Isobare
Sembrava la solita trovata giornalistica, per riempire i titoli di stampa e telegiornali con qualcosa di diverso dai pettegolezzi da spiaggia, foto di trippe o tette un po’ sfocate sul blu marino d’ordinanza, stanche dichiarazioni dei soliti noti sui progetti per l’autunno prossimo. E invece quelle animazioni da colonnello dell’aeronautica, con gli spostamenti dell’uragano sempre più a ridosso della Costa del Golfo, nei territori degli stati di Louisiana e Mississippi, per una volta annunciavano qualcosa di davvero clamoroso.
La sorpresa per la maggior parte del mondo cominciò con le immagini dell’esodo e degli intasamenti sulle highways, negli svincoli e verso quei punti di strozzatura della viabilità che poi ci sarebbero stati spiegati in tutti i particolari. Continuò, la sorpresa, alla vista dei poveracci ammassati come bestie nello stadio, stavolta senza nemmeno il popcorn e la partita, e senza sapere esattamente cosa stava succedendo là fuori. Nelle ore e nei giorni successivi, iniziò poi a dipanarsi quello che continua sino ad oggi, e che presumibilmente continuerà per un bel pezzo: storie da “disastro annunciato”, polemiche sull’inefficienza nei soccorsi, rivelazioni sugli intrecci oscuri fra interessi, mancanze, omissioni e veri e propri crimini, alla base di quanto tutti vedevano, e di quanto molti immaginavano. Nei mesi successivi, poi, il dipanarsi e articolarsi del dibattito sulla ricostruzione, gli investimenti, gli aspetti sociali, i dubbi su un potenziale “sciacallaggio” politico ed economico ai danni dei gruppi sociali meno influenti, resi vistosi dall’ovvia e banale composizione della città: neri poveri, bianchi ricchi. Forse con qualche tonalità intermedia, ma mica troppe.
La stampa internazionale, quella italiana inclusa, ha dato enorme rilevanza a questi ed altri aspetti del prima, durante e post-Katrina, rilevando soprattutto quanto tutti meno si aspettavano, e che ovviamente ha più colpito: la fragilità del sistema (socioeconomico, ambientale, decisionale, insediativo ecc.) statunitense e regionale di fronte a un evento certo eccezionale, ma non certo imprevedibile. D’altro canto, il caso Katrina-New Orleans, con la grande esposizione mediatica a cui è stato sottoposto, ha rappresentato anche uno specchio e un amplificatore per dibattiti tematici spesso affondati nell’invisibilità degli specialisti, o nel puro abituale affollamento dei media. È il caso in primo luogo delle grandi tematiche ambientali legate al mutamento climatico, ma anche di quelle correlate (qui in primo luogo) delle estrazioni petrolifere e del consumo di combustibili fossili, o dell’urbanizzazione a tutti i costi sostenuta su base esclusivamente “ingegneristica”, crollata anche a causa del suo non aver saputo fare sistema insieme alle premesse naturali e geografiche. A New Orleans sono anche emerse, di nuovo per quanto riguarda la visibilità non specialistica, le discrasie fra l’affermata organicità alle varie scale delle scelte tecniche, sociali, ambientali, ed una pratica di ricomposizione del tutto casuale, frammentata in una catena di eventi e decisioni a scatole chiuse. Coi risultati che almeno in parte il mondo ha potuto vedere.
Decisioni
Punto di partenza ideale, il discorso pronunciato dal Presidente Bush immediatamente dopo il primo bilancio di emergenza, il 31 agosto 20051. La solennità del caso e del contesto inizialmente può confondere il grande pubblico, con l’evocazione di una attività febbrile degli uffici federali, statali, locali responsabili, a fronte del panorama complessivo del disastro. Le priorità della presidenza: salvare vite, soccorrere le popolazioni colpite con generi di prima necessità, dagli alimentari ai farmaci ai ricoveri, infine “intervenire per una ripresa coordinata”, dalle infrastrutture base, e ovviamente via via al ripristino della normalità e all’avvio della ricostruzione vera e propria. Normalità piuttosto lontana, visto che come racconta Bush nella prospettiva del suo volo presidenziale sopra le zone colpite, “Sarà un percorso difficile. Le sfide che abbiamo di fronte sono senza precedenti. Ma non ci sono dubbi nella mia mente sul fatto che ci riusciremo”.
Dubbi che manifesta invece, immediatamente dopo e clamorosamente, il primo editoriale del principale quotidiano del paese sul discorso presidenziale2. Che rileva nell’amministrazione incertezze, dilettantismo al limite della farsa, generale inadeguatezza, a partire dal discorso alla nazione: “uno dei peggiori della sua vita”, degno di una inaugurazione di anno scolastico in una scuola di provincia, non certo di una grave emergenza nazionale. Si delinea già, quello che poi i mesi confermeranno un leit-motiv del post-Katrina: la latitanza del coordinamento decisionale, orizzontale e verticale, fra competenze, forze, responsabilità politiche e amministrative. Anticipa, l’editoriale di commento al discorso di Bush, la futura corsa al fai-da-te che le varie cordate di interessi intraprenderanno con maggiore o minor successo, con finalità più o meno apertamente rivendicabili. Occorrono sacrifici, ma l’amministrazione repubblicana è poco propensa a chiederne, perché non piacciono al suo elettorato di riferimento; poi “ci avvertono che il riscaldamento globale potrà aumentare la forza degli uragani in futuro. Ma … l’attuale amministrazione non riconosce l’esistenza del riscaldamento globale”.
