Armando Melis, «Storia antica e moderna di via Roma a Torino», Urbanistica, settembre-ottobre 1933
«La questione della riforma di via Roma si agita ormai da circa settant’anni, ed invero nei pochi anni in cui Torino fu la Capitale del nuovo Regno d’Italia, già si erano ventilati alcuni progetti che intendevano trasformare la vecchia via in un grande corso, abbellito da aiuole e da monumenti patriottici, in una specie di Walhalla del Risorgimento nazionale» (p. 147). «R.D.L. del 3 luglio 1930 sanciva i provvedimenti per l’allargamento di via Roma e per il risanamento dei quartieri adiacenti. Le caratteristiche essenziali della nuova via Roma erano stabilite come segue: larghezza della via: m. 14,80. Portici dai due lati larghi m. 5,80 e alti non meno di m. 7,50. Le Chiese di Piazza San Carlo isolate con due gallerie della larghezza di m. 14. I quattro isolati adiacenti alla Piazza San Carlo con 4 piani fuori terra e cioè due soli piani sopra i portici. Gli isolati non adiacenti alla Piazza S. Carlo con 5 piani fuori terra e non superiori a 21 metri di altezza. Escluso in tutti i casi qualsiasi tipo di piano arretrato» (p. 156). «l’ing. Chevalley … così si esprimeva: …”ho imparato da apprezzare l’arte degli architetti e degli artisti barocchi …. Dallo studio delle opere loro io traggo la convinzione che se potessimo farli rivivere ed interrogarli sul presente dibattito, ci direbbero: se via Roma come l’abbiamo costruita noi non è più adatta ai vostri bisogni e del futuro, ricostruitela, ampliatela, abbellitela. … I giovani architetti fecero tutto quel che poterono … e di quel periodo restò un brillante progetto pubblicato dagli architetti Pagano Pogatschnig, Cuzzi, Levi Montalcini, Aloisio e Sot-Sas, interamente concepito con architettura razionale, come si diceva allora: che soltanto 2 anni sono trascorsi, ma sembrano assai di più. Secondo questo progetto via Roma aveva una larghezza di m. 14,80 e non aveva portici, tranne che all’imbocco di Piazza Carlo Felice per un tratto di 14 metri di risvolto. Tutta la via era provvista di pensiline all’altezza costante di m. 5 dal marciapiedi. Ai lati delle Chiese, attraverso 2 passaggi porticati, si dava inizio a due vie parallele a via Roma, larghe m. 12 e provviste di portici architravati» (p. 158). «Si era nel giugno del 1931. Il primo tratto di via Roma, per l’attiva propaganda del Podestà Tahon di Revel era presto assunto dalla iniziativa di enti e di privati, le costruzioni venivano su rapidamente, il pubblico vedeva e giudicava: anche sulla ricostruzione stilistica» (p. 159). «L’arch. Betta partendo dalla premessa che la zona di via Roma ha una densità stradale minima e che in essa occorre trovare gli sviluppi frontali necessari per il commercio signorile di una grande città come la Torino odierna, proponeva due nuove vie parallele a via Roma, che partendo da lato alle Chiese di Piazza S. Carlo, dopo le vie XXIV Maggio e Andrea Doria, piegavano a 45° per collegarsi con la via XX Settembre da una parte e con la via Lagrange dall’altra, ottenendosi così un buon collegamento fra il corso Oporto e la via Andrea Doria. Qui veramente può dirsi che anche il problema urbanistico è chiaramente impostato, seppure non interamente risolto; ora si può finalmente riconoscere che tutti i lati della questione sono venuti a maturazione. A pochi giorni dal giudizio del concorso per il secondo tratto di Via Roma possiamo serenamente augurarci che l’esperienza non breve dia i suoi frutti» (p. 160).
Armando Melis, «Dopo il concorso per via Roma a Torino», Urbanistica, marzo-aprile 1934
«Idee vecchie, nuove, nuovissime o ritenute tali, tutte sono state prospettate: dalla soluzione a tre vie a quella a due, con nessuna trasversale o con molte, con diagonali, rimesse sotterranee o vie a diversi piani, grattacieli e bassi fabbricati a galleria, una sola via larga 75 metri oppure mantenuta ai 14,80 dell’antico progetto municipale. … quali sono le idee che si sono affermate? Principalmente due: quella del collegamento Corso Oporto-via Andrea Doria e quella delle due vie laterali. Quest’ultima è sostenuta da quasi tutti i concorrenti. Con vie più o meno larghe, parallele a via Roma o leggermente divergenti, infossate, mascherate e disperse tra i cortili o adombrate come gallerie, la necessità di creare due nuove arterie è generalmente sentita» (p. 81). «Noi ci auguriamo che i palazzi di via Roma sorgano senza preconcetti di “armonizzazioni”, schietti e aderenti al loro ufficio, vestiti di quell’unica bellezza che noi possiamo dar loro: quella del nostro tempo. Così si completerà via Roma a Torino: non sarà un prodigio di bellezza e i contemporanei la troveranno forse anche brutta. Fra un centinaio d’anni, quando la patina del tempo e la suggestione dei ricordi l’avranno resa veneranda, saranno in molti a difenderla in omaggio alla tradizione!» (p. 82).
Vera Comoli Mandracci, Torino, Laterza, Bari 1983
«La nuova energia elettrica decideva … una rivoluzione radicale (del 1884 è la sua prima apparizione alla Esposizione del Valentino) per la localizzazione dell’industria, mentre l’avvio della produzione automobilistica era sul punto di fare di Torino un centro industriale specializzato non comparabile con situazioni analoghe in Europa. Mentre la fase del primo decennio del Novecento era stata ancora gestita da molteplici soggetti economici, dopo la crisi dell’auto del 1908-1909, subentrò una più accentrata struttura produttiva, ricostruita sul modello statunitense delle officine Ford (a seguito della visita che Giovanni Agnelli vi fece nel 1912) e sostanzialmente basata sulla politica di monopolio. … la nuova fase industriale era caratterizzata essenzialmente da una localizzazione delle fabbriche svincolata … dalla presenza “storica” delle vie di tradizionale adduzione idraulica della forza motrice, cioè dal sistema di canali prevalentemente collocati a nord della città. Questo nuovo aspetto localizzativo dell’industria aveva anche riscontri precisi nella formazione dei nuovi insediamenti residenziali e aveva portata nella città del primo Novecento al nuovo fenomeno della formazione dei borghi operai» (p. 224). «Una città del tutto nuova, inedita nella storia piemontese e certamente anche italiana, in cui ampio spazio cominciò ad essere dato anche al divertimento e alla vita di relazione popolare, in cui “tutte le scorie medioevali che ancora deturpano in Italia la società borghese sono precipitate; i mezzi termini sono stati aboliti” [Antonio Gramsci, «Preludio», Avanti! 17 maggio 1916]Si trattava forse della città “tentacolare” vagheggiata dai futuristi?» (p. 225).
