergenza, e diventò autista di minicab anche se controvoglia già da quell’estate. Miah lavorava in modo inconsueto rispetto i suoi colleghi dato che annotava ogni corsa, ogni tariffa, ciascuno dei vari e diversificati costi, tutto su una serie di fogli di lavoro che caricava sullo smartphone: dalla tariffa di connessione all’assicurazione da lavoratore autonomo all’ammortamento della Ford Galaxy che guidava. E la domenica riorganizzava tutti i dati: «È il mio modo di ragionare». Quando lavorava per il servizio sanitario nazionale Miah teneva il conto dei suoi costi di refezione. «Non sop se si tratti di qualcosa che mi ha passato mio padre, ma sento di dover annotare tutto. Assolutamente. E quando non lo faccio mi sale l’ansia. Non so neppure perché».
Un amico disse a Miah che se riusciva a dotarsi di una Mercedes classe S, c’era una nuova compagnia, Uber, disposta a pagare i conducenti 50 sterline l’ora. Non poteva permettersi un’auto così costosa, e lasciò perdere. Ma nella primavera 2013 incrociava di nuovo Uber. Tra due corse a Heathrow, prendendo un caffè da McDonald’s in Bath Road – classico ritrovo di conducenti indipendenti attorno all’aeroporto – entrò un tizio che distribuiva volantini. «Era un ragazzo hipster – ricorda Miah – e gran parte di noi conducenti semplicemente lo ignorava». Però quello hipster portava una grossa notizia: UberX arrivava a Londra. L’inizio del nuovo servizio più economico a San Francisco l’estate precedente aveva sbancato ogni più rosea aspettativa. C’erano chiari segnali che la piattaforma, invece di continuare a competere coi vari servizi esistenti, con la capacità di gestire enormi volumi di traffico conducenti e disponibilità, potesse aprire un segmento inedito efficiente economico per una clientela totalmente nuova.
Christophe Lamy, che aveva lavorato con la divisione tecnologica londinese di Goldman Sachs, aveva il compito di portare UberX nella capitale. Studiava i due stratificati comparti in cui sinora si erano divisi i servizi automobilistici: costosi ma comodi taxi neri e Addison Lees; più economici ma meno affidabili minicab. Per Londra, UberX era concepito per essere efficiente come un black cab ma economico come un minicab. Chiunque dotato di una licenza da conducente privato – il permesso è rilasciato da Transport for London per 250 sterline – un veicolo spazioso abbastanza nuovo e assicurato, poteva rendersi disponibile sulla piattaforma. Lamy intuiva immediatamente la potenzialità: «Su entrambi i fronti eravamo già davanti alla concorrenza. Tutti pensavamo di aver fatto la scelta del futuro». Nei sei mesi successivi aderivano a UberX quattromila conducenti.
Miah e Lamy, l’autista di minicab e l’ex banchiere, si scambiano email nel luglio 2013. Lamy scrive che la dream car dii UberX è una Toyota Prius. Miah sta provando a sperimentare sulla fascia di clientela più esclusiva con una Volvo S40. È piuttosto prudente. E scettico su quelle tariffe così basse di UberX: 1,75 sterline per miglio è la metà di quanto applicato (da 3,50 a 4) dalle altre compagnie. E anche la commissione di Uber è più bassa: il 20% contro il 50%. Miah elabora le sue cifre. Ma continua ad ascoltare il passaparola positivo. La Volvo consuma parecchio gasolio. Nel maggio 2014, dopo che un altro amico è passato a Uber, e dopo aver sentito che la compagnia dà un incentivo di una sterlina a corsa, Miah fa il versamento preliminare di 2.500 sterline per l’acquisto di una nuova Toyota Prius metallizzata, e aderisce alla piattaforma.
Il giorno in cui cambia tutto Lamy è esausto. Mercoledì 11 giugno 2014: poche settimane da quando Miah si è unito a Uber. Da mesi monta il disagio tra i conducenti di black cab contro UberX, e stanno preparandosi a manifestare contro la compagnia nei quadro di una serie di scioperi di taxi organizzati in tutta Europa. Lamy ha lavorato per due notti di seguito a preparare la risposta e pisola sul divano dell’ufficio la mattina. Nel pomeriggio smettono di fare servizio entrando in sciopero contro UberX tra i quattromila e i diecimila conducenti, mettendo di traverso i veicoli su Lambeth Bridge e bloccando il traffico di Westminster, fino a Piccadilly Circus. Jo Bertram, ex consulente di McKinsey che adesso lavora per Uber a Londra, rilascia la sua prima intervista a Sky News alle sei e mezzo del mattino, seguiranno altre quindici dichiarazioni. Dopo due anni di tentativi per convincere qualche giornalista a parlare di Uber, adesso quello è l’argo,mento di cui tutti quanti vogliono parlare. Il download dell’app ha un incremento dell’850%.