È comunque certo che la questione non è affatto semplice, visto che coinvolge in modo profondo e radicale, dall’alto e dal basso, modelli di sviluppo e paradigmi di comportamento apparentemente scontati e automatici. Ad esempio l’autonomia decisionale delle amministrazioni locali o degli organi decentrati dello stato, la sacralità dei mercati e/o delle libere scelte individuali (dalla casa unifamiliare e costruita dove si crede, alle forzature del settore estrattivo e relativi impatti sul sistema costiero). Ma si potrebbe andare anche oltre, e il risultato generale è che visti i risultati catastrofici, anche nell’immediato post-Katrina “molti puntano il dito sia alla risposta di breve periodo che al fallimento delle politiche di lungo termine”3. Ma, osservano gli analisti più attenti, se è certo che Presidente e organismi centrali di decisione non si stanno comportando affatto all’altezza della situazione, il quadro è molto, ma molto, più complesso. A partire dalla storia insediativa e di sviluppo locale: secoli di ingegneria del territorio dove, dalla decisione originaria di localizzare e organizzare il porto e la città, sino allo sprawl suburbano e all’erosione costiera dei complessi estrattivi e distributivi di idrocarburi, tutto ora appare come in contrasto con la geografia e l’ambiente. L’auspicio, è che da ora in poi, in sede locale, regionale, nazionale, tutti i soggetti interessati imparino ad agire in modo meditato e coordinato, perché “le decisioni prese senza dovuta attenzione alle conseguenze si pagano, prima o poi”.
Da subito piuttosto brutale, nella sostanza se non nella forma, la risposta del mercato: non inteso nella solita forma di oscillazioni di borsa o simili, ma nelle forme di orientamento dell’opinione pubblica generale. Emerge in sostanza quasi subito quanto si affermerà nei mesi successivi al disastro, ovvero la divaricazione tra quanto gli operatori economici considerano valga la pensa di ricostruire, e quanto invece si giudica una inutile tara. Il che, detto con altre parole, significa sloggiare i neri poveri e tutto quanto storicamente si è stratificato attorno alla Big Easy, lasciando spazio ad un parco a tema tirato a lucido per i turisti, percorso da orchestrine jazz appositamente ingaggiate, e circondato dagli impianti e infrastrutture petroliferi. Si afferma letteralmente “Abbiamo obblighi nei confronti delle popolazioni, non dei luoghi”4, ma già questa artificiosa separazione fra spazi e società rivela un giudizio di valore, un progetto di ricomposizione, per quanto non chiarissimo nelle sue declinazioni locali. È certa comunque la coerenza con il doppio binario immediatamente imboccato dall’amministrazione Nagin (sindaco poi rieletto nonostante le polemiche all’inizio del 2006): da un lato strenua tutela dei proprietari, dall’altro la concreta deportazione per motivi di “sicurezza” degli inquilini delle case pubbliche. Del resto, è subito trovato il solito accreditato studioso pronto a dichiarare dati alla mano che per il bene di tutti “sarebbe molto meglio consegnare a parecchi dei residenti un assegno da 10.000 dollari e un biglietto d’autobus per Houston”. La scelta di quali residenti, diventa poi automatica, se si lasciano agire le mani invisibili del mercato.
Qualcuno nel mondo può restare stupito di fronte a questo apparente dilagare del cinismo collettivo di fronte alla tragedia sociale degli sfollati e disinformati ex residenti poveri. Uno stupore indebito, se si considerano i precedenti dell’Impero Americano, osserva il nostro Eugenio Scalfari nel suo sermone domenicale sull’argomento5. L’uragano ha scoperchiato abissi di povertà e disuguaglianza spesso inimmaginabili, ma, osserva Scalfari, del tutto coerenti ad una potenza imperiale, così come è del tutto coerente l’atteggiamento che sembra invece schizofrenico, di aspetti di incredibile efficienza e di altrettanto incredibile lentezza e farraginosità. A New Orleans gran parte della popolazione non “merita” le si vengano dedicate le risorse migliori, perché estranea e barbara, “Considerando barbari i popoli che vivono fuori dai confini dell’impero e quelli che, dentro quei confini, non accettano i mores e non pagano il tributo dovuto al centro dell’impero”. È sin troppo facile, abbozzare un parallelo fra questa lapidaria definizione e le mille, striscianti o esplicite polemiche sulla città del peccato, della trasgressione, dei tempi rilassati, addirittura a partire dal nomignolo di Big Easy, antipodale ad una morale fondata sulla fatica, o almeno sulla sua retorica.
Storia, Geografia, Scienze
Le polemiche sul post-Katrina, dal punto di vista dell’organizzazione del territorio, rappresentano come abbastanza ovvio in questi casi l’apoteosi de “io l’avevo detto”. Risulta comunque spaventosa e impressionante, col senno di poi, la lettura (riproposta integrale o per estratti da moltissimi siti web) di un articolo pubblicato molto tempo addietro da Scientific American, che prevede molti dei suoi effetti, e descrive passo passo il sistema insediativo regionale sulla costa, gli impatti delle attività umane, i programmi e progetti dei vari organismi responsabili per la manutenzione del territorio e dell’ambiente6.