«Le ragioni dell’industria stavano comunque vincendo sulle ragioni del territorio. Anche la critica urbanistica coeva pare cosciente del conflitto profondo che separava, ormai irreversibilmente, la città redditiera dalla città industriale. LA città capitale – per ripetere uno slogan abusato – era diventata la “città del capitale”» (p. 233).
«Nella ricomposizione pianificatoria prevista per la città da Betta e Melis, entrava a pieno titolo il problema del centro storico; ne trattava in particolare Betta … teorizzando sostanzialmente la conferma e il consolidamento del centro storico di Torino come polo accentratore dei fatti e fenomeni urbanistici: “Ora il grande centro torinese, così sicuramente protetto, munito di una buona rete stradale, ricco di nobili palazzi, può, senza molte innovazioni, completando l’allargamento di alcune vie, seguendo l’indirizzo già da anni dato da molti istituti finanziari, industriali e commerciali, risanando, rimodernando le antiche dimore, intensificando saltuariamente in altezza la sua fabbricazione, e formando degli spiazzi liberi, favorendo lo spontaneo allontanamento delle famiglie da tali sempre meno adatte residenze di abitazione verso zone più rarefatte, può costituire la zona riunita dell’amministrazione e degli affari, sufficiente per qualsiasi ampiezza di sviluppo possa assumere l’intera città” [Pietro Betta, «Problemi storico-urbanistici della città di Torino», conferenza al Sindacato Ingegneri e Architetti tenuta nel 1929, Torino, Rassegna Mensile, giugno 1930 p. 488; riprende i temi del precedente Torino qual è e quale sarà (con Armando Melis), Casanova, Torino 1927]. L’avvio della conversione in senso terziario superiore del centro storico della città appariva … di fatto implicitamente sostenuto dalla cultura ufficiale, mentre dopo decenni di discussioni … sul “risanamento” della città, la struttura economica era pronta ad intraprendere un’altra colossale operazione edilizia con la ricostruzione di via Roma. … L’operazione (allora recente) dello sventramento del centro storico per la formazione della diagonale di via Pietro Micca – al di là dell’errore tipologico-urbanstico – sembrava aver dato sostegno al desiderio di grandezza dei torinesi: “Non pareva degno della ex capitale (come tale aveva ormai assolto il suo compito), questo scarso scenario per i cortei aulici che si sarebbero svolti fra la Stazione di Porta Nuova … ed il Palazzo Reale (ormai disabitato). Non pareva morale che il passeggio signorile, il disbrigo di pratiche importanti, di commissioni raffinate, fosse turbato da certa plebe che abitava le “maniche interne”, le soffitte, dei palazzi di Via Roma. In più non si voleva che gli abitanti di questa soffrissero per mancanza – incontestabile – di condizioni igieniche adatte: quasi come quelle che da decenni il regolamento edilizio prescriveva (e prescrive oggi) per dare una città diversamente malsana. L’equivoca impostazione dell’argomento igienico riusciva a convincere gli amministratori, che gli sfratti indiscriminati, la distruzione del gruppo sociale legato alle vecchie strutture, erano ampiamente giustificati dal desiderio di far vivere il popolo in modo non antigienico: senza però nemmeno preoccuparsi di dove e come questo trapianto brutale potesse riuscire. Qualche compassionevole lamento verso la tradizione, non era difforme rispetto agli argomenti messi sul tappeto; veniva anzi dalle stesse persone che contribuivano alla distruzione dell’antico” [Roberto Gabetti, Luciano Re, «Via Roma Nuova a Torino», Torino, Rivista bimestrale del Comune, n. 4-5, lug-ott 1969, pp. 30-31]. … Il problema dell’allargamento e della bonifica di via Roma vecchia era stato assunto e condotto in modo particolarmente vivace tra Amministrazione comunale, Società degli Ingegneri e degli Architetti, Circolo degli Artisti: il dibattito si era ravvivato alla fine degli anni Venti, nel lungo decorso tra l’approvazione di un primo progetto preparato dal Comune (1922) e l’avvio della fase concreta delle operazioni edilizie nel primo tratto, compreso tra Piazza Castello e Piazza San Carlo (1931), sulla scorta di autentici interessi all’investimento nella ristrutturazione, ormai più palesi aveva inoltre influito anche l’interessamento diretto del Duce» (p. 236).
«Il giudizio critico – negativo – riportato dalle riviste specializzate ed anche, in qualche misura, sostenuto nell’ambito locale, indusse il Comune alla formulazione, per il secondo tratto, di un bando di concorso … “per realizzare quella via che dovrebbe rappresentare l’arteria più signorile e commercialmente più importante della città (art. 2 del Bando), veniva bandito un semplice concorso di idee: su tale equivoco espediente l’accordo fu presto raggiunto. I sindacati architetti hanno ottenuto premi e posti in giuria. I concorrenti hanno sperato nei premi e si sono sentiti liberi di proporre qualsiasi cosa. Le Amministrazioni non si sono assunte nessun impegno, nemmeno la responsabilità di stendere un bando di concorso impegnativo; non sono state costrette a realizzare il progetto scelto dalla giuria e facevano conto di raccogliere a disposizione dei loro uffici tecnici, che sarebbero stati invece esposti a loro volta a ogni genere di pressioni … idee in cui però nemmeno la più intelligente e laboriosa équipe di architetti e di ingegneri si sarebbe poi neanche potuta orientare” [Gabetti e Re, «Via Roma Nuova …» cit. p. 30-31 ]. Non si orientava, tra i numerosissimi progetti, neppure l’amministrazione comunale, per cui parve dato per scontato l’intervento illuminante – dall’alto – di Marcello Piacentini. Con la sua “consulenza” l’Ufficio tecnico comunale produsse il progetto definitivo per il secondo tratto (agosto 1935) sul quale si innescarono le procedure di intervento (1935-1937). … Al di là del giudizio critico sull’architettura “un problema urbano – annotano Gabetti e Re – si consumò lungo alcuni decenni, per sfociare in una falsa ‘soluzione definitiva’ … Le forze politiche locali, restringendo la loro azione sempre più in senso amministrativo, rinviarono i temi politici al centro, alle forze nuove e diverse, che governavano ormai attraverso la dittatura: il problema della ricostruzione di Via Roma, divenne problema burocratico e come tale fu affrontato dal punto di vista sociale, economico, giuridico: e poi anche urbanistico ed edilizio” [Gabetti e Re, «Via Roma …», cit., p. 42]» (p. 237).
