La correlazione fra casa e condizioni sociali è nota da tempo, ed è proprio per questo motivo che si sono sviluppate negli anni le attività di tanti riformatori, nei campi dell’abitazione e dell’urbanistica. Ciò che è meno noto, almeno sino a tempi recenti, è quanto articolata e complessa sia la correlazione fra gli ambienti fisici in cui trascorriamo la nostra esistenza, e la qualità di questa esistenza. Una consapevolezza che si è imposta gradualmente attraverso le esperienze di realizzazione di case pubbliche. Negli anni tra le due guerre, quanto più riuscivamo nel dare agli abitanti dei quartieri degradati nuovi alloggi, e nell’imporre criteri abitativi migliori, tanto più diventavamo consapevoli di quanto quei criteri quantitativi e di servizio fossero solo un aspetto della soluzione dei problemi della casa e dell’urbanistica.
Molti dei quartieri realizzati in quell’epoca sono straordinari riguardo alle qualità materiali, ma si avverte una carenza di qualità sociale, molto presente e evidente invece negli antichi quartieri degradati da cui provengono gli abitanti. Sono molti i modi in cui sono stati sarcasticamente definiti, questi nuovi complessi, ma colgono il segno qualifiche come quelle di “salubre deserto” oppure di “quartiere penale”, mentre si racconta anche di residenti che avrebbero ingrati abbandonato le nuove case, per tornare nell’assai più accogliente slum da cui provenivano.
Le condizioni per una vita appagante
Emerge che un’esistenza di relazioni sociali ricche e appaganti non nasce dalla pura buona volontà di un progetto, ma è più simile a una delicata piantina, che richiede particolari condizioni per mettere radici a crescere. Ma cos’è esattamente questa serie di relazioni sociali appaganti? Si tratta di una enorme domanda priva di risposta, che l’urbanista scarica sull’ignaro sociologo. Il quale naturalmente deve riformulare la questione secondo i propri criteri, ridurla in termini gestibili, confrontarla con specifici gruppi, prima di cominciare a rispondere.
In Gran Bretagna è già stato svolto un notevole lavoro in questo senso, anche se a costo di apparire ingenerosi si può affermare che i contributi sono isolati e poco numerosi. Lacune che si devono ad una sociologia non sufficientemente riconosciuta e insegnata nelle nostre università, il che significa anche pochi sociologi, e non tutti certo interessati ai problemi urbani.
Il dibattito americano
Al confronto, sono molto più fortunati gli urbanisti americani, in grado di attingere a risorse maggiori, dato che la sociologia è disciplina consolidata e assai sostenuta nelle università degli Stati Uniti. Quanto siano fortunati, lo si può verificare dal numero speciale del Journal of Social Issues (Vol. 7 n. 1-2) dedicato ai problemi per le scienze sociali che derivano dagli ambiti della casa e della città. Il primo caso di un simposio del genere, e credo si dimostrerà assai utile ad architetti, urbanisti e altri che operano in ambiti simili, oltre che agli scienziati sociali, dato che dimostra l’utilità di questi studi, il loro sostegno per l’urbanistica. Ma posso anche immaginare lo sconcerto di chi fa l’urbanista davanti al tipo di sostegno che si intravede. Nessuna rassicurante formula operativa, nessuna precisa indicazione a far questa o quella cosa. Ogni affermazione è una ipotesi, e attentamente valutata. Il che certifica sia la qualità dei contenuti, sia lo stato dell’arte nel dibattito sulla sociologia dell’abitare.
Fasce di reddito e razze
Gli autori, tra cui figurano personalità molto note come F. Stuart Chapin o Catherine Bauer, toccano un’ampia varietà di argomenti. In alcuni casi non si va molto oltre l’interesse scientifico, per quanto ci riguarda. Nel nostro paese non esiste ad esempio il problema di armonizzare i rapporti fra gruppi razziali nei complessi abitativi misti, come si racconta in uno dei saggi. E non credo neppure che da noi sarebbero in molti a sostenere che nel campo della casa si dovrebbe lasciare libero gioco alle dinamiche classiche della domanda e dell’offerta, con l’idea che il settore edilizio si concentri sulla realizzazione di abitazioni per le fasce di reddito superiore, mentre alla domanda delle fasce inferiori risponde l’offerta che “filtra” dall’alto. Insomma il contesto politico ed economico che negli Stati Uniti rende questa idea del filtro assai vivacemente dibattuta, da noi non esiste.