Premessa di sintesi: “La costa della Louisiana produce un terzo del cibo nazionale di provenienza marina, un quinto del petrolio, e un quarto del gas naturale. Ospita il 40% delle zone umide costiere del paese, dove soggiorna d’inverno il 70% degli uccelli migratori acquatici. Le strutture portuali sul Mississippi da New Orleans a Baton Rouge costituiscono il più grosso complesso nazionale”. Ma questo sistema, come raccontato con dovizia di particolari, dagli studi delle grandi università alle interviste ai pescatori delle lagune salmastre, si regge su un equilibrio regionale instabile, sempre più tale a causa delle attività estrattive, delle colmate per la diffusione urbana e infrastrutturale, della relativa denaturalizzazione dell’ambiente costiero e delle sue difese naturali dagli agenti atmosferici anche estremi. L’apporto delle attività umane, anziché ricercare la complementarità con i sistemi marino, fluviale, delle zone umide e isole sabbiose, si concentra su interventi high-tech soltanto di nome: argini, canali, terrapieni, sistemi di pompaggio, che rendono sempre più costosa, artificiale e imprevedibile la manutenzione regionale. In un sistema meccanico, il tracollo di un solo componente anche secondario può significare il tracollo dell’intero meccanismo.
Altro sarebbe, convertire il metabolismo dell’area ad un rapporto più squilibrato verso gli elementi vivi e adattabili della flora, della fauna e relativi habitat, ma questo significherebbe un difficile mutamento di paradigma. E di flussi finanziari, dalle “grandi opere” a una rete molto più articolata. Ricorda, Fischetti nel suo profetico saggio del 2001, come esista già un piano del genere, denominato Coast 2050, su cui convergono sia le grandi agenzie pubbliche, sia numerosi studi di alto profilo: ma su cui non converge affatto la decisione politica. Al meglio, così, quel piano diventa contenitore di progetti puntuali, forma di legittimazione per varie filosofie di intervento, scusa per deviare i finanziamenti più corposi verso le opere “concrete”: cemento, macchinari, movimenti terra … Dopo cinque anni e le ondate di Katrina, la fragilità delle opere anche più maestose appare evidente, al limite del ridicolo se non ci fossero tutti quei morti e danni materiali.
E la cosa dovrebbe essere ancor più chiara, se si tiene conto del fatto che quanto accaduto in Mississippi, Louisiana, e con maggior visibilità nelle strade e quartieri di New Orleans, non sia altro che una emergenza della crisi mondiale legata al mutamento climatico. Lo ricordano immediatamente i rappresentanti del mondo scientifico, che “non esiste alcuna muraglia forte abbastanza da respingere per sempre l’invasione delle acque. Il livello dell’oceano continuerà a salire”7. Qualunque logica di ricostruzione, comunque intesa, non può quindi continuare a basarsi sulla antropizzazione di territori a rischio come le zone costiere in una prospettiva di lungo periodo, e anche la doverosa tutela sociale ed economica delle popolazioni deve fare i conti con la necessità di strategie di medio-lungo periodo: strategie che evidentemente fanno a pugni con le attuali tendenze dell’investimento finanziario-industriale, e delle decisioni politiche che sostanzialmente lo sostengono.
Iniziano dunque ad emergere con più chiarezza le vere difficoltà decisionali evidenziatesi con la crisi di Katrina: non semplice bisticcio, per quanto sulla pelle di milioni di cittadini, sulle modalità tecnico-scientifiche di ripristino urbano e regionale, ma necessità di un nuovo paradigma politico-economico di scala superiore, adeguato alle sfide planetarie poste – piaccia o meno – dal mutamento climatico. Lo ricorda l’ex ministro dell’amministrazione Clinton ed economista, Jeremy Rifkin, sottolineando come negli ambienti politici più conservatori, ma non solo, si tenda a fuggire una responsabilità che richiederebbe scelte coraggiose, drastiche, soprattutto non rivolte al breve e brevissimo termine del tornaconto personale e della facile ricerca di consenso. E invece, ora “Gli Stati Uniti sono stati colpiti dall’effetto serra e non da un semplice uragano … stiamo imparando sulla nostra pelle tutto quello che non abbiamo fatto finora: non abbiamo risparmiato energia, non abbiamo usato energie rinnovabili, non abbiamo tassato la benzina, non abbiamo firmato gli accordi di Kyoto”8. Evidente, come queste linee di grandi scelte si sposino con le strategie regionali e locali di pianificazione e ricostruzione.
Ancor più evidente, la contraddittorietà (ambientale, finanziaria, politica) di interventi federali di spesa in perfetto stile big government statalista, che da un lato contraddicono sia le dichiarazioni liberiste che quelle sull’insostenibilità economica dei piani di ripristino ecologico dell’assetto costiero, dall’altro confermano come la tendenza prevalente sia anche nei casi migliori il ripristino del sistema insediativo com’era e dov’era. È il caso del colossale piano di un deputato repubblicano eletto nei collegi suburbani, bianchi e ricchi, di Baton Rouge, che vuole convogliare sulle zone nere di New Orleans “80 miliardi per estinguere mutui, ripristinare le opere pubbliche, acquisire enormi pezzi devastati di città, ripulire il tutto e rivenderlo ai costruttori”9. Col sostegno, a quanto pare, dello stesso Presidente Bush, evidentemente molto sensibile a questioni di consenso di breve respiro, nonché orientate alla tutela a tutti i costi della proprietà privata e dell’assetto insediativo tradizionale: almeno, come si vedrà, nelle sue forme strettamente fisiche.
