Tra i faceti detti del dr. Arbuthnot, celebre esperto di definizioni, ve n’è uno che merita un breve cenno, soprattutto perché è efficace citarlo in un’assemblea di architetti: «quel che importa – diceva il dottor Arbuthnot – è che la pianificazione non sia mescolata con la politica». Solo il cielo sa quanti piani generali siano seppelliti nella biblioteca di Harvard. Ve ne sono di ogni forma e misura, da quelli solennemente troneggianti nel basso dei massicci scaffali e rilegati in pelle e oro, alle lunghe file di quelli, collocati a mezza altezza e rilegati borghesemente in tela, zeppi di statistiche, fino alle centinaia di piani modesti tenuti in semplici cartelle, messi lì a incorniciare il tutto come gli angioli di un altare barocco. È difficile non mettersi a filosofare davanti a questa necropoli dei piani: «ognuno giace per l’eternità nel suo stretto loculo» e non lasciarsi andare a meditare sul Destino che concede una così breve durata dopo un promettente inizio. Nati fra la speranza e l’orgoglio, nutriti delle migliori intenzioni, illuminati un momento dalla gloria e dal successo, muoiono poi di stenti. Ed hanno proprio questo in comune tutti quanti: non si sono mescolati con la politica.
Ora nessuno negherà che l’elaborazione dei piani generali, anche se raggiungesse le proporzioni di un’industria, può raramente arrivare alla realtà e alla sostanza di una vera urbanistica. In genere, un piano incarna solo qualche vaga previsione della futura creazione in spazio, muri, verde. Non vi è dubbio che i loro autori, come gli scultori della Cattedrale di Reims, proveranno l’enorme soddisfazione di ricordarsi delle Vergini nascoste per sempre dietro i parapetti; ma forse potrà darsi che alla lunga anche il più ortodosso degli urbanisti debba riconoscere nei suoi sforzi una tal quale futilità anche se sublime. Ma ne darà colpa all’insensibilità dei tempi moderni. Quando vado alla biblioteca di Urbanistica, che negli ultimi tempi è diventata il mio ritiro favorito, mi vien da pensare se non vi sia il mezzo di rendere più profittevoli tanta buona fede e ingegno. Lo so che i tempi sono terribili: per altro ci deve essere qualche ritrovato, finora trascurato che possa servire allo scopo. Forse il ritrovato dovrebbe includere, checché ne dica l’erudito Arbuthnot, una larga dose di senso politico? Forse l’Urbanistica deve essere mescolata alla politica?
La politica è un’arte che dipende dalla conoscenza, intuitiva o no, di quei mezzi coi quali è possibile realizzare le cose nella vita sociale. I mezzi che rendono reale l’urbanistica, non sono le idee o la tecnica, ma gli uomini, gli istituti, e le leggi. Allora bisogna includere questi ultimi, tra i materiali e i procedimenti urbanistici, e bisogna includere l’esperienza nell’educazione degli urbanisti, qualunque cosa sia l’urbanistica in teoria, in pratica essa è un fatto politico. «Nel proporre i suoi piani – scriveva una nota autorità – l’urbanistica deve considerare la possibilità della loro realizzazione». Mi pare che non lo si possa rimproverare di essere troppo radicale. In tutta la sua storia l’urbanistica fu tutt’uno con la pratica di governo, o almeno un addentellato di questa pratica. Il barone Haussmann, paragone degli urbanisti, non può essere immaginato fuori dal quadro politico del Secondo Impero. Egli usò, come la carta e il lapis, gli uomini e il meccanismo del governo. Commissioni, parlamento, finanza, legge e necessità sociali furono i primi componenti della sua arte. Parigi era la torta, ed egli la divise, non con la matita ma col più tagliente orlo di un poleone d’oro.