Giorgio Ciucci, Il dibattito sull’architettura e la città fasciste, in Storia dell’arte italiana, Parte seconda, dal Medioevo al Novecento, Volume terzo, il Novecento, Einaudi, Torino 1982
«a Torino confluirono letterati, critici d’arte, pittori, architetti, giunti all’inizio degli anni Venti da ogni parte d’Italia: Venturi, Persico, Casorati, Paulucci, Galante, Pagano, Diulgheroff, Sartoris, si trovarono a lavorare con i giovani torinesi per dare forma alla “qualità” della vita urbana. Catalizzatore fu, per alcuni, Riccardo Gualino, figura che impersonava il moderno uomo d’affari, colto e aperto alle novità» (p. 288). «Alla situazione … di una Torino intellettuale compresa del programma imprenditoriale e della realtà operaia, faceva da contrappunto la vicenda urbanistica della città e del suo territorio, segnata in quegli anni dall’assenza di reali strumenti di controllo e di intervento pubblico. … Ed è significativo che pur mutando la situazione e venendo il centro investito da trasformazioni non indifferenti, di piano regolatore si riparlò, senza approdare a nulla, nel 1938, con l’area suburbana triplicata in superficie e in numero di abitanti, e se ne continuò a parlare fino al 1958, data del nuovo piano regolatore, senza fare praticamente nulla» (p. 290).
«L’avvio di un programma di interventi nel settore edilizio significò anche per Torino, come per il resto d’Italia, una risposta alla crisi in termini di occupazione: lo Stadio, i Mercati generali, la ricostruzione di via Roma. Furono i momenti salienti dell’intervento pubblico. In particolare, la vicenda di via Roma divenne emblematica dell’inevitabile frattura che si era determinata fra le istanze culturali di respiro europeo espresse dall’ambiente architettonico e la gestione corrente dell’assetto urbano e territoriale. … gli intellettuali si allontanarono volgendo le spalle alla Torino della concentrazione industriale e della prima immigrazione di massa, senza porsi il problema del rapporto fra “arte” e strutture produttive, che invece il fascismo affrontò. Essi erano rimasti ancorati a problemi di stile» (p. 298). «”postulati ai quali deve obbedire la fisionomia della nuova via Roma: 1. Mantenere ed esaltare il suo carattere eminentemente rappresentativo di via trionfale … 2. Conservare e aumentare il suo carattere commerciale … 3: rappresentare la sintesi della Torino moderna e nello stesso tempo conservare quel carattere di intimità per cui è stata sinora la via prediletta del centro cittadino … 4. Essere un buon impiego di capitali per modo da garantire una serie di costruzioni veramente signorili” [Giuseppe Pagano-Pogatschnig, G. Levi Montalcini, U. Cuzzi, O. Aloisio e E. Sottsass, «La via Roma di Torino», Per vendere, giugno 1931, ora in G. Pagano, Architettura e città durante il fascismo, a cura di Cesare De Seta, Laterza, Bari 1976, pp. 335-351] … Le grosse concentrazioni finanziarie non accolsero questi suggerimenti, né diedero seguito al concorso per un progetto di piano regolatore della zona interessata dalla sistemazione della via Roma compresa fra le piazze San Carlo e Carlo Felice, del 1933. Esse erano preoccupate più di massimizzare i profitti, come riuscirono a fare» (p. 299).
Luciano Re, Giovanni Sessa, Torino: l’operazione di Via Roma Nuova, in Torino fra le due guerre, Comune di Torino, 1978; ora in A. Mioni (a cura di), Urbanistica fascista. Ricerche e saggi sulle città e il territorio e sulle politiche urbane in Italia tra le due guerre, F.Angeli, Milano 1980
«Dopo che per due giorni disordini di notevole entità provocati da cortei spontanei di disoccupati avevano messo a dura prova la tutela dell’ordine pubblico, il prefetto Ricci telegrafava a Roma, il 25 novembre 1930: “Podestà metterà domattina al lavoro duecento operai e l’on. Agnelli mi ha promesso che ne metterà quanti possibile sull’autostrada Torino-Milano gioverebbe sollevare situazione ingente conferimento fabbriche locali” [Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli, UTET, Torino 1971, p. 492]. Anche il problema di via Roma nuova poteva così entrare nel vasto “programma di lavori pubblici, tramite il quale riassorbire almeno quattrocentomila disoccupati” [ivi, p. 490] ed inteso, altresì, a suggellare l’impronta del fascismo in opere grandiose e “utili”» (p. 106). «Il 3 luglio 1930 fu così emanato per via Roma uno specifico rdl, conforme all’art. 12 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, sulle espropriazioni per cause di pubblica utilità, che facendo suo l’ultimo dei tanti progetti per la via, il “piano Scannagatta”, adottato con deliberazione 30 aprile 1926, dichiarava l’opera di pubblica utilità» (p. 108).
