L’urbanistica ha tra i suoi fini l’obiettivo di realizzare case, scuole, strade, nuclei industriali e terziari, parchi, e tutta la miriade di altre componenti dell’ambiente che rende la nostra esistenza più ricca, comoda, produttiva, soddisfacente. Il suo risultato tridimensionale è l’architettura, il progetto della città, del verde. Senza le basi rese possibili dagli approfonditi studi socioeconomici e percettivi, che conferiscono caratteri e proporzioni al programma di sviluppo, questo ultimo stadio della trasformazione fisica non potrebbe avvenire. Ma per contro, senza una efficiente, armoniosa, attenta progettazione, della città e delle sue parti componenti a costituirne lo sbocco finale, tutte le più raffinate analisi e proiezioni statistiche andrebbero sprecate.
Lo scopo di tutti i calcoli, analisi, scelte politiche, indagini e schemi, è costruire un clima favorevole al progresso verso un ambiente in grado di garantire vita migliore per tutti. Ed eccoci, quindi, di fronte a tutti i fattori e professionalità che contribuiscono ad un buon progetto. Nonostante i professionisti della progettazione abbiano, nel corso dell’ultimo secolo, sviluppato un gelosa indipendenza reciproca, va detto che non esiste in realtà alcuna storica tradizionale separazione. Anzi si tratta di qualcosa di piuttosto nuovo, e abbastanza tragico. Ma pare inutile sprecare in questa sede tempo a descrivere i difetti di oggi nei rapporti tra le professioni che contribuiscono al progetto della città. Dovremmo invece guardare agli aspetti positivi che ci consentono di auspicare e operare verso l’obiettivo comune del miglioramento.
Prima di tutto pare necessario condividere alcuni valori sociali ed estetici che dovrebbero stare alla base, consapevolmente o meno, di qualsiasi progetto. In termini architettonici si tratta di un problema di forma. Non possiamo, né dovremmo cercare di, anticipare quella che dovrebbe o dovrà assumere la città. Più di un secolo fa avvertiva Horatio Greenough che «Tenteremmo invano di riprodurre forme prese a prestito. Dobbiamo invece crearne e possiamo riuscirci soltanto padroneggiandone i principi». Che sono le immutabili leggi della natura, ma soprattutto i valori che coltiviamo e su cui fondiamo le decisioni etiche e pratiche. La forma della città nelle mani del progettista creativo cresce naturalmente da questo fertile terreno. Afferma ancora Greenough: «Se esiste qualunque principio di struttura chiaramente riferibile assai più di altri all’opera del Creatore, è quello di risoluto adattamento delle forme alle funzioni. E ritengo che anche i colori, chiarite le loro cause chimiche e affinità, non siano meno organici in relazione alle forme di quanto non lo siano le forme stesse».
Nel progetto delle città che, per definizione, comporta modifiche dell’ambiente, operiamo dentro le leggi naturali riguardanti l’equilibrio biotico. Ma nel processo di pianificazione dobbiamo anche compiere molte scelte. Chi le compie, e il modo in cui le compie, è di vitale importanza. Ci piace, in quanto urbanisti, ritenere di prendere le decisioni essenziali. Ma ciò è vero solo in parte. Ci sono molte persone e gruppi le cui azioni, indipendentemente dall’urbanista, hanno influenze decisive e a volte effetti devastanti sulla qualità dell’abitare urbano. Non ultima certo la produzione di automobili i cui veicoli conformano e feriscono le nostre città. Al primo posto nelle preoccupazioni di un urbanista deve stare il modo di rendere gli altri consapevoli degli effetti di alcune azioni a volte non esplicitamente connesse su forma e qualità della città.
Ma assai più importante è l’atteggiamento dell’uomo verso il proprio ambiente. Atteggiamento diverso tra individui, popoli, nazioni, le cui storie, tradizioni, convinzioni religiose, hanno composto diverse prospettive sulla natura. Atteggiamenti diversi che si rivelano poi nelle forme assunte dalle loro città e architetture. In queso paese crediamo molto nella libertà del pensiero religioso; siamo orgogliosi della democrazia. La forma di una città basata su principi del genere sarà completamente diversa da quelle di epoca medievale, o da quelle di tiranni e imperatori, anche indipendentemente dalle evoluzioni tecnologiche che pure hanno effetti decisivi sulla forma. Quindi, le forme architettoniche delle nostre città, in ultima analisi, saranno molto più espressione del sentimento spirituale del popolo interpretato dall’artista contemporaneo, anziché pura soluzione tecnica di un problema pratico. È in questo ambito di idee che dobbiamo raccogliere ancora tanti contributi. Lo dico sapendo bene quanto in passato almeno per sessant’anni si siano affermate idee molto persuasive. La critica concordava sui limiti della città ottocentesca e il bisogno di intervenire chirurgicamente, ma lì si iniziava a divergere. Ne nacquero varie utopie, alcuni esperimenti. E dal fermento di riflessioni nasceva anche il metodo di analisi e indagine storico-sociale di Patrick Geddes, con la conferma delle basi biologiche nelle forme di insediamento umano. E tra le utopie la Città Giardino di Ebenezer Howard, a cui si può aggiungere assai più tardi la Città Giardino Verticale di le Corbusier.