John Nash, architetto e principe degli urbanisti, conosceva anche lui due o tre cose circa gli uomini e i parlamenti. Da vero inglese, preferiva aggirare gli ostacoli, piuttosto che cozzarvi, tuttavia Regent Street, che serpeggia attorno alla chiesa e ai palazzi ducali preesistenti, divenne come ogni londinese sa la più bella strada del mondo. Come santo patrono degli urbanisti io metterei Nerone. Il suo metodo per il risanamento delle zone malsane era un po’ impetuoso, ma indubbiamente efficace. Oggi in questo vortice di piani cartacei, io guardo indietro nei secoli alla sua gioia mentre le veloci fiamme sventravano ettari di alloggi malsani e aprivano al sole le scure e infette vie di Roma. Su questo foglio, coperto di ceneri, l’imperatore tracciò la larga, magnifica linea della Via Sacra, e delle vie porticate. Un urbanista con una tale sovrumana volontà, non dovrebbe meritare la fama che la storia gli ha decretato. Dev’essere stato qualche proprietario espropriato a inventare la storia della lira. Ma oggi dei quieti professori spianano le città, tracciano autostrade, deviano fiumi, solo nei loro sogni. Repressa dall’indifferenza politica, la loro nobile aspirazione si cristallizza in eterno nei Piani Generali.
Nell’architettura storica i fasti della pianificazione urbanistica coincisero con l’assolutismo politico. L’intenzione dell’urbanistica era proprio di affermare e celebrare quel principio politico. La Domus Aurea e l’Opera di Parigi, rutilanti fiori di politica imperiale, erano insieme con i complessi circostanti, strumenti di quella politica. Mi pare che Nerone non si preoccupasse di avere una maggioranza ostile, e i talenti dittatoriali di Haussmann non erano soggetti ad accidenti di votazione. Ma io non voglio suggerire, d’altronde, che noi abbiamo bisogno di Nerone o di Haussmann, e capisco anche quando la piazza monumentale, il boulevard e i palazzi siano impotenti ad esprimere lo spirito di una democrazia industriale. È chiaro che io non desidero che vengano ripetute le forme del passato, e nemmeno i metodi tecnici e politici con cui esse venivano realizzate, ma solo la visione realistica, che vi era implicita.
È un gran peccato che l’espressione «urbanistica» abbia un significato così nebuloso. Per me un termine così impegnativo non dovrebbe essere mai dato a dei creatori di utopie; ma nemmeno d’altra parte dovrebbe essere dato a quella specie di scienziato che oppone all’antica tradizione l’aridità dei dati, delle tabelle e dei diagrammi e pretende che questi siano l’urbanistica. Naturalmente so che statistiche e indagini, rapporti e planimetrie sono necessari e importanti, ma come i calcoli dell’ingegnere, devono servire solo nel segreto del lavoro professionale. La cosa più dannosa alla propaganda urbanistica è l’aria soddisfatta con cui essi vengono esibiti al pubblico. Questo sposta tutto l’interesse sui mezzi del lavoro, e lo scopo vien dimenticato. Benché oggi si inventino troppe parole, io suggerirei il termine «architetto di città» per distinguere l’urbanista che progetta ed esegue i suoi piani, dal sognatore e dal manipolatore di statistiche. So che non ogni architetto può fare i piani di una città e nemmeno vorrei limitare l’urbanistica agli architetti.
Non ho tanto in mente le sfumature della pratica professionale quanto quelle che servono a trasformare le forme ideali in forme realizzate, solo che in questo caso il mezzo di realizzazione non è fornito dalla tecnica, ma dagli uomini e dagli istituti. Quel genere di pensiero e di azione che crea i grattacieli, le cattedrali e le grandi centrali elettriche. L’architettura può essere anche un’arte politica. Un critico eminente ha classificato gli urbanisti in creatori ed esecutori. Questa classificazione si è diffusa ed è una delle cause del carattere astratto che informa i più ambiziosi piani: vedi quello di Chicago o quello di Londra redatto dalla Royal Academy. L’urbanista «creatore» è un creatore di fantasmi: l’esecutore è quella favolosa creatura che dovrebbe dare corpo ai fantasmi. Io non ho mai conosciuto uno scultore che potesse immaginare una Venere con la mente, attendendo il collaboratore che la facesse sortire dal blocco di marmo. Ma allora che strano architetto sarebbe quello che attendesse che costruttori e operai rendessero il suo pensiero in acciaio e pietra, senza la sua partecipazione diretta.