«I vecchi proprietari erano … in parte, già stati sostituiti da società immobiliari, quali la società anonima Beni Stabili Torino, la società anonima Immobiliare Torinese o la società anonima Edilizia va Roma, che riaccorparono le spesso molto frazionate proprietà nella prospettiva della gestione e della contrattazione con il comune per il trapasso dei beni, senza peraltro avvalersi delle priorità loro concesse e uscendo di scena all’atto della ricostruzione. La saldatura tra la grande industria e il partito pare segnata a Torino, come nota Valerio Castronovo, dall’inatteso dialogo tra due figure solitamente distanti, Agnelli e De Vecchi, quest’ultimo mirante a “neutralizzare prefettura e podestà sullo sfondo di una serie di iniziative connesse allo sviluppo urbano: rinnovamento di via Roma, stadio, aree fabbricabili, mercati generali” [Castronovo op. cit. p. 29]. Non stupisce perciò la partecipazione (avvenuta direttamente o tramite la filiazione di società immobiliari) di imprese aventi i loro capitali nel settore meccanico, tessile, bancario, assicurativo, nella ricostruzione di via Roma» (p. 110). «l’operazione via Roma a Torino non avrebbe potuto essere gestita se non da queste grosse concentrazioni finanziarie che, da una parte, se furono di garanzia per il comune, preoccupato della disoccupazione ed anche di condurre in porto l’opera … dall’altra parte imposero, per massimizzare i profitti, quella specifica destinazione d’uso della parte, che stravolse, però, l’originaria consistenza anche sociale del centro storico della città. … “Mussolini ha detto al Podestà conte Tahon di Revel che la nuova via Roma dovrà essere la via per eccellenza, l’arteria principe del ricco commercio, dei negozi eleganti, delle lussuose Case della moda; dove tutti gli splendori del vero centro nazionale dell’automobile si adunano come in una mostra permanente, testimonianza viva e perenne delle infinite risorse della sua produzione industriale; dove il lavoro trionfi nelle espressioni più geniali della forma, messo in valore da una cornice senza pari” [F.O., «Per la ricostruzione del secondo tratto di via Roma», La Stampa, 2 dicembre 1932]. I lavori di ricostruzione ebbero inizio il 18 maggio 1931, interessando i sei isolati del tratto di via Roma compreso tra le piazze Castello e San Carlo, per una lunghezza di 260 metri. Al posto dei vecchi edifici sorsero sei nuove costruzioni unitarie, che occuparono complessivamente un’area di 19.000 mq (pressochè la stessa degli isolati demoliti), sviluppando una cubatura fuori terra di 440.000 mc (140.000 in più rispetto allo stato antecedente, corrispondente a un aumento del 46 per cento)» (pp. 111-112).
«Il “problema della ricostruzione di via Roma era un problema urbanistico, e non tecnico-urbanistico, e non architettonico-edilizio: le decisioni che erano a monte della ricostruzione di via Roma entrano nella ricostruzione attuata, secondo le stesse direttrici culturali, con estrema coerenza: era vano, evasivo dolersenne” [Roberto Gabetti, L. Re, «Via Roma Nuova a Torino», Torino n. 4-5, 1969, p. 36]. … I progetti meritevoli di un premio, vale a dire quelli che ebbero il secondo posto ex-aequo (il primo premio, cautelativamente, non fu assegnato) … sono destinati a rappresentare niente altro che una “larga messe di idee” a discrezione dell’ufficio tecnico del comune [Cfr. Armando Melis, «Storia antica e moderna di via Roma a Torino», Urbanistica n. 5 1933, p. 147; «Il secondo tratto di via Roma, i progetti del concorso presi in esame dalla Commissione», La Stampa, 7 dicembre 1933; AA.VV., Concorso per il secondo tratto di via Roma a Torino», L’Architettura Italiana n. 2, 1934; «Concorso per il secondo tratto di via Roma a Torino», Urbanistica n. 2 1934; Plinio Marconi, «Il concorso per il piano regolatore del secondo tratto di Via Roma a Torino», Architettura n. 5 1934]. … Se il ruolo dell’intervento di Marcello Piacentini, accademico d’Italia, chiamato a dirimere ogni controversia per accelerare i tempi di attuazione dei piani amministrativi, era di “dare quel tocco di ideologia ad un’operazione fondiaria di grande mole” [Roberto Gabetti, Carlo Olmo, Culture edilizia e professionale dell’architetto: Torino anni ’20 e ’30, in Torino 1920-1936, società e cultura tra sviluppo industriale e capitalismo, Edizioni Progetto, Torino 1976, p. 31], suo merito fu di tradurre in soluzioni architettoniche formalmente coerenti il taglio planivolumetrico e tipologico più funzionale al numero e alla dimensione finanziaria dei committenti, all’organizzazione delle imprese e degli studi professionali, all’adattabilità degli schemi compositivi alle diverse esigenze delle distribuzioni interne» (p. 117). «Nelle tipologie, l’aderenza a un preciso programma economico, sia pure di sfruttamento fondiario di stampo capitalistico, comportò una oggettivazione che in larga misura ha evitato all’intervento di cadere nella vuota retorica di regime, evidente in altri esempi coevi … Si affermò inoltre, in questo più che nel primo tratto, il “nuovo corso” di razionalizzazione del lavoro e di organizzazione scientifica della produzione, nella estensione del taylorismo, introdotto dagli Stati Uniti a seguito delle prime esperienze di scientific management, sviluppate in fabbrica ed ora esportate nel settore edilizio» (p. 118).
«Nel complesso della grande operazione immobiliare, gli immancabili committenti delle analoghe realizzazioni del regime, l’INA, l’INFPS, furono presenti ma non ebbero né quantitativamente né per preminenza il loro abituale ruolo determinante. I padroni di casa per tradizione familiare (i nobili o i banchieri), se grandi, furono confermati, se piccoli, si accomunarono alla proprietà minuta nell’essere sostituiti dalle poche grandi concentrazioni del capitale. Queste ebbero la parte di gran lunga maggiore (anche in senso qualitativo, nella determinazione del disegno urbanistico a loro più funzionale, gratificata, per giunta, da sembianze di mecenatismo (come nella torre Littoria, cresciuta di quattro piani di lussuosi appartamenti in più, poiché “non si deve dimenticare che in iniziative di tale ordine il fatto semplicemente edile … passa in un campo di ben più vasta risonanza, sta il fatto del miglioramento estetico dell’opera” [lettera del Presidente del consiglio di amministrazione della Reale Mutua Assicurazioni alla Divisione LL.PP. del Comune di Torino, 30 giugno 1933]» (p. 121).
Mario Lupano, Marcello Piacentini, Laterza, Bari 1991
«Via Roma … all’inizio degli anni Trenta … confermava il suo ruolo importante di direttrice urbana, mostrando un’immagine sempre più degradata anche a confronto delle zone di espansione ottocentesche. Il piano approvato nel 1930 per l’allargamento della via e per il risanamento dei quartieri adiacenti risultava informato a vecchie concezioni, come svelava per esempio il vincolo stilistico secondo il quale gli “edifici avrebbero dovuto armonizzare con lo stile settecentesco della Piazza San Carlo”. Da una critica serrata ai contenuti del Piano ufficiale prende le mosse il controprogetto del gruppo torinese del MIAR, composto da Giuseppe Pagano, Umberto Cuzzi, Gino Levi Montalcini, Ottorino Aloisio, Ettore Sottsass. Il gruppo contesta al Piano la capacità di conferire alla strada la nuova “fisionomia” richiesta dalla città, vale a dire “Mantenere ed esaltare il suo carattere eminentemente rappresentativo di via trionfale … Conservare e aumentare il carattere commerciale … Rappresentare la sintesi della Torino moderna e nello stesso tempo conservare quel carattere di intimità per cui è stata fin ora la via prediletta del centro cittadino … Essere un buon impiego di capitali per modo di garantire una serie di costruzioni veramente signorili” [gruppo MIAR, «La via Roma di Torino», Per vendere, cit.] La relazione del controprogetto assume molti temi di tradizionale dominio piacentiniano: ambientismo non stilistico, coerenza dell’immagine urbana, qualità degli spazi pubblici pedonali, sano realismo nel valutare gli aspetti economici del risanamento edilizio» (p. 91).