Grandi investimenti per il ripristino infrastrutturale, nuove opere di difesa, recuperi diffusi e ripresa della città, a parere di molti destinati sostanzialmente allo spreco: esiste una colpa storica, che accomuna una lunga serie di amministrazioni, centrali e locali, ed è quella di non aver mai orientato piani e spese verso una decisa politica di ripristino ambientale come quella prefigurata da Coast 2050, con la rinaturalizzazione di ampie zone a tutela dell’interfaccia terra-mare. Ora appare davvero troppo tardi per riuscire a fare qualcosa di utile. Troppi gli interessi ormai consolidati, troppo comunemente accettata la cultura delle grandi opere di difesa tradizionali, perché sia in qualche modo possibile voltar pagina: “Katrina ha distrutto Big Easy – e le Katrine del futuro faranno altrettanto – non a causa del fallimento dell’ingegneria, ma perché sono scomparsi milioni di ettari di isole costiere e zone umide in Louisiana nello scorso secolo, a causa delle interferenze umane”10.
Gli architetti e la città
Coi presupposti di cui sopra, appare forse un po’ fuori luogo (nel più autentico senso della parola) l’ampio dibattito che da subito impegna la cultura architettonica e urbanistica sulla ricostruzione di New Orleans. Ma tant’è: vuoi l’oggettiva questione, anche di ordine sociale e di immaginario, della ripresa ad ogni costo11, vuoi l’abitudine professionale a vedere in qualunque tabula rasa una grande occasione di lavoro e di principio, il movimento delle organizzazioni e degli studi si coglie già sin dai primi giorni dopo l’uragano.
Un ampio giro d’opinione fra studiosi e rappresentanti delle discipline interessate, restituisce un variegato ventaglio di ipotesi, naturalmente tutte tese in un modo o nell’altro ad affermare, nel contesto reso instabile dall’evento calamitoso, il proprio particolare equilibrio. Quella più radicale, e al contempo forse più realistica visti i presupposti climatici e di degrado del sistema regionale, è la proposta di ricostruire la città – o in subordine le parti più insicure della città – altrove: “se ci saranno enormi spazi inutilizzabili – allora cosa ci sarà da ricostruire? Perché farlo sotto il livello del mare?”12 Come per tutte le ipotesi radicali di riorganizzazione del territorio, però, anche nel caso della ricostruzione di New Orleans si pone e si porrà l’abituale alternativa, presumibilmente con l’altrettanto abituale sbocco: da un lato appunto idee spaziali fortemente innovative, che rappresentano però solo la punta dell’iceberg di un nuovo paradigma ambientale, energetico, e in definitiva decisionale-politico, così come lo delineava Jeremy Rifkin; dall’altro sovrastrutture ideologiche più o meno accattivanti negli aspetti formali e anche nelle dichiarazioni e pratiche microsciali (esempio: l’urbanistica partecipata), ma che eludendo in tutto o in parte il grande tema della ricostruzione dei sistemi ecologici costieri, di fatto si pongono a sostegno del paradigma urbano-industriale più insostenibile.
E pure, come tutte le utopie urbanistiche più o meno famose, anche quelle scaturite dalla devastazione di Katrina non mancano di un notevole fascino. Sulla tabula rasa territoriale un tempo occupata dallo sprawl suburbano nelle aree a rischio idrogeologico dipendenti dal sistema di pompe e argini, ora c’è l’occasione di far sorgere una città ideale, fatta di centri di incontro, aree a funzioni miste, densità edilizie molto più elevate di quelle della solita villettopoli con centri commerciali e terziari specializzati agli svincoli delle superstrade. Quella che viene definita “l’occasione non solo per correggere i problemi causati dalla povertà umana e dalla vulnerabilità fisica della città, ma anche per segnare la strada a tutte le altre realtà metropolitane d’America”13 si riassume in uno slogan già parzialmente sperimentato in altre realtà: smart growth. Ovvero, una pianificazione urbanistica che tenga conto di criteri energetici, ambientali, sociali, nella prospettiva di un recupero del senso comunitario della città tradizionale.
Quindi, apparentemente, attenzione non solo alle forme fisiche dell’insediamento storico, produttivo, residenziale e di servizi, ma anche allo spirito di fondo che dovrebbe costituire la radice della presenza umana su qualunque territorio, e la base dello sviluppo economico in armonia con l’ambiente, a partire ad esempio da una rete di generazione energetica diffusa, alternativa al sistema tecnico e di potere delle grandi centrali di produzione e trasformazione. Un’idea, come si vede, di spirito locale ben diversa da quella benevola quanto folkloristica e tendenziosa della cultura del jazz, della mescolanza etnica come spettacolo multicolore per turisti, del centro storico e dell’architettura locale come parco a tema vivente, tristemente simile ad alcuni aspetti della nostra Venezia14.
Una tendenza che è pure presente in gran forze: strisciante e implicita, ma ben colta dall’occhio clinico del critico di architettura del New York Times, che conosce i suoi polli anche oltre le dichiarazioni ufficiali e le grandi intenzioni in buona fede. Il panorama dei progetti, delle proposte, degli spunti vari per la ricostruzione, punta quasi subito verso una vera e propria normalizzazione in senso piuttosto reazionario dello spazio urbano: città sterilizzata, turistica, per ricchi, azzeramento dei conflitti e della complessità, in definitiva un parco a tema vivente. Anche l’approccio più attento a considerare le radici locali, in questo contesto potrebbe rivelarsi “una versione fiabesca della storia, le cui conseguenze potrebbero essere particolarmente gravi per New Orleans, che era già sulla buona strada per diventare un’immagine da cartoline del proprio passato anche prima che l’uragano colpisse”15.