Il contesto britannico esaminato criticamente
L’aspetto di più immediato interesse per il lettore britannico è nel saggio di Henry Cohen. Cohen al momento direttore della ricerca per la Commissione Urbanistica della città di New York, e ha recentemente collaborato al coordinamento dell’indagine sociologica su Coventry per l’Università di Birmingham. Sfrutta questa esperienza di lavoro per il suo contributo, dal titolo “L’indagine sociologica come strumento di progettazione urbanistica e residenziale in Gran Bretagna”. Qui ripercorre le radici dei metodi di indagine, da Booth a Rowntree. Non tutti saranno d’accordo sul fatto che (lo sostiene a p. 36) sia l’affermazione del Labour nel dopoguerra a spingere per un ruolo essenziale dell’analisi sociale in urbanistica. Ma è senza dubbio condivisibile da tutti, che sinora questo tipo di indagine sia stato poco più di una raccolta di spunti e di dati. Non che essi non siano importanti, certo. Avere informazioni sulla rete commerciale e la sua utenza, la distribuzione dei posti di lavoro e il loro rapporto con le abitazioni, il variare degli equilibri demografici, tutto questo pone la decisione urbanistica in condizioni più obiettive.
Cohen apprezza e cita una frase del professor Sargrant Florence, secondo cui il sociologo deve «sporcarsi le mani» con l’edilizia e l’urbanistica. Difficile contraddirlo, se sta a dire che il sociologo deve avvicinarsi di più all’urbanista per comprendere i problemi. Ma forse Cohen intende qualcosa di più, lamentando che lo scienziato sociale spesso rifiuta di prendersi la responsabilità delle decisioni, conformando il proprio contributo in modi che si rivelano privi di utilità per il progettista. L’urbanista vorrebbe indicazioni pratiche, su particolari forme organizzative degli edifici che promuovano comportamenti auspicabili, o su una struttura dell’alloggio in grado di facilitare le relazioni fra i membri della famiglia. Ed è anche vero che al sociologo piacerebbe, essere in grado di fornire indicazioni simili. Il problema è che non si trova nella situazione di darle, e secondo alcuni non lo sarà mai. Senza entrare nello spirito delle decisioni, responsabilità del sociologo è di resistere alle pressanti richieste dell’urbanistica per “indicazioni tecniche”, abituando i colleghi progettisti ad accettare quegli spunti di carattere generale.
I limiti della valutazione
Fra i motivi per cui un sociologo non è in grado di fornire “indicazioni tecniche” ci sono quelli sposti nel saggio di Svend Riemer, “Architettura per la vita familiare”. Dove si sottolinea come molti dei metodi usati in altri ambiti della ricerca sociologica non siano certo facili da trasferire al campo dell’abitazione. Le preferenze, ad esempio, non si possono valutare attraverso la normale indagine via questionario, perché rilevatore e intervistati dovrebbero prima di sapere quanta possibilità di scelta c’è, e di solito non succede. Altra difficoltà nasce dai cambiamenti che emergono introducendo innovazioni come la lavatrice, la televisione, o dalla scomparsa di figure quali i collaboratori domestici o le consegne a domicilio. Sono cose che cambiano l’organizzazione della residenza, e cambiano anche i criteri di desiderabilità a cui il sociologo dovrebbe far riferimento.
Alcuni saggi utili
“L’organizzazione sociale nella realizzazione di alloggi” di Demerath e Baker, esamina la produzione edilizia da un punto di vista insolito. Gli autori sostengono che la ricerca per essere utilizzabile si deve adeguare e avvicinare ai criteri propri del settore. L’edilizia americana si basa su alcune decisioni strategiche importanti, ne vengono individuati i nodi e i responsabili, nonché i metodi. I lettori inglesi troveranno interessanti il saggio di William H. Form sulla stratificazione sociale, e il lungo contributo di Catherine Bauer, che di fatto delinea la frontiera della sociologia in questo campo. Nonostante gran parte dei materiali raccolti non siano una novità, nel nostro paese essi non sono facilmente accessibili nella forma originale. Gran parte dei saggi è dotata di ampia bibliografia, e nel complesso si ricompone un utilissimo quadro di quanto è stato prodotto sino ad oggi. L’urbanista che volesse scoprire cosa sta facendo la sociologia, può certamente approfittare di queste pagine.
Si vedano anche, su questo stesso sito, a proposito degli stessi temi di rapporto fra spazio e società, le indicazioni quasi contemporanee dell’INA-Casa per gli architetti italiani, in particolare per il rapporto fra abitazioni e servizi collettivi (n.d.t.)
Estratto da: Town and Country Planning, marzo 1952 – Titolo originale: The Sociologist and the Planner – Traduzione di Fabrizio Bottini
Immagine di copertina da: Birmingham Fifty Years On, 1950