«Dopo gli esiti insoddisfacenti del primo tratto, gli occhi di tutti erano puntati sulle sorti del secondo brano compreso tra le piazze San Carlo e Carlo Felice per la cui attuazione il progetto ufficiale mostrava ormai forti carenze (eccessiva ampiezza degli isolati da ricostruire, poche aree destinate a suolo pubblico, soluzione banale del raccordo con la piazza San Carlo sul lato delle chiese gemelle). In questa impasse, la municipalità decide, nel 1933, di indire un concorso per un nuovo progetto di Piano Regolatore nel secondo tratto di via Roma. Scarno nella formulazione delle richieste, il bando si limita a porre le condizioni di creare portici su entrambi i lati della via e di conservare le due chiese nella loro ubicazione» (p. 93). Dopo il concorso la municipalità torinese disponeva di una vasta gamma di idee. La scelta di quale adottare era stata evitata dalla giuria e il problema ricadeva nell’ambito dell’Ufficio Tecnico comunale. L’amministrazione municipale decide nel 1934 di avvalersi della consulenza dell’Accademico Marcello Piacentini per le numerose garanzie che la sua esperienza può offrire sia sul piano organizzativo che culturale. “non ci sarebbe che da rallegrarsi, e sinceramente, se in virtù di un ultimo e ben conscio atto di autorità, venisse da Roma, anche lui a cavallo del drago come Juvarra, l’Accademico Piacentini a regalarci aria nuova e un “secondo tratto di via Roma” degno dell’anno XIII”. Fiat, Mostra della Moda, vermuth e sartine non sono una buona ragione per protestare e accompagnare titoli di precedenza; degli “stampini di compromesso”, noi, architetti, ne abbiamo abbastanza” [Carlo Mollino, «Architettura di Torino. Le sabbie mobili», L’Italia Letteraria, X, 10 novembre 1934, n. 45, p. 4]. La fiducia in un intervento risolutore esterno è condivisa dunque anche dal giovane Carlo Mollino, non sospetto di filoaccademismo ma mosso piuttosto dalla totale sfiducia nei confronti della cronica pochezza del professionismo e della cultura locale. … il consulente rivolge le massime attenzioni alla definizione di tutti gli elementi che possono qualificare e far risaltare l’invaso dell’arteria, e tiene in sottotono le due strade parallele (bloccate alle estremità) e le traverse» (pp. 94-95).
«Gli edifici affacciati sulla nuova piazzetta – di proprietà di quegli istituti assicurativi che sono clienti dell’architetto romano in molte occasioni in altre città d’Italia, oltreché protagonisti d violente trasformazioni edilizie del regime fascista – sono tutti progettati direttamente da Piacentini. E questi sono il modello di quanti verranno. In tale modo Piacentini offre anche una uova interpretazione del ruolo di progettista coordinatore che sovrintende l’operato dell’Ufficio Tecnico, controlla gli sviluppi volumetrici affidati ad altri progettisti, si fa garante dei rapporti con le concentrazioni finanziarie che investono nelle costruzioni. … In definitiva l’intervento piacentiniano, anche per la capacità di saper tenere conto sottilmente della tradizione locale di disegno urbano, costituisce un raro esempio contemporaneo di riuscito innesto nel tessuto di una città antica. Via Roma nuova fu assunta subito come percorso deputato di quotidiane ed eccezionali celebrazioni, come scenario eletto della città della moda e dell’automobile (presenza a quel tempo ancora elitaria e non invadente, che nella nuova strada fu privilegiata al punto da escludere il passaggio del tram)» (p. 96).
Da: Cronologia delle opere di Marcello Piacentini [Mario Lupano]
- Ricostruzione del secondo tratto di via Roma e zone adiacenti (stesura del piano, controllo stilistico e volumetrico dell’insieme edilizio e coordinamento dei progetti degli architetti incaricati per i singoli edifici), Torino, 1934-38. In veste di consulente del Comune, coadiuvato da Cesare Pascoletti, in collaborazione con l’Ufficio Tecnico municipale
- Edificio adiacente alla chiesa di San Carlo (proprietà dell’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale), compreso nella ricostruzione del secondo tratto di via Roma, Torino, 1935-38
- Palazzo sull’isolato tra la piazzetta dietro le chiese, via Roma, via Arcivescovado e via XX Settembre (proprietà dell’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale), compreso nella ricostruzione del secondo tratto di via Roma, Torino, 1935-38
- Palazzo per la nuova sede dell’INFPS, sull’isolato fra via XX Settembre, via Arcivescovado, via XXIII marzo (proprietà dell’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale), compreso nella ricostruzione del secondo tratto di via Roma, Torino, 1935-38
- Edificio adiacente alla chiesa di Santa Cristina (proprietà della S.A. Imprese Edili A. Comoglio) , compreso nella ricostruzione del secondo tratto di via Roma, Torino, 1935-38
- Palazzo sull’isolato tra la piazzetta dietro le due chiese, via Roma, via Arcivescovado e via IX Maggio (proprietà delle Assicurazioni Generali Trieste) , compreso nella ricostruzione del secondo tratto di via Roma, Torino, 1935-38
Paolo Sica, Storia dell’urbanistica. III. Il Novecento, Laterza, Bari 1978
«le committenze più importanti che fanno capo all’amministrazione comunale, allo Stato, alle grandi imprese industriali e ai gruppi finanziari – sostituitesi all’alta borghesia – trovano un rapporto più facile e immediato con una classe più anonima di tecnici e di ingegneri, pronta a inserirsi senza remore in una nuova concezione di divisione e organizzazione del lavoro. Del resto anche le vicende dello sviluppo di Torino fra il 1920 e il ’40, se si eccettua la ricostruzione della via Roma, ci mettono di fronte, più che a una serie di episodi emergenti, a una continua attività di potenziamento e ricomposizione dell’apparato infrastrutturale esistente, accanto alla crescita e all’espansione urbana in parte organizzata lungo direttrici già assunte, in parte pilotata dalla rilocalizzazione industriale. … Il progetto di via Roma, risalente addirittura agli anni successivi all’unità d’Italia, era stato riproposto ufficialmente nel 1914 dall’ufficio tecnico del comune, con un piano ripreso poi nel dopoguerra. Un decreto del 1930, che stabilisce i criteri dell’intervento fissando la nuova larghezza della strada, mette in moto la costruzione dei primi edifici di iniziativa privata nel tratto compreso fra la piazza Castello e la piazza S. Carlo … un gruppo di architetti torinesi del MIAR formato da Pagano, Levi-Montalcini, Cuzzi, Aloisio e Sottsass, redige nel ’31 quel progetto di rifacimento unitario che resta quale primo esempio in Italia di un disegno a scala urbana di gusto e impostazione moderna» (p. 443). «A seguito dell’interesse suscitato dal progetto di Pagano e dei suoi colleghi, il podestà sospende la ricostruzione del secondo tratto di via Roma (dalla piazza S. Carlo alla piazza Carlo Felice) per il quale è poi indetto un concorso nazionale nel ’33 concluso senza un vincitore … la committenza è quindi rilevata da Piacentini, nella sua veste di consulente del comune: la soluzione urbanistica definitiva realizza la continuità del camminamento pedonale fra le due piazze terminali, creando un largo monumentale definito da due blocchi simmetrici alle spalle delle chiese di S. Carlo e S. Cristina» (p. 445).