La protesta dei conducenti, la sua violenza, l’involontaria pubblicità che dà a Uber, seguono in qualche modo uno schema classico di un ribaltamento del mercato che in fondo si aspettava da tempo. Fino all’arrivo di Uber il settore dei trasporti privati di Londra era più o meno identico da secoli: un comparto dominato da una gilda di operatori qualificati che garantivano il servizio per le strade, affiancati da liberi battitori e altri conducenti che implicitamente partecipavano al medesimo sistema.
Dopo il primo rilascio di licenze per le carrozze pubbliche del 1838, e qualche decennio più tardi la formalizzazione, «the Knowledge», i conducenti di black cab dominavano le vie quasi senza rivali. Offrivano un servizio regolare e di ottima qualità, ma senza cambiare molto. Nei trent’anni fra il 1986 e il 2015, durante i quali l’economia di Londra era raddoppiata di volume con un incremento di popolazione di quasi due milioni di persone, l’aumento dei black cab si calcolava da 19.000 a 22.500. E contemporaneamente erano tra i taxi più costosi del mondo. «Ci concentravamo nel servire le miniere d’oro» mi racconta Derek O’Reilly. Che aveva cominciato guidando un taxi nel 1995, e fino all’anno scorso ha anche co-diretto Knowledge Point, scuola di formazione per conducenti non lontano da King’s Cross. Senza veicoli sufficienti a coprire l’intera città, e la flotta concentrata dentro gli ingorghi centrali di traffico, con quelle velocità medie crollate a poco più di un passo d’uomo dagli anni ’80, quei black cab diventavano vulnerabili a qualunque concorrenza. Neppure le innovazioni via via introdotte dai conducenti altrove nel mondo – dal GPS, ai pagamenti elettronici – erano adottate in massa e in modo convinto da tradizionalisti usi ad accostare tirare giù il finestrino e domandare «Where to?», per poi avviarsi giù per l’Embankment e il labirinto di percorsi noti. «Si pensava a un mercato eterno immutabile destinato a durare per sempre» ricorda O’Reilly.
Da quando è sbarcato UberX a Londra, è difficile calcolare oggettivamente l’impatto sui black cab. «La cosa a cui mi piacerebbe saper rispondere, ma a cui proprio non so cosa rispondere, è sino a che punto sia cresciuto il mercato, oppure sino a che punto il nuovo servizio abbia rosicchiato l’offerta precedente tradizionale» spiega Garrett Emmerson, responsabile dei servizi di superficie per Transport for London. Dal 2013, sottolinea, la quantità di taxi nelle strade è rimasta stabile, e così è avvenuto anche per chi si forma al sistema «the Knowledge» [saper girare per le strade centrali di Londra è requisito indispensabile e titolo ufficiale per la licenza n.d.t.]. 892 nuovi conducenti di taxi l’anno scorso contro i 760 del 2010. Ma quel che appare guardando dal finestrino è però diverso. Agli occhi di O’Reilly, come della maggior parte dei conducenti di black cab, la minaccia di Uber appare mortale. Nel 2015, notava la quantità di persone che arrivavano per l’introduzione settimanale a «the Knowledge», crollata da 60 a 6 (a fine anno la scuola si spostava lì vicino in un edificio più piccolo). Un viaggio di venti minuti circa due miglia in black cab costa 14 sterline. Con Uber vi portano per 8. «Credo fermamente che abbiano come obiettivo di spazzarci via – racconta O’Reilly – ridurci alla fame e alla e poi diventare monopolisti del mercato».
Per chi conosce la storia ci sono ragioni di timore. Il fatto di chiedere a qualcuno di portarci attraverso la città di Londra è cosa antica, ma in tutti i tempi è accaduto che una forma di tecnologia soppiantasse l’altra. Nel XVII secolo succedeva ai barcaioli del Tamigi. Un apprendistato di sette anni per imparare ogni rivolo di quelle fangose correnti, e i percorsi registrati ufficialmente dentro il Domesday Book. Ma tra costruzione di tanti ponti e introduzione delle carrozze a cavalli – singolare importazione continentale durante il regno di Elisabetta I – tutto crollò. “Uno sciame di mosche cocchiere che hanno distrutto l’onesta professione e corporazione di cui sono membro» scriveva John Taylor, leader barcaiolo e poeta, in un opuscolo del 1623 intitolato The World Run on Wheels. Fallito ma irriducibile, abbandonò l’attività e aprì un pub.