Non è certo un caso, se prima in modo sporadico, e poi con legittimazione sempre più elevata e istituzionale, nel processo di ricostruzione della Costa del Golfo colpita dagli uragani si afferma la cultura e la professionalità del new urbanism, ovvero della versione edulcorata di smart growth nota soprattutto per gli stilemi architettonici legati al villaggio tradizionale, agli spazi commercial-comunitari pedonalizzati, a questioni importanti ma certo solo puntuali come il rapporto fra strade e edifici, trasporti pubblici e privati, compresenza funzionale entro i medesimi complessi (spesso in USA proibita dalle norme urbanistiche) di negozi, abitazioni, uffici, servizi. Entrata nel grande mercato dell’edilizia residenziale e dei nuovi centri commerciali lifestyle dopo la fama internazionale del villaggio di Seaside in Florida, sfondo del film The Truman Show, la cultura dei “nuovi urbanisti” grazie alle sue ottime entrature politiche di destra e sinistra sembra imporsi come paradigma per la ricostruzione. Nel bene e nel male, verrebbe da dire. Iniziano, prima in Mississippi e poi più sporadicamente in Louisiana le sessioni di charrette16 nei vari centri che aderiscono alla grande iniziativa, sponsorizzata dai governatori degli stati e dalle amministrazioni locali.
La grande capacità del Congress for the New Urbanism, associazione che raccoglie gli aderenti al movimento, è stata soprattutto quella di presentare un progetto organico: organizzativo, di coinvolgimento di cittadini e istituzioni, di stimolo agli investimenti diffusi nella ricostruzione, e infine anche un’idea di massima – da declinare localmente – di insediamento urbano a forti caratteri identitari. In altre parole, come già avvenuto a suo tempo coi Congres Internationaux D’architecture Moderne in Europa fra le due guerre e nel periodo della ricostruzione post bellica, alcune idee di spazio riescono ad insinuarsi, colmandoli, nei vuoti del sistema decisionale e dello stesso immaginario sociale (almeno quello di chi ha un certo potere, per quanto locale). Per dirla col critico di architettura del Los Angeles Times, sulla Costa del Golfo nei piani di ricostruzione, anche ai migliori cervelli e progetti nazionali si è riusciti a “prevalere non attraverso ragionamenti e alta teoria o progetti ispirati, ma con una migliore disciplina e organizzazione”17.
E, aggiungerei io, anche con la nota e notevole capacità mimetica, che spesso vede la ripetizione ossessiva di slogan e stilemi del tutto standardizzati in qualsiasi contesto, filtrati attraverso il sottile processo comunicativo della charrette, e che diventano così in modo sistematico caratteri locali, quando di fatto non sono altro che piccoli adattamenti (spesso contenuti ad alcuni materiali da costruzione o essenze arboree) di un criterio di intervento unitario a scala nazionale. E pure il metodo appare del tutto funzionale e privo di conflitti degni di questo nome, se si paragonano certe feroci polemiche locali di New Orleans alle ordinate e festose assemblee delle cittadine della costa dove, tra il frusciare dei fogli da schizzi e gli interventi al microfono, si compongono via via le immagini del nuovo town center: le solite panchine, il centro commerciale con una torretta residenziale d’angolo, eliminazione dei grandi piazzali a parcheggio e vie alberate … ma tutti sembrano soddisfatti, e anche disposti a investire denaro sonante dai propri risparmi, per tradurre quei disegni in realtà18.
Al medesimo tipo di approccio, si può far risalire anche una innovazione progettuale apparentemente modesta, ma comunque apparentemente destinata a fare storia: il Cottage Katrina. Ideato da una progettista di New York e fortemente sostenuto dallo stesso movimento new urbanism, questo nuovo tipo di edificio si colloca a mezza strada fra le case mobili della Federal Emergency Management Agency (essenzialmente spartani trailers da pochi metri quadrati, adatti soltanto a momenti di crisi estrema), e una abitazione vera. Con un costo contenuto, viene immessa sul mercato nei primi mesi del 2006, e si rivela se ben gestito uno strumento in grado da un lato di garantire un presidio territoriale dal parte della società locale anche nelle zone più colpite dal disastro, dall’altro di farlo in modo non pregiudiziale né ad una vita relativamente normale, in spazi di qualche decina di metri quadrati, organizzabili in “quartieri” con spazi comuni pianificati, a prefigurare e iniziare a comporre le forme insediative del futuro19.
Il diritto del più forte
Fuori dalle rarefatte atmosfere dei dibattiti sulle visioni future new urbanism, nel fango e tra le pratiche della ricostruzione reale, si agitano a quanto pare soggetti assai meno cooperativi e volenterosi: i rappresentanti degli interessi più o meno confessabili che scommettono, localmente o a scala regionale, sull’una o l’altra opzione di investimento, di lobbying, di speculazione. L’aspetto più ovvio e prevedibile, anche se non per questo meno sinistro, è quello dei grandi operatori economici calati come il biblico corvo dopo il Diluvio. Lo racconta, con la documentata veemenza che è il suo marchio di fabbrica in tutto il mondo, il sociologo-urbanista Mike Davis, che fa partire la grande piramide consolidata degli interessi dal vertice dell’amministrazione federale e della sua impostazione destro-liberista, attraverso le ramificazioni locali (i governatori, il comune di New Orleans), e di rimando alle imprese private. In sintesi, “i Repubblicani faranno della devastazione causata dall’uragano un’utopia capitalistica. «Vogliamo fare della Gulf Coast un magnete per la libera impresa”20. Implicitamente ed esplicitamente, emergono da questa filosofia generale i risvolti sin qui solo accennati dell’emarginazione dei neri poveri (che oltretutto votano Democratico), della pianificazione urbanistica non solo burocratica e formale quando rischia di rallentare i processi di valorizzazione immobiliare, a favore di un approccio di massima high-tech ingegneristico basato ancora su argini, pompe, grandi infrastrutture, in definitiva sull’offerta disponibile del complesso produttivo dominante.