Tra gli architetti di città vi dovrebbero essere solo due categorie: maestro e apprendista, ma tutti dovrebbero sapere che immaginare e costruire sono, nella pratica, fasi del medesimo processo. Per urbanistica (per usare il termine accettato) io intendo l’arte che idea e dispone gli elementi fisici della città. Il principio che il benessere sociale può essere migliorato dall’ambiente adatto è quello che dà valore all’urbanistica di oggi, assieme a quello, tradizionale, della forma e dell’ordine di quest’ambiente. Mentre l’urbanistica imperiale affermava il potere e l’autorità dello stato, e quella medievale il potere, e l’autorità della Chiesa, l’urbanistica moderna è indirizzata alla felicità delle popolazioni. Questo tema non implica solo le ricerche nel campo sociale, precedenti e parallele alle modifiche fisiche, non solo l’applicazione di procedimenti scientifici al tracciato stradale, alla lottizzazione e al traffico, ma soprattutto che vi sia chiaramente espresso e perseguito un ideale sociale. Ciò che occorre per dare efficacia alla nostra urbanistica, è un più preciso procedimento politico, che dev’essere consono allo spirito e alle abitudini della nostra cultura, di quella coraggiosa, romantica cultura che noi chiamiamo democrazia. Dobbiamo scoprire ed usare questo procedimento.
L’idea di un parco pubblico, adatto al gusto popolare, è una delle idee feconde attribuite a Napoleone III. Come espediente politico era eccellente: non minacciava interessi immobiliari, utilizzava aree prive di ogni altra apparente utilità, ed era l’incontrovertibile prova della sollecitudine imperiale per il popolo, come l’assegnazione ad uso pubblico degli ex parchi reali: Boulogne, Vincennes, Monceaux. Ognuno capisce il perché di un parco pubblico; e non si vuole disprezzare i nostri architetti dicendo che essi incontrano nel progettare parchi, difficoltà politiche assai minori di quelle che presentano progetti più rilevanti dal punto di vista economico. Questa facilitazione sussiste anche per quelli che concepiscono ponti e strade di gran traffico, ciò che anch’io chiamo esempi di arte urbanistica. Ognuno ha bisogno di andare in qualche posto: per questo bisogno i nostri uomini politici, sollecitati dai fabbricanti di auto e di calcestruzzo, sono stati straordinariamente solleciti.
Altro esempio suggestivo è quello dei partigiani dell’edilizia pubblica. I costruttori di edifici pubblici sapevano ciò che volevano. Lo sviluppo della loro opera riposò fin dal principio in compromessi politici, locali e nazionali, e favorito dalle circostanze fu portato a fondo con estrema abilità. La casa, nel suo ambiente è il nucleo centrale dell’urbanistica moderna, e non vi può essere prova più chiara dei problemi che può agitare una politica edilizia. Ognuno è favorevole alla grande autostrada lungo l’Hudson, che abbrevia di molto la distanza tra Wall Street e la contea di Westchester, e alza i valori immobiliari lungo il suo tragitto; ma le opinioni circa i progettati quartieri popolari a Queensboro e Harlem, sono assai contrastanti, dato che questi, moltiplicati, renderebbero inutili le autostrade. Disse un banchiere leggendo questo articolo, e ciò che dice un banchiere è sempre interessante: «Questi piani edilizi mi sembrano di colore socialista». E socialista in politica è un epiteto.
Abbiamo così definito l’urbanistica arte politica. La crescente abitudine dell’azione politica è allo stesso tempo la causa e la conseguenza di un numero crescente di agenzie politiche, che sono state utili strumenti di pianificazione e promettono ancor meglio per il futuro. Fino a non molto tempo fa questi enti erano tutti privati. Erano associazioni, società, fondazioni caritatevoli, e si occupavano principalmente di ricerche e propaganda. Oggi esse hanno, come addentellati, vari uffici, commissioni e consigli che appartengono altresì alla struttura governativa o sono comunque in contatto col governo, con funzioni consultive. Domani probabilmente, esse diventeranno l’autorità, se non lo sono già oggi. Bisogna ammettere che quelle empiriche persone che controllano la macchina politica delle nostre città non mostrano un ardente desiderio spartire la loro egemonia con le commissioni urbanistiche, e del resto queste inutilmente tentano di impadronirsene in qualche modo. Sappiamo con quale efficienza le commissioni operino tra le quattro pareti del loro ufficio, creando programmi vastissimi, e come questi programmi vengano atrofizzati, una volta portati sul piano politico.