Dopo un breve periodo di competizione con le portantine a spalla, le vie erano dominate dai veicoli a cavalli e fu una fase durata tre secoli. Riuscirono a battere anche le prime automobili, una piccola flotta di Hummingbird elettriche all’inizio del XX secolo, per poi soccombere dopo l’apparire a Londra dei veicoli a benzina, primo taxi del genere con licenza 11 dicembre 1903. Dieci anni più tardi mentre stava per scoppiare la prima guerra mondiale erano diventati 7.000. Mentre nel medesimo periodo scomparivano quasi del tutto i leggeri agili calessi Hansom a due ruote diventati ubiqui nella capitale dopo il 1830. Nel 1927 ne giravano in città solo 12 ridotti a pura curiosità di un passato scomparso.
Parlando coi conducenti di black cab oppure di minicab a proposito di Uber, si nota come dubitino normalmente della capacità di offrire un servizio di trasporto affidabile degno di quel nome. Un tassista che si affida al GPS non potrà mai competere con chi ha un titolo Knowledge, e una Prius non si muoverà mai bene come una London Taxi Company TX4. Ma qui si confonde in un certo modo Uber con ciò che è già avvenuto in passato. Mentre la cosa davvero nuova è che si tratta di una compagnia di trasporto persone a cui non importa assolutamente nulla di auto, barche, cavalli, portantine a mano, e neppure di chi le conduce. La più grande compagnia di taxi del mondo non possiede nessun veicolo, né assume un singolo conducente: il prodotto di Uber è il movimento e l’uso del lavoro necessario a muoversi.
Parlando con Lamy su cosa sia diverso in Uber, la conversazione non verte certo sui consumi di un diesel o il modo più rapido per arrivare alla stazione di Waterloo, ma riguarda la liquidità. Un concetto che di solito compare parlando del mercato azionario, ma adesso reti di condivisione come Uber o Airbnb offrono al consumatore accesso diretto a lavoro e strumenti, in un modo prima impossibile. «Dal mio punto di vista posso dire che Uber porta il sistema di transazione di mercato liquida dentro i trasporti – dice Lamy – ed è un meccanismo che una volta innescato diventa inevitabile». Richard Howard lasciava Uber prima dell’avvento di UberX. Parlandoci ricorda con un po’ di tristezza la crisi indotta dei black cab. «Fa comunque parte del progresso. Come gli artigiani che ti facevano le scarpe su misura».
Verso la seconda metà del 2015 a Londra il numero di conducenti Uber scavalcava quello dei black cab assestandosi poi a circa 25.000. Parte una corsa Uber al secondo nella capitale, e il marchio diventato dominante diventa anche più benevolo verso la concorrenza. A febbraio si invitano i tassisti a aderire alla piattaforma, sospendendo per un anno qualunque commissione. Parlando coi dirigenti Uber il termine che scelgono di utilizzare parlando dei black cab è: «heritage». Sono stato due volte negli attuali uffici centrali di Uber a Aldgate Tower, in un complesso dagli angoli arrotondati nella zona trendy più orientale della City. La compagnia ha circa 100 dipendenti nel Regno Unito adesso, e opera in 15 città tra cui Birmingham, Cardiff e Leicester. Tutti i visitatori degli uffici devono compilare all’ingresso un accordo di non divulgazione. All’interno la sede ha un’atmosfera nuova essenziale un po’ provvisoria. Dietro a molte scrivanie ci sono palloni «1» argento legati alle sedie a contrassegnare il «primo compleanno Uber», e uno schermo mostra un grafico col titolo «Cancellazioni».
In una sala riunioni, Tom Elvidge, direttore londinese trentaquattrenne e altro ex Goldman Sachs, mi presenta i progressi globali della compagnia ed espone le ragioni per cui Uber è tanto facile comoda piacevole da usare. Poter seguire in tempo reale il conducente che si avvicina. La media di attesa a Londra che è di 172 secondi. La possibilità di calcolarsi la tariffa probabile, comunicare agli amici il momento dell’arrivo, dividere il costo. Registro permanente di tutte le corse. Sistema di valutazione. Elvidge mostra una diapositiva con un grafico di linee colorate (ciascuna rappresenta una città) e spiega come in ciascun caso Uber migliori costantemente rispetto al precedente grazie alla crescente disponibilità di conducenti e clientela di usare la piattaforma e il servizio (Uber decide di cominciare in una città anche grazie alla quantità di chi ci scarica l’app). Elvidge guarda quel grafico per un istante e poi: «Ma sono dati superati. Dovrei mostrare quelli della Cina dove Uber opera in 55 città».