Sono state poi concepite ed eloquentemente sviluppate da Clarence Stein e Lewis Mumford altre idee, dal super-blocco alla regional city. Ovunque appare evidente oggi l’impatto della concorrenza tra centri commerciali a scala regionale sulla forma della città centrale. Tra le riflessioni più fertili avanzate, ne spicca una particolare quanto significativa, comparsa su Communitas dei fratelli Goodman, dove vengono sviluppati molti spunti verso una conclusione logica a partire da diversi presupposti. L’importanza di questo lavoro sta interamente nel metodo di approccio anziché nei progetti illustrati, un metodo tale da aprire una efficace collaborazione tra analista e progettista. E dove l’inscindibilità dentro un solo processo di programmazione e progetto viene convincentemente dimostrata, quando in genere troppo spesso si resta inconsapevoli dei valori alla base delle decisioni. Vorrei descriverlo meglio.
Quando in un quartiere si costruisce una scuola, si vorrebbe collocarla al posto giusto. Cosa raramente fattibile per via delle decisioni del comitato scolastico imposte dal bilancio, che sulla base dei costi dei terreni porta a scegliere invece luoghi remoti o di dimensioni insufficienti. Assumendo che esista una base razionale nella scelta del lotto ideale, come si può aggirare quel veto imposto dai costi? Si ripresenta la questione dei valori relativi. In Gran Bretagna il dilemma è superato nazionalizzando i diritti edificatori, ma ben sapendo che ad una serie di problemi così se ne sostituisce un’altra. Nel nostro paese invece, scegliamo di pagare attraverso i sussidi alla riqualificazione urbana il prezzo indispensabile a comporre un sistema urbanistico logico ed efficiente, anche se poi per ottenere quei sussidi la ragione economica deve scegliere di costruire troppo su quei terreni.
E non ci sono solo le scuole ad evidenziare i vincoli economici che non consentono libertà di scelta nel localizzare qualcosa. Recentemente in una grande città si è realizzata una bellissima casa di riposo per anziani affacciata sul fiume. Una posizione davvero bella ma non scelta per quella ragione: semplicemente il terreno era di proprietà del comune, dato che si trova tra un depuratore e una casa di correzione. Un orribile isolamento in realtà, che solleva in forme inedite il classico problema della segregazione. Perché isolare tutte queste persone anziane dai più giovani, dai conoscenti, dai familiari, con una decisione urbanistica? Deve esserci qualcosa che non va nei nostri valori che stanno alla base di una decisione del genere e che invece dovrebbero evitare.
In una democrazia valutiamo molto la varietà. Non è forse la varietà che, sola, consente una maggiore libertà di scelta alle famiglie, ai singoli, ai gruppi? Solo dove esiste varietà nell’offerta di lavoro, tempo libero, istruzione, per giovani e vecchi e per tutte le fasce di gusti o orientamenti, si può concepire uno spazio in cui tutti, a qualunque età, riescono a mantenere i rapporti con amici e conoscenti. Costruirla questa varietà e possibilità di scelta, e al tempo stesso mantenere la promessa di un quartiere urbanisticamente integrato, è obiettivo assai difficile, e si può trasformare in una vera e propria trappola per chi si avvicina al piano con poca consapevolezza e capacità. Il concetto di un grande progetto impersonale – che si tratti di un progetto pubblico o privato non cambia – rappresenta l’antitesi del piccolo villaggio New England il cui calore e accoglienza è tanto apprezzato, dove ci si può arricchire di esperienza grazie alla varietà di persone che è possibile incontrare ogni giorno. Sono questi i valori democratici da sviluppare nei piani cittadini, e su cui rivedere i criteri delle nostre decisioni. Entriamo in un’epoca dove saremo sempre più liberi di decidere, quella della «Società Opulenta» tanto ben descritta da John Kenneth Galbraith. La questione dunque è: stiamo davvero facendo la cosa giusta? Aumenta la quota proporzionale che si dedica a casa e spazi pubblici. E su questa decisione si plasmano i piani.
Esistono anche forze esterne di dimensione mondiale che si esercitano sulle città, che ancora non comprendiamo del tutto, ma che influiranno in futuro sul nostro ambiente in modo che non riusciamo neppure a immaginare. Le città diventeranno così fantasticamente enormi da presentare problemi senza precedenti. E per quanto importante e determinante sarà l’impatto nelle città e nazioni tecnicamente avanzate, esso potrebbe facilmente risultare fatale e insostenibilenelle aree meno avanzate del mondo. La crescita supera in velocità le decisioni e la predisposizione di programmi. Guardare al passato per evitare gli errori dell’Inghilterra o degli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo, non basterà certamente a darci le nuove idee dinamiche in grado di salvare all’umanità uno squallore peggiore di quello dei tempi di Charles Dickens. Si possono però defnire meglio i nuovi problemi, analizzarli, fissare obiettivi, pensare progetti e prendere decisioni, sino a azioni efficaci. In questo sta l’essenza, inscindibile, della pianificazione cittadina e metropolitana, il cui prodotto finale è un migliore ambiente abitativo.