Non a caso da subito si registra l’immediata convergenza delle amministrazioni statale e locale esattamente su quello che dovrebbe essere un punto molto, ma molto, controverso: la ricostruzione e rafforzamento degli argini. Proprio quanto sostanzialmente messo in discussione da numerosi studi, piani, osservazione delle varie fasi storiche del rapporto fra eventi calamitosi, investimenti nelle difese, risultati finali. Pare non ci sia alcuna discussione, sul fatto di orientare immediatamente enormi risorse economiche verso le grandi opere di difesa, mettendo da parte almeno come alternativa strategica la pianificazione territoriale e ambientale, il ripristino delle difese naturali e degli interfaccia terra-mare, spesso le medesime ipotesi urbanistiche di minima, sulla dichiarazione di inedificabilità di alcuni quartieri a rischio. Si replica insomma il dualismo storico, che dovrebbe essere messo almeno in parte in discussione dal nuovo paradigma climatico globale, secondo cui a New Orleans come dicono gli studiosi esiste “uno scollamento fra “sito” – lo spazio reale occupato dalla città – e “situazione” – i vantaggi relativi di un’area urbana su altre”21.
Fiducia fittizia e basata sul nulla nell’affidabilità sul lungo tempo delle tradizionali Grandi Opere, che nelle microscelte più o meno clientelari a scala locale e puntuale si traduce in scelte, improvvisate quanto significative, come quella dell’amministrazione comunale sul piano di ricostruzione. Per lunghe settimane si riunisce l’apposita Commissione cittadina presieduta dal Sindaco, per definire le linee guida della variante al piano regolatore generale da elaborarsi per il dopo-Katrina. Ma si avvicinano, anche, le elezioni locali, e le raccomandazioni pubblicate alla fine di cotanto dibattito tecnico-politico suonano più o meno come: ricostruite dappertutto. I grandi o meno grandi auspici degli architetti sognatori per la città ideale sulla tabula rasa dell’uragano a quanto pare devono accontentarsi di una piccola messe di microprogetti all’ombra dei terrapieni, delle stazioni di pompaggio, dei rilevati degli argini con le strade di manutenzione. Magari con il luccichio di qualche edificio di gran firma, o il restauro filologico (dopo accurata deportazione degli abitanti insolventi) di qualche quartiere storico. Come un po’ cinicamente sottolinea una nota Associeted Press/CNN, di commento alle controverse raccomandazioni della commissione cittadina, “La forma finale del piano sarà determinata in gran parte dalle decisioni del Congresso e del Presidente Bush, che tengono i cordoni della borsa”22. Definitivo.
Oltre i limiti del ridicolo, a ricordare un po’ certe miserie italiane di malcostume amministrativo-politico, il racconto di cosa accade negli uffici tecnici comunali di New Orleans in termini di valutazione dei danni. Una norma restrittiva delle possibilità di ricostruzione delle case danneggiate fissa al 50% di danni le possibilità di intervento normale da parte del proprietario. Oltre la quota del 50% bisogna demolire, e la ricostruzione è possibile solo secondo criteri di sicurezza prefissati, e costosi, come la sopraelevazione su pilastri oltre i livelli massimi previsti per le inondazioni. E appunto negli uffici tecnici comunali si aggirano per settimane migliaia di cittadini col loro modulo: fanno la fila, espongono all’incaricato l’imprecisione di quel 54%, o 58%, di danni, ed escono soddisfatti con una nuova perizia virtuale, dove i danni senza alcun sopralluogo diventano a piacere del 49%, del 46%, insomma sotto la fatidica soglia23. Inutile sottolineare come, una pratica dopo l’altra, questa procedura allontani ancor di più qualunque prospettiva seria di ripensare le forme insediative, e figuriamoci secondo gli orizzonti da città ideale vagheggiati da qualche utopista universitario: that’s real planning, baby! L’urbanistica degli sportelli, dei moduli prestampati e della discrezionalità di un geometra dopo l’altro per valutare, sulla base probabilmente del tono di voce del supplicante (per non pensar male) la reale entità del danno e le possibilità tecniche di ricostruzione.