Più tardi, Elvidge mi porterà al Partner Service Center PSC dove si formano i conducenti e si raccolgono le loro richieste. Il centro sta sotto un viadotto a cento metri dalla sede centrale in un ex bar. C’è un pavimento a scacchi bianco e nero e una scala a chiocciola in disuso. In un angolo immerso di luce gli aspiranti conducenti si fanno fotografare per la tessera. Dall’altra parte un gruppo di tassisti aspetta di poter esporre le proprie difficoltà nell’uso dell’app e del servizio. Uno ha portato anche i bambini che incappucciati girellano tra le sedie. Schermi promozionali propongono finanziamenti per l’acquisto di un’auto o programmi assicurativi – uno di Cabmate recita «Affitta un veicolo Uber oggi» – e una freccia indica la stanza delle preghiere. «Molto importante» spiega Elvidge. Moltissimi conducenti Uber a Londra sono musulmani. Mentre arrivavamo al centro formazione ci siamo imbattuti in un aspirante conducente in abito tradizionale salwar kamiz che entrava e usciva dalla porta girevole borbottando «Ma cos’è questo posto?».
La separazione fisica tra uffici centrali Uber e PSC rende abbastanza esplicita la voragine che sta al centro della logica stessa di impresa, tra chi gestisce la rete e chi la rende operativa lavorando (nei documenti ufficiali i conducenti Uber vengono definiti «clienti»). Qualunque dirigente si interpelli dichiara di provenire dal mondo bancario o delle consulenze (al vertice delle comunicazioni nel Regno Unito c’è Alex Belardinelli, ex consigliere speciale di Ed Balls). Mentre parlando con decine e decine di conducenti per questo articolo, ovvero chi mette a disposizione capitale, assicurazioni, , lavoro umano al funzionamento materiale e miracoloso del servizio Uber si conferma – praticamente senza alcuna eccezione – la prevalenza delle comunità immigrate così come succedeva nelle botteghe d’angolo, nei servizi dei supermercati, n certi posti mal pagati dei servizi pubblici, o nel trasporto su minicab. Secondo i dati di Uber, circa un terzo dei propri conducenti proviene da zone di Londra dove il tasso di disoccupazione è superiore al 10%.
E in generale per tutti questi anni di tumultuosa crescita nessuno pare badare alla voragine tra chi dirige Uber e chi eroga materialmente il servizio. Una limpida mattina incontro a Woodford, nell’est londinese, Ben Tino, ventiquattrenne conducente che lavora per la piattaforma dal febbraio dello scorso anno. Tino viene da una famiglia black cab. Suo zio guida un taxi. Ha girato in monopattino, studiando le vie per più di un anno – la qualifica Knowledge di norma ne richiede tre – prima di firmare con Uber. Gli domando perché. «Può apparire un po’ ridicolo – mi risponde – ma soffrivo molto il freddo». Sul motorino l’hanno investito e buttato per terra tre volte. Da allora Tino ha fatto più di 2.500 corse per Uber con una valutazione 4,9 in una Citroen C4 Grand Picasso.
Pare la personificazione del conducente di piattaforma terzo millennio. Gli piace tutto di Uber, dagli spunti di mercato (le persone chiamano di più nei giorni di paga), alle capricciose «oscillazioni» (quando la domanda travolge l’offerta e i prezzi raddoppiano o triplicano), fino alle inevitabili sorprese. Conducenti che non hanno idea di dove andranno finché il passeggero non salta in auto e si conferma la prenotazione. «È un po’ come vivere dentro un giochino elettronico – racconta Tino – dà anche una certa dipendenza». Trova rassicurante il fatto di essere costantemente monitorato nei suoi spostamenti. Quando un passeggero gli ha rovesciato della birra in auto lui non ha detto nulla. Ha solo fotografato e spedito gli scatti a Uber, da cui è partita la tariffa aggiuntiva della pulizia a carico del passeggero. «Secondo me ricevi in cambio a seconda di quel che dai. È una spinta. Ti rende una persona migliore in qualche misura».