Un ente che non abbia altra funzione che l’accumulazione dei mezzi urbanistici, senza poterli usare altro che per creare formule che nessuno osserva, non merita certo il nome equivoco di Consiglio urbanistico. Per me questo nome dovrebbe essere dato solo a enti integralmente fusi con le amministrazioni comunali. Tali Consigli dovrebbero essere direttamente responsabili verso i cittadini. La garanzia di indipendenza politica, di cui essi si vantano con filosofica lontananza dai problemi reali, li avvilisce e toglie ogni utilità reale al loro lavoro. Ogni Consiglio dovrebbe includere un certo numero di urbanisti di carriera che dovrebbero portare avanti d’anno in anno il loro lavoro urbanistico di «routine». Ciò servirebbe a stabilire un’ampia base di conoscenze e di esperienze da servire di strumento per una urbanistica in continua evoluzione. Non mi pare che i problemi tecnologici e le difficoltà giornaliere dell’amministrazione debbano essere risolti dal voto popolare e nemmeno prendo alla leggera il lavoro di ingegneri, statistici, economisti e scienziati che sostiene il funzionamento delle città. Comunque vi sono persone che scambiano questo lavoro per urbanistica e sono gli stessi che credono che il condizionamento dell’aria sia architettura.
Per quello che riguarda i miei architetti di città, essi dovrebbero essere responsabili verso la pubblica opinione come i sindaci e le giunte. La loro politica deve scaturire dai risultati elettorali e deve mantenere le promesse della campagna elettorale. Un anno Repubblicana e l’anno dopo Democratica, la politica del Consiglio urbanistico deve dimostrare quella mancanza di continuità che, per quanto possa costare in pratica, è il più chiaro sintomo della vitalità dell’istituto democratico; e se dovesse accadere che gli abitanti di una città preferiscano la cattiva alla buona urbanistica, ebbene, che Iddio li benedica, e la abbiamo. Molta gente crede che il N.R.P.B. (il Consiglio Nazionale della Pianificazione) sia morto perché un petulante Senato ha respinto la proposta di fondi annuali. Al contrario, proprio da ciò è nato N.R.P.B. I programmi dell’ente vivono di lotta politica – vincendo o perdendo elezioni – e alla fine N.R.P.B. sarà una realtà, magari con un altro nome.
Questa formulazione degli strumenti politici dell’urbanistica è sostenuta dalla fede nell’architettura delle città, ma oltre la formulazione c’è una testimonianza più pervasiva. Cioè delle correnti dell’opinione pubblica, che diventano ogni giorno più favorevoli alla pianificazione. Infine vi è una crescente coscienza urbanistica, dei suoi scopi, e delle sue promesse. Ciò che è più importante, esiste un crescente disgusto rispetto alla calunnia della democrazia rappresentata dallo stato delle nostre città. Tutte queste, sono influenze formative nella politica d’oggi, che alla fine non potranno essere eluse. Correnti di pensiero che nascono e crescono su una concezione organica della società. Un’abitudine collettiva al pensiero e all’azione si conferma ogni giorno, quando insieme affrontiamo un destino comune. Finché dovremo vivere la vita e cercare la felicità in quanto membri di una collettività, saremo sempre interessati ad ogni cosa significativa per la vita comune. E l’urbanistica sarà certamente tra queste cose, non solo in quanto scienza della vita, ma come Arte, interprete dello spirito umano. Emerge così quanto abbiamo bisogno di un particolare principio architettonico, adatto ai bisogni della democrazia industriale, così come lo erano i principi rinascimentali nel XVI secolo. Di questa nuova architettura abbiamo già compresi e messi in pratica alcuni elementi, creati e consolidati strumenti politici utili a renderla continuativa, in ciò siamo sostenuti da un’opinione pubblica illuminata. I colori ci sono, ed è pronta anche la tela, i pennelli stanno sul tavolo. Aspettiamo l’artista.
Da: Metron, n. 10, 1946 (ripreso da Architectural Record); immagini di Christopher Tunnard
Riferimenti:
Qui su Città Conquistatrice, a proposito di contemporanee «contaminazioni» fra urbanistica e politica del tipo delineato da Hudnut, si veda Edmund Bacon, Riqualificazione urbana: un’occasione per le città (1949)