Immaginatevi un tizio che vuole a tutti i costi vendervi un suo prodotto sedicente innovativo e miracoloso. Ve ne decanta in ogni modo le meraviglie di funzionamento, si accende di qui, si schiaccia di là, si tira questo ed ecco ah che bello tutto funziona benissimo …. ma cosa funziona benissimo, esattamente? Nel senso, l’apparecchio o sistema magari è lì che lampeggia in tutta la sua meraviglia, fa il suo mestiere, ma alla fine non si vede il cosiddetto output, a meno di non considerare tale lucette che si accendono e si spengono, insomma tutto il processo interno. Ecco, magari una volta ci poteva anche essere, questo feticismo dell’oggetto, specie dell’oggetto variamente tecnologico, dove l’utilità effettiva poteva passare in secondo piano davanti al fascino della pura esistenza. Ma oggi? Che ce ne facciamo, di un frullino che non accetta le cose da frullare, o di un’auto che non si avvia? Con la smart city pare che il dibattito ruoti esattamente attorno a modalità del genere.
Forma e funzione nell’era digitale
C’è qualcosa che va oltre quel genere di assurdo, già abbastanza grave, per cui si sono riversate enormi risorse, sull’arco di generazioni, a costruire ambienti di vita per una società del tutto immaginaria, che non solo non esisteva nel momento in cui venivano progettate quelle cose, ma via via si allontanava palesemente sempre più da quel modello. Come non ricordare certe soluzioni spaziali degli alloggi popolari pubblici, dall’organizzazione interna alle dimensioni, tutto pensato per un tipo di organizzazione familiare che invece il libero mercato, evidentemente assai più sensibile, interpretava diversamente. L’unica presa di coscienza però, di tutto questo evidente fallimento, pare essere la condanna senza appello di tutto ciò che è pubblico, anziché del metodo di approccio ai problemi, e da qui nasce anche la convinzione attuale sulla smart city, che è tanto più smart quanto più privata, particolare, immersa nel mercato e guidata dalla mitica mano invisibile del vecchio Adam Smith. Che invece parrebbe assai artritica, e pencolante, come guida, visto che non solo a parte l’etichetta unificante pubblicitaria, ogni marchingegno tecnologico pare procedere per conto proprio, ma non si capisce proprio a che servano, le ubique lucette lampeggianti.
Una app per non schiacciare le cacche di cane sul marciapiede
E cioè, più precisamente, prendendola pure in quel modo frammentato che dovrebbe essere magicamente ricomposto dalla manina liberale di Smith, come si ri-declina quel concetto di corrispondenza tra forma e funzione? Non è una risposta, rispondere che evaporata la forma fisica col digitale virtuale eccetera, debba anche evaporare l’idea di funzione corrispondente. A che bisogno risponde quest’accidente di smart city comunque la vogliamo considerare? Qualcuno, e giustamente i più critici dello stato di cose attuale, osserva che dietro lo slogan c’è un vuoto vertiginoso: intricatissimi sistemi per cercare parcheggi o negozi aperti, che sfoggiano tecnologie di avanguardia rivolgendosi a funzioni minimali se non obsolete, come appunto la mobilità tradizionale o il consumo tradizionale, che notoriamente sono già cambiati e stanno ancora cambiando. E qui siamo dalle parti degli architetti novecenteschi che progettavano alloggi quartieri servizi per modelli familiari e stili di vita inesistenti, o scomparsi da decenni. Ma c’è di peggio, e ha a che fare sia col feticismo tecnologico, sia col culto assoluto e a prescindere del mercato. Il vero interesse, diciamo secondo la legge di Sturgeon il 95% di tutto quanto, non si stacca di un millimetro da una prospettiva tutta interna alla ideologia smart. L’immagine classica è quella promozionale di qualcuno che si aggira per una città magari assai desiderabile, ignorandola totalmente dato che è immerso nella contemplazione del tablet, o di qualche trabiccolo assimilato. Che rapporto c’è, insomma, fra tutte le mirabolanti “funzioni” dei sistemi smart, e le funzioni banalotte di vita urbana, ambiente, mobilità, qualità della vita tangibile, che da quei sistemi stanno fuori? Per usare un linguaggio caro ai liberisti: dov’è la anche solo tecnologica Mano Invisibile, il braccetto che collega quanto sta dentro al tablet con la mostruosa metropoli che ci incombe alle spalle. Sinora tutti gli entusiasti a prescindere, dai pubblicitari agli economisti faziosi ai nerd agli amministratori eletti che gli danno troppo retta, messi di fronte a quel punto di domanda iniziano, frenetici, a parlar d’altro. Si legga in questa prospettiva l’ennesimo, illuminante articoletto che segue.
Riferimenti:
Shawn DuBravac, “Smart” Cities and the Urban Digital Revolution, ReCode, 31 dicembre 2014