A Southall, passo un pomeriggio con Hassan Mirza, ex insegnante di matematica pakistano arrivato qui nel 2005. Mirza ha studiato per cercare senza successo un lavoro qualificato nel settore computer. Dopo cinque anni di vigilanza nei centri commerciali tra Southall e Hounslow, un amico che aveva iniziato a lavorare con Uber gli ha mostrato una fattura di 963 sterline. E alla domanda «Ma è il tuo mensile?» ha risposto: «Scherzi? È per una settimana». Il medesimo giorno Mirza chiedeva una licenza privata unendosi poi a Uber nell’ottobre dell’anno scorso.«Mi dà serenità. Quando hai voglia di lavorare esci. Se non ti senti vai a casa a dormire. Si vive una volta sola ed è meglio poter decidere da soli come vivere, diventare padroni di sé stessi».
Accostiamo vicino a Iceland dove lavorava prima Mirza. È un omone, estroverso, gira clip Youtube per altri conducenti Uber dove racconta di incontri con personaggi come Il Tizio Rozzo: «Ma a chi dai ordini? Chi vuoi comandare? Quando parli con Hassan devi cambiare tono, amico». Con il suo titolo in informatica si bea di star dentro al sistema. «È così intelligente. Chiunque l’ha concepito è un genio». Dopo tanti anni in piedi a fare un lavoro dequalificato sottopagato di vigilanza, Mirza diventa orgoglioso di condividere il prestigio di Uber e il potere quasi devastante che ne deriva. «Partecipo a una grande compagnia in grado di cambiare le cose». Mirza vuole sapere se ho sentito di quella nuova parola «uberizzare» che probabilmente entrerà nei dizionari. «Una compagnia ceh è in rado di ribaltare così il mercato all’improvviso. Mi fa stare davvero bene stare dentro l’uberizzazione».
Sia Tino che Mirza non hanno alcun dubbio sul fatto che la loro vita sia migliorata da quando lavorano con Uber. Gli unici momenti in cui il racconto inciampa è quando si comincia a parlare del rovescio della medaglia dei guadagni, o dei rapporti di potere tra sé e la compagnia. Tino mi dice di lavorare di norma tra le 50 e le 60 ore settimanali con Uber, con un guadagno di 800 sterline. Tra auto e altri costi si arriva a 160 sterline la settimana. Quando gli faccio il calcolo di un suo guadagno orario tre le dieci e le dodici sterline, Tino scuote la testa: «Ma no è di più» e mi dice che sarebbero sedici sterline (secondo Uber, la paga media di un conducente è sedici sterline l’ora). Quando Mirza fa i conti sui probabili guadagni dell’anno, si dimentica di dedurre i costi dell’assicurazione obbligatoria per i conducenti, che spesso arriva a 4.000 sterline. Ultimamente ogni tanti gli viene da chiedersi se è più Uber a funzionare per lui oppure lui a funzionare per Uber. «Per essere onesti è una questione difficile. Sono proprietario di me stesso … ma se cala la valutazione sono licenziato. Quindi tecnicamente parlando i padroni sono loro». Mirza esita un istante. «Ma non mi piace pensarla così».
Il diavolo si nasconde nei dettagli, quelli che iniziarono a tormentare i pensieri di Ruman Miah sei mesi dopo aver iniziato a lavorare con UberX nella primavera 2014. Abituato a prendere nota di tutto, costi e ricavi, in un primo momento era soddisfatto di quanto riusciva a guadagnare con la piattaforma Uber. Con uscite calcolate a 371 sterline la settimana prima delle tasse (tutto compreso tre lavaggi all’auto, usura pneumatici e imposte di circolazione) Miah portava a casa più di 800 sterline la settimana, grazie anche al bonus rivolto ai nuovi conducenti. «Uber lo adoravo all’inizio – ricorda Miah – niente esseri umani. Grandioso, gigantesco». Prima di aderire a Uber, era stato conducente autonomo a Londra per due anni, conosceva bene le vie, una volta si era fatto da Walthamstow all’aeroporto di Heathrow nell’ora di punta della mattina in 54 minuti. Vantava una valutazione di 4,9.