Come si vede, ci aspettiamo parecchio da questa idea di urbanistica (che così definita risulta davvero innovativa). Chiediamo a singoli individui di comprendere le aspirazioni di altri individui, gruppi, comunità, di acquisire la capacità di valutare bisogni e risorse, comprendere le potenzialità della storia, delle forze sociali, economiche, politiche della città, di produrre progetti che «Sappiano risvegliare l’anima» [parafrasi del noto «stir men’s blood» di Daniel Burnham n.d.t.] e trovare il modo di arrivare allo scopo finale. Le capacità necessarie non si possono trovare in nessuna delle professioni già esistenti, e sarebbe presunzione immaginare un urbanista del futuro in grado di competere specialisticamente con lo scienziato sociale, l’architetto, il giurista, l’amministratore. La sua specialità non è certamente quella, anche se attraverso la formazione si può avvantaggiare di una o più di quelle discipline e professioni. Ma il suo contributo sta nella capacità di valutare in modo equilibrato tutte le componenti di un programma, e usare con sapiente diplomazia gli specialismi. Dunque nella formazione dell’urbanista futuro si deve introdurre la comprensione dei vari contributi che convergono nell’idea di città. Né è da considerare di importanza secondaria l’efficacia di un’esperienza diretta professionale nei campi dell’indagine, dell’analisi, della progettazione o amministrazione, tra quanto indivisibilmente costituisce il processo urbanistico e di decisione.
Nel suo La Società Opulenta, Galbraith spiega come i nostri problemi non stiano nella capacità di produrre qualcosa, ma piuttosto nell’incapacità di scegliere ciò che vogliamo. Mi trovo perfettamente d’accordo su questo punto, anche se in alcune parti del mondo non si dovesse raggiungere questo livello di opulenza almeno per una generazione o due, visto che è è solo questione di tempo. Il successo della pianificazione dipende dalla capacità con cui si effettuano le scelte, prima che le decisioni vengano prese, e queste competenze in una società democratica vanno estese il più possibile. Ma se vogliamo davvero progredire, occorre sperimentare piani e programmi che non abbiano precedenti. Chiedere di scegliere tra ciò che è noto o che si ignora solleva enormi problemi per l’urbanista, che deve saper presentare in termini al tempo stesso interessanti ma realistici le trasformazioni che propone. Singoli interventi o progetti sparsi sono più facili da esporre in modo convincente, come testimoniano quelli per l’incredibile rete delle autostrade inter-statali, o il sostegno politico all’eliminazione del tugurio nelle città. Ma è raggiungere un ragionevole equilibrio negli investimenti pubblici in un quadro di pianificazione urbanistica che rappresenta l’obiettivo più difficile.
Ma resta una cosa forse più difficile ancora, ed è convincere i nostri attuali studiosi di scienze sociali, e architetti, e amministratori, che c’è bisogno della loro impegnata collaborazione, e che nessuno di loro (con l’atteggiamento specialistico attuale) può produrre un piano cittadino senza la cooperazione degli altri. Se vogliamo che la nuova figura dell’urbanista cresca sino a raggiungere la statura necessaria, occorrerà un atteggiamento più attento e collaborativo da parte delle professioni sorelle tradizionali. Pare inevitabile lo sviluppo di un ruolo nuovo, ed è auspicabile che gli altri lo sostengano per poter godere poi dei frutti del miglioramento ambientale.
Dalla sequenza di decisioni deriva la nuova città, le cui forme non seguono idee preconcette di qualche architetto o politico, ma dovranno sviluppare un’estetica connaturata alla nostra società, così come avvenuto nelle città del passato.Esprimerà varietà e ordine, se sapremo ribadire la più ampia facoltà di scelta in fatto di case, lavoro, tempo libero, istruzione. La città cresce secondo una volontà propria risultato diretto delle decisioni sociale del progresso tecnico-scientifico; la sua forma espressiva dipenderà dal genio creativo dell’architetto. Una bellezza organica identica a quella del veliero straordinariamente descritto da Greenough: «Guardiamo una nave sul mare, notiamo le maestose forme dello scafo che scivola sull’acqua, osserviamo l’aggraziata curvatura della chiglia e dello scafo che progressivamente si ingrossa o si appiattisce, la presa della parte immersa, lo slancio della prua, la simmetria intricata dei suoi pennoni e sartie, e le vele spinte dalla potenza del vento che la fanno navigare».
da: Harvey S. Perloff (a cura di), Planning and the Urban Community, University of Pittsburgh Press, 1961 –Titolo originale: Urban Design and City Planning – Traduzione di Fabrizio Bottini
Vedi dalla medesima raccolta anche anche Donald J. Bogue, Ricerca sociologica e formazione dell’urbanista