Luciano Re, Via Roma: mito e realtà, in Luciano Re, Giovanni Sessa, Torino. Via Roma, Lindau, Torino 1992
«La demolizione della vecchia via Roma, la costruzione di quella nuova, non costituiscono soltanto il maggiore evento urbanistico e architettonico di Torino nel nostro secolo, né solo l’affermazione di una nuova condizione imprenditoriale, tecnologica ed economica … bensì la testimonianza di una transizione storica della città» (p. 11). «Intendere la ricostruzione di via Roma nei suoi soli aspetti di “opera del Regime”, come tante in quegli anni nelle città italiane … non ne spiegherebbe il successo e il radicamento, di là da ogni giudizio critico, nel cuore dei torinesi» (p. 12). «il fatto che anche l’intento della costituzione del Centro Direzionale, oggetto nei primi anni ’60 del più importante concorso di architettura bandito dalla città, sia rimasto a livello di un confronto di idee fine a se stesso, sembra confermare quanto in pratica la centralità di via Roma, radicata da oltre un secolo, non abbia concorrenze da temere» (p. 15). «non furono soli il Regime e Marcello Piacentini nel non preoccuparsi del fatto che la vecchia via Roma fosse condannata a sparire. Tutta la cultura locale, anzi, sembrava persuasa della mutuabilità dei valori tradizionali fisici e semantici della via attraverso l’imitazione dei caratteri stilistici esteriori, al di là da ogni contenuto funzionale e tecnologico degli edifici» (p. 16). «La distinzione dell’intervento di via Roma da altre realizzazioni coeve, ascrivibile sia alla dimensione e alla centralità del sito, sia alla tradizione culturale e alla particolarità della tradizione economica e produttiva di Torino (la ricostruzione di via Roma interagisce con la grande crisi, per un verso, ma questa a sua volta è l’occasione definitiva del trionfo della grande industria su una realtà urbana prima di allora ancora variegata: si pensi all’impero di Gualino) … venne segnalata dai primi studi critici a partire dalla fine degli anni ’60, dopo che per trent’anni la nuova via Roma era silenziosamente entrata nelle abitudini dei torinesi, peraltro concordi nel liquidarla sul piano dell’architettura come “opera del Regime”, specie nel tratto piacentiniano» (p. 21).
Giovanni Sessa, Cronaca dei cantieri, in Luciano Re, Giovanni Sessa, Torino. Via Roma, Lindau, Torino 1992
«nel maggio del 1931, si aprì il primo cantiere dell’isolato San Vincenzo (secondo a destra da Piazza castello a Piazza San Carlo). Presero così l’avvio i lavori di ricostruzione di via Roma, che perdurarono sino al 1938 spostandosi in una seconda fase agli isolati del secondo tratto compreso tra la Piazza San Carlo e la Piazza Carlo Felice. … il cosiddetto “piano Scannagatta” (dal nome dell’ingegnere capo del Servizio Tecnico LL.PP. … Giorgio Scannagatta) …adottato dal Commissario prefettizio con deliberazione del 30 aprile 1926 [approvato con RD 3 luglio 1930]… prevedeva la demolizione e la ricostruzione degli isolati nei due tratti, la presenza di portici per tutta la lunghezza della via e fissava i crietri di edificazione per il solo tratto compreso tra Piazza Castello e Piazza San Carlo» (p. 47). «l’isolato Sant’Emanuele, di proprietà della Reale Mutua Assicurazioni, su progetto dell’architetto Armando Melis de Villa e dell’ingegner Giovanni Bernocco contrappone ala staticità del risvolto della via su Piazza Castello la Torre Littoria, il primo piccolo grattacielo italiano» (p. 55). «[da La Stampa 6 settembre 1932] “Non sarà un grattacielo nel senso comune della parola. Saremo sempre in casa nostra, non andremo a chiedere nulla ad imprestito ai forestieri. Sarà una torre, una torre italiana”» (p. 56). «Così come promesso a suo tempo dal Podestà Paolo Tahon di Revel, il primo tratto di via Roma venne fatidicamente inaugurato il 28 ottobre 1933 dopo soli tre anni di lavoro» (pp. 59-60).
