Capita a tutti prima o poi di inciampare in certe sorprese, che poi sorprese non sono affatto, facendo le pulizie. Il caso più frequente è con le cantine e i solai, ma anche le normali faccende domestiche qualche volta si evolvono così: si inizia a spostare una cosa, che ne nascondeva o sosteneva sorprendentemente un’altra, e via via emerge l’immensità dell’impresa che ci toccherà affrontare, man mano saltano fuori altre inimmaginabili sorprese. Personalmente ricordo una sensazione del genere quando, anni fa, mi capitò di seguire la tesi in urbanistica di una giovane candidata monferrina, con cui avevo concordato (lei all’inizio non pareva molto convinta) visto che abitava nei pressi, un lavoro diciamo di piccolo cabotaggio sul quartiere Ronzone di Casale Monferrato. Piccolo cabotaggio come mettersi d’accordo per spostare l’armadio in cantina e fare un po’ d’ordine, appunto, ma poi.
Cartoline di un sinistro Natale
A entrambi, gira e rigira, quello appariva un caso come un altro – seppur assai famoso, famigerato – di dismissione industriale e occasione per il riuso e recupero alla città di un quartiere potenzialmente bellissimo, sopra le sponde del Po, a un tiro di sasso dal Castello, all’attacco della strada delle colline che caratterizzano tutto il paesaggio da qui, sui margini della pianura padana, fino a Torino. Raccomandai alla candidata, per inquadrare meglio la questione, di partire da un minimo di prospettiva storica, dall’insediamento della fabbrica Eternit sino al processo per disastro doloso allora in corso. E come succede nelle migliori cantine e solai, iniziò a sollevarsi polvere inesorabile dappertutto, anzi il micidiale polverino di amianto. Quella non era un’area industriale, ma una vera e propria bomba ambientale e sociale lasciata agire per decenni nel suo lento esplodere sul territorio, dentro il corpo delle persone e della città, a permeare tutto come una mortale nevicata natalizia. Alla fine (in fondo si trattava di una tesi di laurea e non di una scelta di vita, anche se a volte qualcuno si confonde) decidemmo di chiudere, ma lasciando in sospeso tantissime cose, come quando in solaio si rattoppano i buchi, si buttano le cose proprio marcite, e si dà un’imbiancata ma solo alla parete in fondo.
Progetto, Piano, Programma
Doveva essere un elaborato soprattutto progettuale, quella tesi, naturalmente alla fine di una lettura abbastanza sistematica di alcune criticità. Si trasformò in tutt’altro: da un lato una panoramica sul baratro ambientale, territoriale, sociale, lasciato dalla fabbrica Eternit e dal suo funzionamento per decenni nel cuore della città e del suo contado; poi una dichiarazione di sostanziale sconfitta, almeno contingente, di piani e programmi vigenti a varie scale; infine, quel tipo di cosa che di solito nelle facoltà di studi urbani si vede a metà dei corsi, una specie di esercitazione ex tempore dove lo studente elenca dei casi studio di buone pratiche, e ne applica poi elementi a un suo progettino specifico. Restava quell’implicito baratro fra la lettura degli impatti della fabbrica, che c’erano, e ci saranno in eterno, come recita piuttosto bene quel minaccioso marchio Eternit, e quel che poteva rispondere una pur ampia, e diciamo generosa e costosa, riqualificazione urbana, recupero ambientale, bonifica e ricucitura di una porzione essenziale di città. Ecco, anche, perché il reato di tutti quei proprietari e dirigenti con accertate responsabilità penali nel processo Eternit, non deve essere prescritto. Anche quella tesi di urbanistica, a modo suo, lo confermava, e si sa che le tesi di laurea sono soprattutto valide dal punto di vista del metodo, e dell’utilità didattica: per lo studente, il relatore, e tanti altri.
Riferimenti: grazie naturalmente a Beatrice Miceli