E in perfetto stile di valorizzazione dell’individuo, naturalmente è chi viene considerato “massa” a dover cedere il passo. Si era già intuito con la deportazione preventiva dei poveracci nello stadio, in stile post-cileno, mentre infuriava Katrina. Si conferma nelle politiche successive di gestione del patrimonio abitativo pubblico, dei grandi complessi popolari: questi sì, a quanto pare, valutati con strettissimi criteri di sicurezza. Ed evacuati dagli inquilini e assegnatari legittimi, i quali vengono sbrigativamente smistati il più lontano possibile, ad esempio a Houston, da dove molti non riescono neppure a tornare perché nessuno è disposto a pagar loro un biglietto. Chi torna, si trova un cordone di polizia davanti al cancello, le case inaccessibili a far muffa, o forse a far gola a chi vorrebbe privatizzarle, o demolirle per farci qualcos’altro, chissà. Così nascono comitati di quartiere per l’occupazione di casa propria, per incursioni notturne oltre il filo spinato a recuperare qualcosa o simbolicamente cominciare a sgorgare un po’ di fango. Magari per scoprire che di fango ce n’è molto poco, e più su del pianterreno non ce n’è affatto. Allora viene proprio da pensare a qualcosa di speculativo, a un uso semicriminale dell’emergenza da disastro naturale da parte delle stesse istituzioni che dovrebbero garantire le abitazioni pubbliche, e invece spediscono migliaia di inquilini in giro per gli stati USA, nella “speranza che più tempo si aspetta a riaprire, meno inquilini si ripresenteranno”24.
Che non si tratti solo di sospetti, mugugni, disfunzioni gravi ma fisiologiche, lo racconta benissimo con una efficace inchiesta sul campo la nota giornalista di sinistra Katrina Vanden Heuvel, la cui omonimia con l’uragano è stata per settimane oggetto di discutibili battute umoristiche da parte dei commentatori neocon. Il fatto che esista un disegno politico di ricomposizione spaziale e sociale di New Orleans, e che questo avvenga soprattutto sulla pelle dei più deboli, è la ragione sociale della nascita dei comitati di quartiere e categoria, riusciti con immensa fatica e determinazione ad imporsi come partecipanti interni alle decisioni amministrative. In sintesi, le sole grandi idee di riazzonamento, ricomposizione spaziale, insomma di percorso verso l’ipotetica città ideale degli utopisti da tavolino, avviene là dove i quartieri sono caratterizzati da ceti deboli, da minoranze, da case in affitto ecc. Qui “non si sono distribuiti fondi federali per ricostruire abitazioni: zero; e il tasso di suicidi in città è aumentato del 300% dall’uragano”25, soprattutto nelle zone e strati sociali che ci si può facilmente immaginare.
Insomma sembra dimostrarsi oltre ogni possibilità di dubbio che quanto dispiegato in un solo anno negli acquitrini della Louisiana e del Mississippi devastati dall’onda di tempesta, è una emergenza e metafora delle prospettive globali che ci attendono se non si trova una via d’uscita alle sole prospettive liberiste-imperial-conservatrici. Anzi, come suggerisce uno studioso di comunicazione, in prospettiva appare impossibile scindere il primo anniversario di Katrina, col suo bilancio parziale e locale, dal quinto anniversario dell’11 settembre, col suo assai più consolidato bilancio di guerre totali, distorsioni, forzature, e in generale imposizione di regole emergenziali a tutti gli aspetti dell’esistenza. Situazione insostenibile: sul versante sociale, ambientale, della democrazia e diritti, in definitiva dello stesso sviluppo economico26.
E in definitiva, nell’impossibilità di un bilancio qualsivoglia, a un solo anno di distanza, sull’uragano Katrina e le sue implicazioni alle varie scale, forse val la pena di chiudere queste note con una storia di cent’anni fa, senz’altro più sedimentata. A Galveston, Texas, un uragano di Classe 4 colpì la città l’8 settembre del 1900, provocando oltre 6.000 morti (su un totale di abitanti poco superiore ai 30.000), la distruzione di 3.600 abitazioni, 30 milioni di dollari di danni materiali. All’epoca Galveston era la città del futuro, con enormi prospettive di crescita economica, e dopo essere stata colpita dal peggiore disastro della storia americana genera da un lato una gara di solidarietà privata, dall’altro una mobilitazione pubblica senza precedenti per i soccorsi, la ricostruzione, la ripresa. Le ingenti risorse investite portano di fatto a ricostruire la città e tutte le sue infrastrutture su un livello più elevato, utilizzando tutti i più recenti avanzamenti tecnologici e organizzativi.
Il risultato, che probabilmente molti lettori avranno vagamente intuito, è che tutto questo non impedisce a Galveston di scomparire nel dimenticatoio in quanto centro di grande importanza, diventando … la spiaggia di Houston, o poco più.
Era successo che nel frattempo era stato “scoperto il petrolio a Spindletop, vicino a Beaumont, Texas, e Houston, centro ferroviario più vicino al petrolio e più al sicuro dagli uragani di Galveston, iniziò in fretta a prosperare”27. Il petrolio, nuovo paradigma della modernità, cambiava qualunque prospettiva. E non può non saltare all’occhio, anche simbolicamente, come in un’epoca di crisi del modello petrolifero, delle sue relazioni ai grandi temi globali (dal mutamento climatico alle guerre infinite) sia piuttosto difficile non pensare all’emergenza di New Orleans anche in questi termini, di mutamento di paradigma. Magari cercando di voltare pagina, come indicano molte delle riflessioni dalla stampa proposte qui.
(questa breve rassegna era stata pubblicata nel 2006 sia su Eddyburg che sul periodico scientifico della provincia di Bologna, Metronomie, 32/33)
1 Gorge W. Bush, First Priority is to Save Lives, trascrizione CNN, 31 agosto 2005; il titolo è evidentemente una scelta giornalistica della CNN, e non della Casa Bianca.
