Quando lo scriba del biblico Libro dei Numeri si dilungava in particolari da geometra sulla profondità (misurata in cubiti, ovvero circa 40-50cm) della fascia di verde agricolo da riservare come tale all’esterno dell’area urbanizzata, sicuramente si sentiva piuttosto importante solo per il compito di star lì a mettere nero su bianco le sacre prescrizioni di un’autorità religiosa superiore. «Avranno le città per abitarvi e il contado […] si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori dalle mura» (35:3-4). Redatto duemilacinquecento anni fa, quel breve densissimo testo conserva però, ben oltre il valore storico culturale, anche una solida base scientifico-tecnica per ragionare in termini di sostenibilità, territoriale, ambientale, sociale. Non è certo un caso se nell’epoca matura del processo originario di industrializzazione del XIX secolo, ovvero quando venivano urgentemente al pettine tutte le contraddizioni di decenni di crescita selvaggia nel segno di uno sfruttamento mostruoso di risorse non rinnovabili, proprio quel concetto di limite, in fondo calcolabile con le tabelline, riemerge dall’aura mistica recuperando la sua matrice originaria di buona regola e pratica di vita, di equilibrio tra uomo e natura, fra città e campagna. Purtroppo sin dalla prima intuizione, di questo recupero di buone pratiche, ci si mettono di mezzo ideologie, eccessi mistico filosofici, e naturalmente pessime intenzioni.
Chi dice «il problema è un altro» svicola facile
Il cosiddetto ritorno alla terra, non a caso, data più o meno dalle medesima fase di sviluppo industriale, ma invece di imboccare decisamente il recupero delle sane indicazioni bibliche, pur animato spesso da aneliti religiosi ne fa strame, forse da usare come concime, chissà. Perché correre verso nuove frontiere, scappando dai problemi anziché provare ad affrontarli, significa quasi sempre condannarsi a ripercorrere la medesima strada, e i medesimi errori. Jerome K. Jerome nel suo divertentissimo Tre Uomini in Barca (1889) racconta la forma più innocua di ritorno ideologico alla natura, ovvero una breve goffa vacanza tra fiume, tenute agricole, antiche magioni. Ma c’è già chi quella vacanza vorrebbe renderla permanente, comprandosi privatamente o in forma associata degli appezzamenti di terreno lontano dalla metropoli, o delegando ad altri il medesimo compito: vuoi per un’esperienza di autentico ricongiungimento con le pratiche agricole dirette, vuoi per qualcosa di più pasticciato che si tradurrà presto in pura espansione urbana, a riprodurre il medesimo ambiente da cui si era fuggiti. La famosa città giardino di Howard è il tentativo in assoluto più avanzato di cercare davvero nuovi equilibri, e non a caso verrà apparentemente esaltata, di fatto sabotata in ogni modo nei suoi obiettivi autentici sociali e ambientali, che partono proprio da quella individuazione dei «limiti dello sviluppo» molto pratica e calcolabile, esattamente come lo scriba dei Numeri tante generazioni prima. Il resto è un pasticcio, e apre di fatto (con la complicità dell’automobile di massa che inizia ad affermarsi quasi contemporaneamente) l’epoca di quello che oggi chiamiamo sprawl suburbano.
Il bacino alimentare
Se le buone pratiche sono rare ed episodiche, va detto che studi e auspici di realizzare equilibri diversi, più prudenti del modello puramente consumistico e sviluppista in auge, continuano e si approfondiscono. Sia nel campo più vasto che ispira nella seconda metà del ‘900 il noto concetto di «limiti dello sviluppo», sia in quello analogo più legato al territorio che definisce i cosiddetti bacini alimentari locali, intesi come sistema vuoi per definire unità di pianificazione, sia parallelamente a delimitare possibili circoscrizioni amministrative. Un tema del tutto maturo, e che si ricongiunge naturalmente a quello originario della greenbelt agricola idealmente «estesa per lo spazio di mille cubiti fuori dalle mura», oltre che alle nuove consapevolezze sulla urbanizzazione planetaria e la necessità di uno sviluppo sostenibile, a partire dalle fonti energetiche rinnovabili. La modellistica in duemilacinquecento anni è lievemente cambiata, ma solo un pochino più di quanto non siano cambiate le cose che facciamo e mangiamo dentro il nostro continuum urbano-rurale integrato. Esiste una dimensione ideale della città propriamente detta da perseguire, così come quella di una fascia agricola produttiva che le assicuri autosufficienza. Da questi presupposti nasce, significativamente per una regione del mondo che di territorio sembrerebbe averne quantità infinite come l’Australia, il concetto di Area Ambientale e di Produzione Alimentare, descritta nell’allegato per il caso specifico di Adelaide, ma ovviamente applicata magari con denominazioni diverse anche altrove.
Riferimenti:
South Australia, Department of Land, Planning and Development, Proposed Environment and Food Production Area (EFPA)