«al concorso parteciparono quasi tutti i migliori professionisti torinesi con proposte di grande interesse, sia sotto l’aspetto architettonico nell’uso oramai sapiente del linguaggio moderno, sia sotto quello urbanistico per la volontà espressa nell’affrontare progetti a scala urbana» (p. 68). «In tutti i progetti si riscontra l’esigenza di un’attuazione rigorosamente unitaria, che andava al di là della realtà immobiliare e imprenditoriale torinese, limitando parecchio le possibilità di individuali patteggiamenti per un maggior sfruttamento edilizio (che si verificarono comunque in qualche caso) e rendendo abbastanza incerto l’esito complessivo» (p. 69). «[da La Stampa 7 febbraio 1934] “l’orgoglio, il vanto di Torino, sono fatti dell’esercito dei suoi lavoratori … Per quest’esercito meraviglioso e disciplinato … non è indispensabile una propria Città della Moda fra la Stazione e il monumento a Emanuele Filiberto. Alla loro energia … basta una strada sola, magnifica, dove la Moda voluta e promossa dal Regime si alloghi e prosperi con sanità economica”» (pp. 70-71). «Il 1 dicembre 1934 La Stampa pubblicava … lo schema di un “piano provvisorio” per il secondo tratto di via Roma allestito … dall’Ufficio Tecnico municipale, approvato dalla Commissione igienico-edilizia, ma non ancora dal Consiglio Superiore di Belle Arti e da quello dei Lavori Pubblici. Le caratteristiche principali di questo piano … furono il tracciato a blocchi isolati ortogonali, ispirato forse dal progetto Ortensi-Michelazzi; la formazione di una piazzetta retrostante le due chiese (affiancate con sottopassaggi e porticati); … l’apertura di due nuove vie di sosta parallele a via Roma» (p. 71). «Fu quindi lui [Piacentini] a stabilire i tracciati e le norme edilizie del piano definitivo del 3 agosto 1935, noto anche come “piano Orlandini” dal nome dell’ingegnere Orlando Orlandini, capo del Servizio Tecnico LL.PP. … cui spettò la redazione. Il disegno non si discostò tanto rispetto a quello provvisorio del 1934. Anche qui è prevista la piazzetta sul rovescio delle chiese e delle due nuove vie parallele a via Roma, a moltiplicazione degli affacci commerciali» (p. 71). «L’efficienza organizzativa di Piacentini … sembrò … avallare l’uso, già in atto nella grande industria, di razionalizzazione del lavoro e organizzazione scientifica della produzione, nella estensione del taylorismo, importato dagli Stati Uniti. Il cantiere, così come la fabbrica, assunse allora un carattere semimilitare, impiegando molta manodopera a basso costo, reclutata fra i nuovi immigrati e disoccupati» (pp. 74-75). «Piacentini tenne per sé il delicato compito della progettazione in proprio degli isolati costituenti la piazzetta retrostante le chiese, il cui rovescio fu decorato con le statue allegoriche in marmo del Po e della Dora realizzate dallo scultore Baglioni, dopo un concorso, nel 1937» (p. 77). «la progettazione dei restanti edifici fu affidata ad accreditati professionisti locali, che colsero le articolazioni consentite entro il rigido programma unificante. Apprezzabile è così lo sforzo dell’architetto Ottorino Aloisio nel palazzo Cinzano dell’Immobiliare Santa Vittoria … o quello dell’anziano Rigotti nell’immaginare l’incantevole atrio di via Arcivescovado» (p. 78). «Ma la progettazione più impegnativa, in termini di tipologia urbana e di mole edilizia, fu quella del complesso dei cinque blocchi ottenuti dal frazionamento dell’isolato Sant’Antonio, acquistato dalla SAEP (del gruppo Fiat) e coordinata dall’ingegner Vittorio Bonadè Bottino … In una sua memoria … Bonadè espone una interessante testimonianza … “affrontai col Piacentini il problema di una variante al Piano … proposi la suddivisione in cinque isolati, sostituendo lo sbocco in via Lagrange della nuova trasversale da via Roma con due tronchi racchiudenti un’area destinata all’albergo e prevedendo opportuni arretramenti: Piacentini accettò la variante della quale si compiacque, maggiorò gli arretramenti con un compenso in numero di piani”» (p. 79). «l’edificio più significativo … fu senza dubbio quello del grande albergo Principe di Piemonte, voluto espressamente dall’avvocato Edoardo Agnelli e da professor Vittorio Valletta, spesso in difficoltà nell’offrire una ricettività decorosa a personalità presenti in Torino per affari Fiat» (p. 80). «una soluzione a metà tra l’albergo “all’americana”, nel modello del fordismo dell’industria, e la tradizione sabauda, nel gusto dei delicati interni Art Dèco» (p. 81).
Mario Balzanelli, «Varianti al piano regolatore», Torino. Rassegna mensile della città, Dicembre 1934
«Il piano generale edilizio regolatore e di ampliamento della città di Torino, venne approvato con legge 5 aprile 1908, n. 141, e successivamente con Decreto legge luogotenenziale in data 10 marzo 1918, n. 385, venne approvato un apposito Piano regolatore edilizio e di ampliamento della zona collinare … con R. Decreto in data 15 gennaio 1920, n. 80 vennero infine approvate le varianti al piano generale vigente per la citata legge 5 aprile 1908. Il piano regolatore, il cui limite di validità per l’attuazione, sia per la parte piana sia per la parte collinare, scade nel 1958, ha previsto con larghezza lo sviluppo futuro della Città e la sua graduale attuazione, ha potuto essere sufficientemente regolato in modo da mantenere un equilibrio soddisfacente nell’espansione edilizia cittadina nelle varie zone ed ha permesso anche di apportare quelle modificazioni al piano stesso che si sono rese necessarie per le esigenze contingenti di mano in mano che queste si sono verificate. … Non è quindi necessario, come taluno forse propenderebbe a credere, rimaneggiare in modo radicale il Piano regolatore della Città, o crearne uno nuovo, bensì continuare in una analisi metodica, attenta, meditata, per adattarlo maggiormente alle varie contingenze ed integrarlo opportunamente ove occorra» (p. 45).
Alessandro Militello, «In tema di piani regolatori (Roma, Milano, Torino ed altre città)», La Proprietà Edilizia Italiana, Ottobre-novembre 1930
«Si prevede che la grande impresa con la quale Torino darà alla sua arteria centrale degna e moderna struttura, potrà essere compiuta nel corso di otto anni. Grande ed imponente che sia, questa non può tuttavia considerarsi se non un’opera di dettaglio, nel complesso del piano regolatore della città. E mentre perciò si volge alla sua esecuzione, si sta portando a compimento lo studio della sistemazione di tutta la vecchia Torino; per poi, evidentemente, attendere alla redazione del piano di ampliamento generale. “Connesso strettamente alla ricostruzione della via Roma è il problema del risanamento – ha dichiarato il Podestà – del centro cittadino, conforme alle necessità estetiche e igieniche della Torino che vogliamo più moderna e più bella e conforme ai bisogni che l’intensità sempre più crescente del traffico è venuta imponendo. Il Comune ha preparato proprio di questi giorni un nuovo piano regolatore, che comporta l’abbattimento di molte vecchie case del centro e l’apertura di grandi arterie sostituenti le attuali anguste viuzze della Torino antica”. Si lavora, dunque, nell’operosa capitale del Piemonte; e noi attendiamo la pubblicazione del progetto del nuovo piano per esprimere i pareri e i voti della Proprietà Edilizia» (pp. 785-786).