2 “Waiting for a Leader”, editoriale del New York Times, 1 settembre 2005; il titolo denuncia già chiaramente la tesi: il paese ha bisogno di decisioni e strategie, ma a partire dalla Presidenza nessuno sembra volere o potere assumersi le responsabilità necessarie.
3 “The Blame Game”, The Economist, 5 settembre 2005.
4 Jon E. Hilsenrath, “Scaling Back New Orleans”, Wall Street Journal, 15 settembre 2005
5 Eugenio Scalfari, “L’America che vive con l’Africa in casa”, la Repubblica , 4 settembre 2005.
6 Mark Fischetti, “Drowning New Orleans”, Scientific American, ottobre 2001.
7 Maria Teresa Cometto, «Non ricostruite la città, fra 100 anni non ci sarà più», intervista al geofisico Klaus Jacobs, Corriere della Sera, 1 settembre 2005.
8 Sara Farolfi, “L’avevamo detto: sarà sempre peggio”, intervista a Jeremy Rifkin, il manifesto, 3 settembre 2005
9 Adam Nossiter “A Big Government Fix-It Plan for New Orleans”, The New York Times, 5 gennaio 2006.
10 Mike Tidwell, “Good Bye, New Orleans. It’s time we stopped pretending”, Orion, 2 dicembre 2005
11 Lo dimostreranno, solo per fare qualche esempio a caso, l’enfasi per la distruzione del pianoforte bianco su cui Fats Domino suonava Blueberry Hill, o il giallo mediatico sulla sua presunta morte, o l’incredibile impegno a organizzare comunque e a qualunque costo la sfilata in costume del Mardi Gras, in una città ancora ingorgata dal fango qualche mese dopo Katrina.
12 Jerold Kayden, co-presidente del Department of Urban Planning and Design alla Graduate School of Design di Harvard, intervistato da Bennet Drake per il Boston Globe, 5 settembre 2005, “The City that Will Be”.
13 Patrick Doherty, “A Phoenix from the Mud”, TomPaine Commonsense, 8 settembre 2005.
14 Cfr. Gary Strass, “More than buildings will have to be rebuilt”, USA Today, 5 settembre 2005; il “genius loci” della città, pur esaminato in modo complesso come impasto di storia, ambiente, territorio e società, sembra convergere pur sempre verso gli aspetti che enfatizzano la centralità del turismo, della gentrification, e nello specifico contesto degli squilibri post-uragano, della fisica deportazione di interi gruppi sociali lontano dalla città (ad esempio con il non ripristino delle abitazioni popolari per tempi lunghissimi).
15 Nicolai Ourussof, “Can New Orleans survive its rebirth?”, The New York Times, 20 ottobre 2005.
16 La charrette, è originariamente un vero e proprio piccolo carro trainato a mano, utilizzato dai commessi dei concorsi di architettura alla Ecole de Beaux Arts di Parigi per raccogliere gli elaborati dei partecipanti. Nel gergo new urbanism, la parola sta a significare una sessione di progettazione partecipata, dove in ambiti diversi ma collegati e complementari vari soggetti (funzionari della pubblica amministrazione, rappresentanti dei comitati di cittadini, professionisti locali ecc.) lavorano sotto la guida di un esperto, a definire ipotesi di organizzazione spaziale. Le sessioni sono di solito a carattere urbano locale, e rappresentano una sorta di complemento preventivo alle normali procedure di pubblicità, osservazioni, controdeduzioni, dei piani urbanistici.
17 Cristopher Hawthorne, “In the Rush to Rebuild, a House Divided”, The Los Angeles Times, 4 dicembre 2005.
18 Per un racconto puntuale delle prime sessioni di progetto partecipato nelle cittadine della costa, in particolare per lo stato del Mississippi, si veda ad esempio la cronaca del direttore di New Urban News (organo ufficiale del movimento new urbanism) Philip Langdon, sul numero dell’ottobre-novembre 2005: “New urbanists prepare to tackle Gulf Coast reconstruction plan”.
19 Cfr. Michael Kunzelman, “‘Katrina Cottages’ give trailer dwellers option”, The Atlanta Journal-Constitution, 9 luglio 2006.
20 Mike Davis, “I contractors della ricostruzione”, traduzione pubblicata da il manifesto, 2 ottobre 2005; la citazione sul “magnete della libera impresa” è del deputato repubblicano Mike Pence, fra i principali consiglieri di Bush in materia di ricostruzione.
21 Ari Kelman, “In the Shadow of Disaster”, The Nation, 2 gennaio 2006. Si riferisce tra l’altro che “La Brookings Institution riporta che 38 su 49 dei quartieri più poveri nell’area metropolitana di New Orleans si sono allagati. Nella città vera e propria, l’80% dei quartieri allagati sono a maggioranza non-bianca. La segregazione – ambientale, socioeconomica e razziale – produce sofferenza segregata”.
22 “Plan: All New Orleans could be rebuilt”, nota Associated Press/Cnn dell’11 gennaio 2006.
23 Cfr. Adam Nossiter, “Rebuilding New Orleans, One Appeal at a Time”, The New York Times, 5 febbraio 2005.
24 Bill Sasser, “Locking out New Orleans’ poor”, Salon, 13 giugno 2006.
25 Katrina Vanden Heuvel, “The Battle over Reconstruction”, The Nation, 29 agosto 2006.
26 Cfr. Henry Giroux, “Katrina and the Politics of Disposability”, In These Times, settembre 2006.
27 Nicolaus Mills, “A Tale of Two Hurricanes: Galveston and New Orleans” Dissent, estate 2006.