Ma le cose cominciano a cambiare verso la fine dell’anno. Miah installa una telecamera dopo un brutto incontro con una passeggera ubriaca e infuriata perché, diceva, stavano andando nella direzione sbagliata. Miah aveva sentito dire che in caso di dispute Uber tendeva a prendere le parti del conducente. Dopo che la donna aveva preso a calci la portiera non riportò i danni. Cominciava a considerare anche il meccanismo della valutazione come reciprocità, ma esercizio di potere squilibrato. Una stella secondo un passeggero può non significare nulla ma avere conseguenze di lungo periodo per il conducente. Tre settimane di valutazione 4,5 a Londra significano essere a rischio di convocazione da Uber per ciò che viene definito controllo qualità. «Oh mioddio la valutazione a stellette. Ce l’hai sempre stampata in testa e ti condiziona. Sarò troppo basso? Ci saranno reclami?». Qualche conducente cominciava a regalare bottigliette d’acqua, dolciumi, mendicando le cinque stellette. Miah lo considerava indegno.
Nei giorni liberi iniziava a leggere sui giornali qualcosa di più sulla compagnia con cui aveva un contratto, gli effetti sulle città dove era presente. Dopo la rapida crescita internazionale del 2012, Uber era stata accusata di non rispettare le regole in Francia, Belgio, Olanda, Germania, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Brasiel. Negli USA, Uber solo nel 2015 affrontava cinquanta cause federali per aggressioni di propri conducenti, «tariffe ingannevoli», discriminazione di disabili. Solo una settimana fa Uber ha patteggiato – versando cento milioni di dollari – due cause che avrebbero obbligato altrimenti a riconoscere dei conducenti come propri impiegati. Oltre a tutti questi guai giudiziari, Miah notava come Uber sembrasse seguire il medesimo copione commerciale in ogni città: a un certo punto iniziava ad alluvionare il mercato di conducenti, e poi a tagliare i prezzi.
A Londra, la quantità di auto private cresceva – 13.000 in più, il 25% – nei due anni seguenti l’ingresso di UberX. Il primo taglio di prezzi avveniva nell’agosto 2014. Poche settimane dopo durante una visita nella capitale Travis Kalanick dichiarava di volere 42.000 conducenti a Londra, sei volte tanti quelli presenti (anche se Uber nega che si tratti di un obiettivo ufficiale della compagnia). In un mercato così sovraffollato, con prezzi in crollo, Miah capiva che i suoi calcoli non avevano più molto senso. Quel dicembre i suoi guadagni settimanali scendevano da 800 sterline a 430, ovvero 7 sterline l’ora. Miah è competentissimo quanto a quel modo di dire di Uber: «Tutta la nostra innovazione punta ad abbassare i prezzi non ad alzarli». Ma non può fare a meno di chiedersi «Tutta la loro innovazione: ma cosa stanno innovando?».
La trasformazione indotta da Uber nel settore dei taxi di tutto il mondo poggia su un teorema. Che riversare enormi volumi di conducenti e passeggeri in un dato mercato – vedi liquidità – fa sì che al tempo stesso calino le tariffe ma i tassisti guadagnino di più. Per capire bisogna però smetterla di pensare al guadagno di una singola corsa, e invece considerare quante corse in più potrà fare il conducente dentro una rete efficiente. Un tassista passa di norma più di un terzo del proprio tempo fermo. Se invece partecipa a una piattaforma di chiamate tale da indurre un mercato reso efficientissimo e intelligentissimo dall’algoritmo, ecco quel tempo morto precipitare e consentirgli invece di accettare molte più corse.
In tre anni, i conducenti Uber di New York hanno visto i propri tempi morti in piattaforma quasi dimezzati: da 36 minuti l’ora a 20. Man mano si riducono ancora di più, e veicoli e conducenti sono più intensamente attivi – si guadagna sempre di più per unità di tempo – Uber è in grado di tagliare le tariffe molto più di quanto si potesse immaginare. L’ideale sognato da Uber è ciò che si chiama Corsa Perpetua: il conducente carica e scarica clienti di continuo.
Ci vuole qualche momento per cogliere l’idea: ci sono un sacco di conducenti in concorrenza per abbassare le tariffe ma tutti finiscono per guadagnarci (i tassisti americani definiscono questa nuova materia Ubermatica). «Pare un controsenso, ma solo finché non si sono verificati i dati» sostiene Jo Bertram, oggi responsabile di Uber per la regione britannico-irlandese-nordica. Ma se si accetta la logica win-win dell’effetto rete di Uber quello spazza via tutte le obiezioni che si possono fare al servizio. La compagnia ha pubblicato nell’ottobre scorso dei dati da New York in cui a fronte di un raddoppio dei conducenti e di una drastica diminuzione delle tariffe gli «associati» guadagnavano il 6,3% in più all’ora rispetto all’anno precedente (non esistono dati analoghi per Londra). «È la magia di Uber, giusto?» mi dice Lamy, architetto di UberX a Londra. «Si fa pagare meno l’utente e guadagnare di più il conducente».