Giacomo Salvadori di Wiesenhoff, «Un problema torinese. La ricostruzione di via Roma», Realtà. Rivista rotariana, aprile 1930
«i punti in discussione si possono ridurre ai seguenti: 1) quali sono le necessità del grande traffico torinese? 2) via Roma deve venire risanata? 3) via Roma deve venire allargata? 4) via Roma deve ricostruirsi con portici o senza portici? 5) quali sono le conseguenze economiche nei diversi casi? 6) gli eventuali slarghi … sarebbero utili o meno, tanto dal punto di vista della viabilità come dell’estetica e dell’economia?» (p. 394). «I … Le esigenze del traffico di una grande città come Torino, esigenze le quali, ragguagliate al quotidiano risparmio di tempo di migliaia e migliaia di cittadini, si assommano ad una cifra formidabile, sono tali da dover all’occorrenza passare oltre a qualsiasi considerazione particolaristica. II Alla domanda se via Roma deve venir risanata igienicamente e ridotta in stato decoroso corrispondente al posto che occupa fra le grandi piazze nel cuore di Torino, non si può rispondere che affermativamente» (p. 395). III … Via Roma di quasi undici metri com’è non ha bisogno di venire allargata. Tolti i tranvai, impedito il transito ai carri, ricostruiti decorosamente a cura dei proprietari i palazzi in stile analogo a quello delle piazze e conservando le altezze attuali, ampliati ed allargati i marciapiedi, aboliti gli ammezzati ed alzati a loro spese i magazzini, che dovrebbero aprirsi sulla via con grandi vetrate, sostituti gli attuali globi sospesi dell’illuminazione elettrica con candelabri o bracci ornamentali, si creerebbe un’arteria signorile di commercio, costituente nei due sensi un’armonica propaggine della bellissima piazza S. Carlo» (p. 397). «IV … Qualora la ricostruzione di via Roma avvenisse sul filo attuale, e cioè senza allargamento e senza portici, il bilancio tra l’attivo ed il passivo risulterebbe assai migliorato. Da ciò risulta abbastanza chiaramente la ragione per la quale, dopo tanti anni trascorsi, fra i quali alcuni economicamente in condizioni più favorevoli delle attuali, non si sia potuto risolvere il problema di via Roma mantenendo i capisaldi: allargamento, portici sui due lati, nessun aiuto da parte del Comune» (p. 399).
Plinio Marconi, «Il concorso per il secondo tratto di via Roma a Torino», Architettura, maggio 1934
«Il primo progetto ufficialmente sancito è quello redatto dall’Ufficio Tecnico del Comune di Torino nel 1914, il quale portava la larghezza di Via Roma a m. 14,80, con portici dai due lati, larghi m. 5,80 e architravati eccetto che nelle testate di imbocco alle piazze, mentre le due chiese di Santa Cristina e S. Carlo venivano isolate con gallerie» (p. 295). «Constatata l’inadeguatezza di alcune clausole del piano del 1914, nel 1926 il Governo faceva redigere dall’ingegnere capo del Genio Civile un altro piano, che, firmato anche dall’ingegnere capo del Comune di Torino, era approvato dal Commissario Prefettizio: finchè si arrivava al RDL del 3 luglio 1930, che sanciva i provvedimenti per l’allargamento di Via Roma e per il risanamento dei quartieri adiacenti» (p.297). «esso prescriveva che gli edifici d’angolo agli sbocchi delle tre Piazze dovessero conservare la loro fisionomia architettonica attuale, con una profondità di risvolto di almeno m. 14, mentre gli altri edifici avrebbero dovuto armonizzare con lo stile settecentesco (sic) della Piazza San Carlo. Codesto vincolo stilistico fece insorgere la reazione di tutti gli architetti di sensibilità moderna, e si ebbe quel famoso controprogetto, redatto da un agguerrito manipolo di colleghi torinesi … Ciononostante il primo tratto di Via Roma, da Piazza Castello a Piazza san Carlo, era nel 1931 presto assunto dall’iniziativa di enti e di privati, e sorgeva rapidamente sulla base delle direttive sancite per legge. … poiché l’attenzione di tutti gli urbanisti si agitava attorno al problema residuo e continuavano a fiorire proposte l’un l’altra contrastanti, il Podestà riteneva utile ottenere una consultazione nazionale» (p. 298). «È necessario trasformare la zona considerata in un centro moderno commerciale, vera city del XX secolo: prevalenza di costruzioni occupate da uffici e luoghi di affari nei piani mediani, totalmente da negozi al pianterreno; sufficienza ed adeguatezza delle arterie stradali, da dotarsi degli indispensabili mezzi di comunicazione, con annessi e connessi (metropolitana, parchi di stazionamento autoveicoli, ecc. ecc.). Il problema deve essere impostato pei bisogni del domani: e sta bene, ma quale domani? … vale veramente la pena di svolgere nel ristretto spazio considerato un programma così organico e di lunga portata quando poi le zone vicine sono attrezzate all’antica e perfino le parti più recentemente realizzate, cioè il primo tronco di via Roma, obbediscono a visuali più limitate? … O vogliamo poi rifare tutto il centro di Torino? Non varrebbe forse la pena di attuare queste bellissime idee in zone più lontane e non ancora compromesse, naturalmente innestandole a più vasti mutamenti nell’ordinamento intimo cittadino?» (p. 306). «In mancanza di enormi organizzazioni collettive, le ricostruzioni dovrebbero essere lotto per lotto affidate a privati o ad enti minori: o a quelli stessi che posseggono gli attuali immobili da espropriare, o ad altri che loro subentrino. Ed allora i singoli ristretti programmi dovranno comprendere un tornaconto immediato e il lontano domani sfuma. … a troppo radicali mutamenti di un centro urbano si oppone l’incognita della permanenza di esso, in un lontano avvenire, nella sua funzione attuale: Torino poi dimostra una singolare duttilità a costituire dei centri periferici, ed a tale naturale benefica tendenza al decentramento non bisogna opporsi colla costituzione di un unico supercentro» (p. 310). «Il concorso di via Roma ha in primo luogo offerto sostanzioso contributo alla soluzione astratta dei problemi urbanistici riferentisi alla sistemazione di zone centrali nelle città italiane» (p. 316).
Vedi su questo sito: F. Bottini, Torino la City tascabile tra le due guerre mondiali, da Storia dell’Architettura Italiana il Primo ‘900, a cura di G. Ciucci e G. Muratore, Electa 2004