Il guaio di questa nuova disciplina della Ubermatica è come venga avvertita sul fronte della forza lavoro che dovrebbe sostenerla. Il principio fondativo della piattaforma è quello di essere un semplice broker che fa incontrare domanda e offerta senza dire a nessuno come comportarsi. «Credo che alla fin fine tutta la nostra cura sia di lasciar fare alle cose» mi rassicura Elvidge, general manager per Londra. Ma perché la rete cresca costantemente e i grafici confermino ci vuole una piattaforma operantemente interattiva. A Londra, i conducenti hanno 15 secondi per decidere se accettare o meno una corsa. Quando ne rifiutano tre di fila sono staccati dal sistema per 10 minuti. Il mese scorso Mirza, con tutti i suoi video YouTube generalmente celebrativi della piattaforma, è stato escluso quattro settimane dalle corse su Heathrow per per aver rifiutato troppe richieste. E ha postato una clip intitolata «Lavoriamo CON Uber o PER Uber?».
Quando chiedo a Alex Rosenblat se giudica Uber uno spazio neutrale di libero mercato lei scoppia a ridere. Rosenblat fa ricerche a Data & Society, centro studi di New York. L’anno scorso ha passato dieci mesi a tenere d’occhio i dibattiti online dei conducenti Uber negli USA. Mettendo insieme le osservazioni di di migliaia di autisti, studiando le loro esperienze di rapporti con la piattaforma, minacce di disattivazione da valutazioni basse e rifiuto di corse, Rosenblat e il coautore Luke Stark della New York University, hanno coniato la definizione management algoritmico, a riassumere il modo in cui Uber controlla i conducenti attraverso una serie di automatismi. E secondo Rosenblat, non ci va affatto leggera la piattaforma, dalla scelta delle categorie di veicoli, alle flautate dichiarazioni ai media del leader Kalanick. «C’è parecchio di decisamente asimmetrico nel potere del sistema. Un modo per descrivere le relazioni di Uber coi propri conducenti è proprio osservarle con la lente dell’asimmetria, che restringe le opzioni di scelta».
Poi ci sono i guadagni. Secondo Uber, il conducente medio a Londra passa 27 ore la settimana collegato alla piattaforma guadagnando 16 sterline l’ora. Si tratta di quantificazioni sostanzialmente prive di senso però, vista la varietà di costi che ciascun guidatore deve sostenere. Bertram mi assicura che la compagnia verifica «ogni giorno ogni settimana» quanto prendono i conducenti, e che non potrebbe certo crescere con quei ritmi se non ci fossero incentivi. Ma stare in un mercato dove i prezzi continuano a scendere dà la sensazione che il proprio lavoro non valga proprio nulla. «Un’esperienza che si può ripetere magari anche venti volte al giorno – mi spiega un guidatore ungherese – si caricano venti passeggeri e per venti volte ti senti senza alcun valore. Magari arrivi alla fine della settimana e hai guadagnato uguale ma la sensazione non cambia».
Dal gennaio scorso, quando Uber ha introdotto contemporaneamente un taglio dei prezzi in 48 città americane, si è dovuta combattere una piccola ma determinata corrente di dissenso tra i conducenti, convinti di perderci. La protesta è arrivata fino a Londra, nella forma di una dimostrazione del sindacato GMB lo scorso dicembre. Poche settimane prima Uber aveva alzato la commissione per i nuovi conducenti dal 20% al 25%. Più protestavano, più la compagnia replicava che avessero torto. «Si protestava contro i tagli ai guadagni ma i responsabili locali della compagnia dicevano NO. Secondo un grafico elaborato su dati dovevano guadagnare il 17% in più – spiega Rosenblat – ma possono dire quel che vogliono, secondo i conducenti la paga la possono verificare solo loro».
Miah non è mai stato in grado di confermare la Ubermatica. I suoi fogli di lavoro, i registri di migliaia di corse attraverso Londra caricati e ordinati per anni, gli dicono come esista un limite oltre il quale il singolo conducente non può arrivare, per quanto liquido si faccia il sistema. «Se si carica un passeggero da Shoreditch High Street diretti a Soho non ci vogliono 15 minuti. Qualunque percorso si scelga: che si tagli da Charing Cross, o si arrivi da Marylebone Road. Dove si dimostra che un conducente riesce a sbrigare centinaia di corse in un’ora?» Lo scorso maggio un anziano automobilista ha tamponato la Prius di Miah che aveva lasciato un passeggero a Sutton. L’incidente segna una svolta. Miah ha riportato un danno alla schiena ed è caduto in depressione. Era già stato diffidente rispetto ad altri operatori prima ma qualcosa in Uber – le proporzioni delle promesse, la sterilità della piattaforma – che lo spiazzava completamente. «Una cosa è sicura: Uber non considera i conducenti persone umane, qualunque cosa affermi».
Attraverso Twitter, Miah ha contattato James Farrar, attivista irlandese ed ex consulente informatico che ha lavorato come conducente Uber ed è oggi uno dei principali oppositori della compagnia a Londra. Il luglio scorso col sindacato GMB, Farrar ha intentato una causa contro Uber, chiedendo che riconosca ai conducenti lo statuto di lavoratori dipendenti con salario minimo e garanzie. Farrar ha anche fondato l’associazione United Private Hire Drivers in rappresentanza dei conducenti di Londra. Miah mi diceva di essere interessato a unirsi a entrambi i gruppi e alle loro iniziative. Mentre continuava a lavorare con Uber 20-30 ore la settimana giusto per coprire i costi e le sue valutazioni erano crollate a 4,7. Pare difficile osservando da dentro Uber, decodificare tutte le perplessità, ansie, incredulità e voci sul suo programma, dato che questo sta a significare l’interruzione. Le esistenze cambiano. Si soffre. E c’è Uber. Tre anni fa nell’inverno 2012, c’erano 5.000 utenti attivi a Londra. Adesso sono 1.700.000: la metà dei passeggeri quotidiani della metropolitana. Non c’è alcuna scarsità di nuovi conducenti che aderiscono alla piattaforma. Uber il conquistatore sa solo crescere, la rete si allarga e si stringe.
Parlandoci insieme, Jo Bertram pare sempre molto comprensiva riguardo alle necessità di proteste e cause legali di delineare quale futuro porta Uber. Ma conosce anche i dati, e sa quanto siano indiscutibili. «Ogni cosa in Uber è assolutamente basata sulle cifre e logica. E costruisce un mondo dove qualunque argomentazione contro diventa sentimentale. Come se due persone litigassero ma parlando lingue diverse». Poi Bertram mi racconta di UberPool, il prossimo stadio dell’evoluzione verso il Movimento Perpetuo, introdotto a Londra da tre mesi. UberPool mescola gli spostamenti degli utenti in modo tale da consentirgli di condividere l’auto. È del 25% più economica di UberX, e in realtà assomiglia pochissimo anche ad una corsa in taxi, visto che si sta insieme a degli estranei nello stesso veicolo. Uber ritiene si tratti di un servizio in grado di modificare addirittura l’idea di proprietà della macchina. Una recente ricerca sul caso di Parigi ha concluso che usare UberPool per un anno sarebbe più economico che avere un’auto propria. Anche cercare parcheggio diventa un ricordo del passato. «UberPool è una novità straordinaria, con un grande potenziale per Londra – conclude Bertram – ma si tratta di qualcosa di incredibilmente complicato che richiede un balzo di fede».
Ma abbiamo fede in Uber? Pochi giorni più tardi sono al secondo incontro degli United Private Hire Drivers, la nascente organizzazione di conducenti di Farrar. Che chiede un tetto alla quantità di autisti a Londra, e programma una serie di proteste economiche contro Uber. L’incontro avviene in una sala pubblica di Kentish Town. Sono presenti una quarantina di persone. Uber ha appena abbassato le tariffe a Leeds e Manchester, e ci sono conducenti anche da quelle città. Tutti quelli con cui parlo mostrano sullo smartphone il calcolo dei loro evaporanti guadagni. Uno striscione recita «ADESSO BASTA». George Galloway, candidato Sindaco di sinistra, viene a tenere un breve discorso. «Cosa ci ha dato sinora Uber se non dolori. Sappiamo tutti cosa voi date a Uber, e si tratta di profitti che vanno oltre i sogni della più sfrenata cupidigia». Quando Galloway esce, lo seguo andando fuori dalla sala. Parcheggiate lungo i marciapiedi le Toyota Prius e Mercedes Classe E, col loro adesivo di conducente privato sul lunotto. Apro la mia app. Mostra vie vuote in corrispondenza di quelle auto. Ma non devo preoccuparmi perché quasi subito spunta un veicolo disponibile: il mio Uber è a due minuti di distanza.
da: The Guardian (Archive) 27 aprile 2016; Titolo originale: How Uber conquered London – Traduzione di Fabrizio Bottini